martedì 29 settembre 2009

una buca a manhattan

Sapete, ieri sera avevo un appuntamento con una ragazza ma la ragazza all’ultimo mi ha dato buca con un sms. L’ho presa con filosofia, anche perché ultimamente io e le donne sembriamo viaggiare su pianeti diversi, le ho risposto “divertiti” e invece di demoralizzarmi mi sono guardato un bel film, un classico, come faccio ogni volta che mi capitano certe situazioni. Un classico funziona sempre per tirarsi su, oppure per crogiolarsi nelle proprie paturnie ma dolcemente, senza scosse o altre brutte sorprese. Un classico ci vuole perché è come un vecchio amico, lo senti vicino, tuo, ti racconta una bella storia, una che ami particolarmente, di cui magari conosci ogni singola battuta a memoria, e non ti chiede niente in cambio che non sia un po’ della tua attenzione e del sentimento.
Così ieri sera mi sono guardato per la quattordicesima o quindicesima volta (credo) Manhattan di Woody Allen, e da ciò voi potete tranquillamente trarre due conclusioni. Primo che le donne mi danno buca spesso e di conseguenza le mie serate sono alquanto tranquille. Secondo che adoro questo film alla follia. Ogni volta che lo vedo mi ci perdo dentro. Per quel che ne penso è il capolavoro di Allen ma è pure l’erede di un certo tipo di cinema sofisticato e romantico insieme, che non si fa davvero più, forse perché non abbastanza premiato al botteghino. Chissà perché, fra pura bellezza e cinepanettone vince sempre il cinepanettone (presto, credo, finanziato anche dallo Stato)...



Sapete, se c’è un regista che davvero sento vicino come sensibilità, come visione del mondo, come spirito, quello è Woody Allen. Molto spesso i suoi film mi commuovono e mi lasciano qualcosa dentro che mi turba anche per dei giorni, dopo che li ho visti. E così torno sempre a guardarli. Per me sono una continua fonte di ispirazione.
Manhattan ha una scrittura splendida, forte, concisa, senza fronzoli, solida eppure scorrevolissima. La fotografia, di Gordon Willis, è da brividi. La scena iniziale (qui sopra) è, presa di per sé, la summa della poetica di Allen. La storia tratta con la solita vena melanconica le mille contraddizioni dell’amore e l’incapacità di fondo, delle persone, di riuscire a creare dei legami stabili (lo so che c’è chi non sarà d’accordo, ma è pur sempre la sua visione delle cose, mica per forza deve coincidere con la vostra). Poi arriva il finale (qui sotto) e incredibilmente, perché è così raro nei sui lavori e negli ultimi praticamente impossibile, un film di Allen lascia una porta aperta alla speranza. È un finale geniale, bello, dolcissimo, che non vi sto a riassumere perché è mille volte meglio vederlo che sentirlo raccontare da me.



Solo una cosa, quel sorriso che chiude il film, beh, sapete, io credo lo abbia rubato a Fellini, al finale de La dolce vita, però è solo una mia idea. “Bisogna avere un po’ di fiducia, sai, nella gente” gli dice lei (si dice lui, ovviamente, come monito per la vita). E lui non risponde, cosa potrebbe mai dire?, ma quel sorriso è una promessa. Meraviglioso!

venerdì 25 settembre 2009

chiacchiere e ricordi

Si chiamava Francuccio e gente un po’ più grande e scafata di me mi dice che era ovvio perché i froci si chiamano tutti Franco e lui sapeva fare dei lavori di bocca che manco una puttana ci riusciva! Tanto che, puttana lui stesso, aveva per clienti molti dei nomi altolocati del paese, gente insospettabile, seri professionisti, politici e trafficoni vari con o senza famiglia, che si mormorava fossero stati visti (ma solo per caso, intendiamoci!) entrargli in casa a tarda notte per partecipare a qualcuno dei festini a base di sesso e droga che Francuccio organizzava di tanto in tanto. Persino qualche vecchio comunista ci era andato, di quelli della linea dura che queste cose le hanno sempre schifate, almeno in pubblico. Questo è quello che la maggior parte della gente si ricorda di lui, e poi che morì a metà anni ottanta di una malattia che molti non sapevano pronunciare ma che all’epoca veniva definita il male del secolo.
Io invece mi ricordo, perché Francuccio era il mio vicino di casa quand’ero piccolo, anche se questo non lo sa nessuno di quelli che mi raccontano certe storie, e se lo rivelo subito si zittiscono un po’ a disagio, io mi ricordo che era un amico di mia madre e il pomeriggio presto veniva a prendere il caffè da noi. Papà lavorava fino a tardi e con lei parlavano di cucina e cucito e giardinaggio, era una visita gradita. Ed era divertente, diceva mia madre, perché di questo fatto non spettegolava mai nessuno, mentre se fosse entrato in casa nostra a quell’ora un qualsiasi altro uomo, apriti cielo sul paese!
Viveva in un piccolo trullo, adesso abbandonato, su via Alberobello. Noi stavamo nella casa accanto, che ora non c’è più perché ci hanno costruito sopra un condominio. E fra le due case c’era un piccolo giardino comune dove con mia madre coltivavano le rose e dove noi due giocavamo sempre ai cow-boy e agli indiani. E un anno, per il mio compleanno, mi ricordo che mi comprò il cappello da sceriffo e la stella, ma non la pistola perché non gli piacevano le armi e non voleva, anche se all’epoca non lo capivo e ci restavo male, che le maneggiassi, anche solo per gioco. Non mi ricordo più nulla di lui, né che faccia avesse né la voce o i piccoli gesti, o come si vestisse, o il modo che aveva di esprimersi. Mi ricordo solo che tutti i pomeriggi giocava con me, senza mai annoiarsi. Poi a una certa ora della sera se ne andava sulla sua 500 (o era una 126, non ricordo più bene, tranne che fosse una macchina piccola) e anche se ci rimanevo male e piangevo in qualche modo sapevo, avevo capito, che non l’avrei rivisto fino al giorno dopo, quando mi salutava dalla porta mentre andavo all’asilo.
Ora so che mio padre non aveva molta simpatia per lui, non tanto per i suoi gusti sessuali (cazzi suoi!, appunto) ma soprattutto per come si guadagnava da vivere. Forse un po’ era anche invidia, chissà? Mio padre, che faceva due lavori per mantenerci non riusciva a guadagnare in un mese quello che Francuccio metteva insieme in pochi giorni di marchette. Francuccio però non parlava mai di queste cose con nessuno, era sempre discreto ed elegante e con mamma e me carino e disponibile. E papà metteva da parte le sue critiche perché in fondo lui non c’era mai e una mano fra vicini è sempre utile.
Ricordavo anche che da qualche parte avevamo in casa una foto di noi tre insieme in giardino, vicino alle rose, io mamma e lui, ma quando ho chiesto a mia madre lei non sembrava rammentarla e forse potrei anche essermi sbagliato. Magari quella foto non è mai stata scattata, oppure mi confondo e siamo con papà. Mi resta dunque solo la sensazione di un’ombra, qualcosa a metà fra memoria e sogno, e poi le chiacchiere della gente quando vado in giro a chiedere, che non coincidono mai con l’immagine che ho in testa. Chiacchiere e ricordi non vanno d’accordo ma in fondo può anche essere che nella realtà convivano perfettamente in qualche loro strano equilibrio e sono invece io che, come spesso mi rimproverano, devo aprire gli occhi e farmi furbo.

giovedì 24 settembre 2009

l'amore rubato



Ierisera mi trovavo a Bari per compere e mentre giravo per scaffali mi è capitato di notare una coppietta. Erano due ragazze così palesemente innamorate e prese l’una dall’altra da non accorgersi nemmeno del mondo intorno a loro. Letteralmente camminavano a dieci centimetri dal suolo. Erano così dolci che ho provato a rubare un loro bacio. Lo so, lo so, non si fa ma se fosse per tutto quello che non si dovrebbe fare… insomma, ho tirato fuori la macchina dalla borsa, ho fatto uno scatto veloce e zac!, un commesso è intervenuto strappandomi la macchina di mano e informandomi che non si potevano fare foto e sibilandomi subito dopo che ero un pervertito. Roba da matti! Ma pervertito ci sarai tu!, ho risposto incazzato. Mi sono ripreso la macchina è ho raggiunto i miei amici al piano di sotto. Non so, probabilmente ho sbagliato anche io, ma ho il serio sospetto che se a baciarsi fosse stata una coppia etero non mi sarei beccato quel commento inappropriato. Intanto però mi resta questa foto che forse non è perfetta ma per me dice tanto e l’amore resta amore, qualsiasi forma abbia, e ci saranno sempre dei ladri che proveranno a rubarlo.

domenica 20 settembre 2009

mi persi

A fine luglio dello scorso anno eravamo ospiti, con Martin e altri di un comune amico a Imperia, il Durca, come lo chiamavano. In genere passavamo le mattine girando per i paesini dell’entroterra, semi abbandonati oppure occupati da hippie venuti lì da mezza Europa. E la sera facevamo lunghe passeggiate sul porto ventoso o ci mangiavamo un gelato e chiacchieravamo fino a tardi sulle scale della chiesa di fronte a casa sua. Era divertente. Salvo che, come sempre mi succede da che ho cominciato a crescere, avevo dei problemi con una ragazza rimasta a casa, per cui non la chiamavo per evitarci discussioni al telefono, le peggiori, ma incapace di staccarmi del tutto, le mandavo dei messaggi con dei brevi allegri resoconti delle mie giornate, sperando di farla ridere. Lei tentennava nelle risposte, voglio dire che a volte mi rispondeva e a volte no, in base all’umore. Poi smise del tutto di scrivermi, senza nessuna spiegazione e non l’ho più sentita per i due mesi successivi. La cosa, lo ammetto, non mi fece piacere ma, visto che come detto mi capita di continuo, ho imparato a convivere con certe situazioni. Per cui mi tenni il magone in gola e andai avanti per la mia vacanza, mai triste e mai completamente felice.
Una sera poi, gli altri erano particolarmente stanchi e si decise di non uscire. Tutti, dopo cena, se ne andarono a letto. E io che invece non riuscivo a prendere sonno me ne rimasi in cucina. Cominciai a sfogliare i dischi del Durca, e fra gli altri mi ritrovai fra le mani l’ultimo di Daniele Silvestri, un artista letteralmente adorato da ragazzo, che avevo addirittura "toccato con mano" a Roma alla premiazione di un concorso, ma che avevo perso di vista da un po’ di tempo. Il disco si intitolava Il latitante. Controllai i titoli delle canzoni: c’era la Paranza, l’unica che conoscevo e l’unica che in effetti non volevo proprio sentire, troppo fracassona per me, quella sera. Gli altri titoli però mi ispiravano: Mi persi, Sulle rive dell’Arrone, Io fortunatamente, Ancora importante… Così, già che c’ero e visto che mi piacevano sia il titolo che la copertina, decisi di dargli un’occasione ma a basso volume, per non disturbare. Mi sistemai davanti al balcone, con le porte aperte e le finestre spente dalle case di fronte. Era fresco e si sentiva, ma faceva piacere contro la pelle. Seduto in una poltroncina di vimini, il viso contro la mano, diedi un grosso sospiro e schiacciai play. E non fui deluso.
La notte entrò dalla finestra nella stanza, tutta intorno a me fin dalla prima canzone. Arrivò a nascondere sotto una coltre buia il mio magone, tanto che per un’ora circa non mi riuscì più di vederlo. Persino con la Paranza. E per la prima volta dall’inizio di quella vacanza mi sentii completamente liberato ascoltando nitidamente il suono, la voce di quello che provavo. Fu un’esperienza catartica. O così mi pare venga definita dagli esperti. Ascoltai quel disco due volte e poi riascoltai un paio di canzoni una terza volta. Dopodiché chiusi la finestra, ricacciando fuori il buio, e me ne andai a dormire più sereno, ben sapendo che il giorno dopo il mio magone sarebbe stato ancora lì, al suo posto.

dopo l'amore

Il sesso fa bene, mette allegria. L’avevo quasi dimenticato, tanti mesi erano che non toccavo una donna, per amore. L’amore è inutile in queste cose, l’avevo quasi scordato, soprattutto se non corrisposto. È che in fondo sono un impenitente romantico e pensare di poter avere un rapporto con un’altra donna che non fosse quella che mi stava fissa in testa non mi riusciva, lo ritenevo quasi un tradimento. Dei miei sentimenti, se non altro. Immagino di non essere mai cresciuto in queste cose, sono ancora un ragazzino in fatto di donne. Poi un giorno ti accorgi che sei l’unico che si è sempre preoccupato di queste cose e ti senti quasi uno sciocco per esserti imposto per tanto tempo una solitudine senza scopo. Nessuno ti ringrazierà per questo, nessuno te lo ha chiesto ti risponderanno. E va bene ok ho sbagliato anch’io con te, e tanto, ma ti amavo e finché ho potuto non ho mai sfiorato un’altra con un dito. Avrei voluto ma non sono mai riuscito a dirlo, forse per orgoglio. Ora è diverso, ora so che l'amore non c’è, ora che forse tutto è cambiato e possiamo ancora parlare d’amicizia. Va bene, è inutile crearsi altri problemi. Forse per dimenticare completamente, come a volte desidero con tutto me stesso, ci vorrà del tempo. Forse arriverò a un tale grado di maturità un giorno da non volermi più scordare di nulla, perché so che senza di lei sarei più povero ma non sempre riesco a crederci. Forse quando tutto sarà passato le vorrò anche più bene di così. Ma ora ho 32 anni, piaccio incredibilmente a qualcuna, e il sesso fa bene, lo sanno tutti. Ed è così facile, senza complicazioni. Io l’avevo dimenticato appena un attimo, sedotto da sentimenti più grandi di me. Ma ora mi rimetto in carreggiata, giuro, ho appena cominciato. Ed ho ancora molto tempo davanti, e occasioni a migliaia, finché non m’innamorerò di nuovo.

martedì 15 settembre 2009

lezioni di poetica

Un buon artista, mi ha detto il maestro di fotografia, normalmente dovrebbe saper parlare di tutto, affrontare qualsiasi argomento. Poi è ovvio ci sono cose che ti prendono più di altre, argomenti che senti di più e in maniera assolutamente tua e lì nasce una poetica. Ci sta. Per quanto mi sforzi, ad esempio, tutto mi riesce di fare meno che di fotografare un tramonto. Mi sembra una gran fesseria. Un tramonto è bello sedersi è guardarlo. Fotografato è solo una macchia di colore. Ma questo, è ovvio, è solo la mia opinione. È che mi piace vivere e quindi cerco sempre di non perdermi nulla, per quel che posso o che la mia pigrizia congenita mi permette. Poi sarà la mia ben nota “sensibilità” ma torno sempre sugli stessi argomenti.
Le due poesie di seguito sono state scritte la prima il 24 dicembre del 2006 e la seconda il 15 settembre 2004, come annotano le date sul mio taccuino. Scrissi la seconda a Roma ospite di amici e la prima a casa, al ritorno da un viaggio, ed è strano come mi ricordi così bene questa cosa ma non dove fossi andato: è che il senso di colpa che ancora sento per non essere stato lì dove avrei dovuto ha annullato tutto il resto. Descrivere l’argomento di entrambe mi sembra superfluo.
Il fatto è che pochi giorni fa un’amica mi ha chiesto di poter leggere tutte le mie poesie ora che sono in standby con la scrittura, e dando un’occhiata ai miei file per vedere che non ci fosse niente di troppo sconveniente da mandarle (ho anche cose sconvenienti nascoste nel mio armadio) ho riletto queste due che, a onor del vero, sono fra le mie preferite, tanto che mi capita spesso di leggerle quando partecipo a qualche reading. La prima in genere è per me quasi un voto necessario, il modo di pagare un vecchio debito, un tributo dovuto a un amico. La seconda invece è la poesia con cui di solito concludo sempre le mie letture. La poesia delle poesie, la più letta in assoluto delle mie! A me piace. Voglio dire che c’è del mio anche qui. Per lo più quando la leggo scateno perplessità iniziale seguita da una grassa risata finale. Che dirvi, come si potrebbe rinunciare, a fine serata, dopo tanta “intensità poetica” a tutti quelli che ti si avvicinano e ti dicono con un bel sorriso: “però che tipino che sei, mica sembravi!”

POESIA PER LA MORTE DI GIOVANNI CORBASCIO, IL BRASILIANO

Non è vero che la morte ci accomuna.
Né che ci consola il pensiero degli estinti.
Non lenisce sofferenza alcuna il saperti ormai
al riparo da tutte le cadute o i capitomboli
a te destinati dal tuo nome. Non eri
di questa terra. Non di nessuna in particolare.
Andavi per mare infatti, litri di grappa profumata,
ondeggiante, navigavi. Ti svegliavano a volte
con una secchiata d’acqua dolce, ma non era quello
il tuo elemento. Reagivi chimicamente
alle lacrime… Anche ora che ti ricordo così,
ché non ero presente alla tua veglia, né
ho accompagnato alla tua tomba il gatto nero
tuo compagno di stanza, mi sento
in colpa. Chissà se ti hanno sepolto con
addosso il tuo vestito buono, i tuoi scarpini
a centinaia e il tuo ritratto di Mussolini
in divisa. Chissà se ti hanno restituito
tutti i chili di carne rubati dai medici
negli ultimi mesi o i tuoi quaderni sparsi
fra gli ospedali. Mi hai stretto la mano
l’ultima volta, come sempre facevi.
Con cortesia e rabbia. Ma stavolta eri sobrio.
È caduto l’impero romano, mi dicesti
citando forse inconsciamente il Leopardi,
cadrà pure l’americano, prima o poi…
Ti porterò un fiore in una bottiglia.
Aggiungerò nel cassetto la tua foto alle altre.
L’ho strappata via a un manifesto. Mi sembrava
un bel gesto romantico, nel tuo stile.
Ti penserò, hermano, sul fondo del cassetto.


INCORONAZIONE

Il mio glande incoronato
dal tuo morso, bluastro il segno
d’un dispettoso dentino
sulla golosa fragola rossastra,
sul mio piccolo cuore slabbrato.
A te sempre ripenso, ogni volta
che piscio.

martedì 8 settembre 2009

sweet sorrow

Niente paura, le paturnie son passate. Però, visto che non c’è due senza tre e il tre è sempre un numero perfetto, ho pensato di improvvisare una sorta di trilogia sull’assenza della persona amata in musica, concludendola con un pezzo che ho molto a cuore.
Sapete, è un po’ che ci penso e più vado avanti più sono convinto che ci siano poche cose davvero necessarie, e che magari a volte non sai nemmeno che esistono ma quando le scopri non puoi più rinunciarci, e che ci sono persone che invece pensano siano cose inutili e non si rendono conto che senza sono un po’ più povere e tristi.
I Beatles sono necessari. Questo penso. Sono sempre stato un loro fan ma più vado avanti e più mi convinco che non se ne può fare a meno. In verità sono sempre stato soprattutto un fan di Lennon. Ma ultimamente, riascoltandoli col senno dell’età, mi rendo conto che chi dice che Paul McCartney è un genio ha pienamente ragione. Non si può trascurare l’uno per l’altro, è da pazzi. Ovvio, ci sono momenti in cui, preso dal suo innegabile romanticismo è anche scivolato nel sentimentalismo più smielato, ma lì dove l’ispirazione si è mantenuta lucida, lì dove la visione è rimasta pura, non compromessa dall’istinto commerciale, McCartney ci ha regalato alcune delle più belle melodie del secolo.
Quella che vi metto qui sotto si intitola Here today, ed è stata scritta nei primi mesi del 1981 dopo la morte di Lennon. Io personalmente la ritengo il suo capolavoro da solista, e anche lui l’ha inserita nella lista delle sue cinque canzoni preferite fra quelle da lui composte. Le altre sono Here there and everywhere, Hey Jude, Backbird e Maybe I’m amazed. Sono tutte canzoni meravigliose che vi linko così se vi va potete andare ad ascoltarvele.
Se fate attenzione potete notare due cose. Prima cosa: nella lista manca Yesterday. Ma questa è più che altro una curiosità. Seconda cosa, tutte le canzoni della lista, a parte Here today, sono state scritte negli anni ’60, quando McCartney era ancora coi Beatles e viveva quello che lui stesso ha definito il periodo più bello della sua vita. In fondo i Beatles sono stati e restano nella storia come un gruppo fatto di amici prima ancora che di musicisti. Tutta la loro arte nasce dall’idea di un’amicizia saldissima, assoluta, la cui forza è il risultato del contributo, necessario, di tutti. E McCartney è quello dei quattro che nel sentimento di un’amicizia che possa superare ogni ostacolo ha creduto di più. Anche Here today, se ci pensate, unica canzone della lista scritta un decennio dopo le altre, si ricollega ad esse per il fatto di essere stata ispirata da Lennon, dal senso di vuoto che la sua perdita gli aveva scavato dentro e dall'estremo tentativo di cercare di comunicargli (se tu fossi qui adesso...) tutte le cose che non era riuscito a dirgli in vita. Per questo Here today resta, pur nella sua mesta disperazione, uno degli inni più intensi al potere di un’amicizia così forte da andare oltre la morte.

lunedì 7 settembre 2009

paturnie di lunedì pomeriggio

Ok, lo ammetto, vado nostalgico di questi giorni... del resto lo sono sempre stato e allora cazzo volete?
Questa è una grande canzone di quand'ero ragazzino rifatta da uno dei miei cantanti preferiti di quand'ero ragazzo... Il fatto è che avrei da dire milioni di cose ma in questo momento non ho molte parole per farlo e nemmeno tanta voglia di provarci... E allora meglio una bella canzone che una lunga lagna...

ritratto di bambina

domenica 6 settembre 2009

paturnie di domenica pomeriggio

Non ho molte parole oggi a portata di mano. Menomale che c’è la musica per crogiolarsi nelle proprie paturnie.



PUGNI PIENI D'AMORE

Ero steso sul mio letto la scorsa notte, fissando
il soffitto pieno di stelle
quando improvvisamente mi ha colpito il pensiero
dovevo assolutamente farti sapere cosa provo

Viviamo insieme in una fotografia del tempo
ti guardo negli occhi
e i mari si aprono per me
ti dico che ti amo
e che ti amerò per sempre
e so che tu non puoi dirmelo
so che tu non puoi dirmelo

Così sono rimasto a raccogliere
gli indizi, i piccoli simboli della tua devozione
così sono rimasto a raccogliere
gli indizi, i piccoli simboli della tua devozione

E sento i tuoi pugni
e so che non sei innamorata
e sento la frusta
e so che non sei innamorata
e sento i tuoi occhi di fuoco scavare dei buchi
attraverso il mio cuore
non sei innamorata
non sei innamorata

Lo accetto e colleziono sul mio corpo
i ricordi della tua devozione
lo accetto e colleziono sul mio corpo
i ricordi della tua devozione

E sento i tuoi pugni
e so che non sei innamorata
e sento la frusta
e so che non sei innamorata
e sento i tuoi occhi di fuoco scavare dei buchi
attraverso il mio cuore
non sei innamorata
non sei innamorata

Dammi un po' di amore serio
dammi un po' di amore pieno
sii piena d'amore

Pugni, pugni, pugni pieni d'amore...

giovedì 3 settembre 2009

notiziario del mattino

Mi preparo un caffè prima di uscire e accendo la tv per riconnettermi col mondo. Ascolto: Berlusconi vuole far causa all’Unità per diffamazione e se vince sarà una nuova era nei rapporti fra politica e giornalismo, un’era vecchia di ottant’anni. Migliaia di poveracci in sciopero perché buttati fuori dalla scuola, molti miei amici fra loro, sanno che non risolveranno niente marciando ma comunque si aggrappano alla debole speranza che se stiamo insieme ci sarà un perché. Intanto a Napoli un gruppo di minorati psichici, o branco di stronzi se preferite, ha ripetutamente abusato di una ragazzina e quando senti una cosa così cosa puoi dire? Che forse le ronde non sono poi una così cattiva idea, soprattutto se ben armate, e nemmeno la castrazione chimica ma se lo dico non mi riconosco e allora sto zitto e mi bevo il mio caffè e mi affaccio sul giardino e vedo il sole e non ho voglia di andare a lavorare e mi chiedo se serve a qualcosa andarci e mi dico che il mondo è troppo feroce e soprattutto va troppo veloce per me e c’è il sole e quasi quasi stacco la spina dal mondo stamattina e me ne vado in campagna a rubar fichi. Fino a domani.

mercoledì 2 settembre 2009

september (in ricordo della ragazza a cui l'ho regalata e della sera in cui questa canzone è tornata a casa)

Sapete, a metà degli anni novanta gli alternativi del mio paese, almeno quelli che non si drogavano forte, si riunivano tutti nel locale alla Rutedda. La Rutedda era una piazzetta chiamata così a causa della vecchia casa per gli orfani che aveva davanti la ruota degli esposti. Ma qualcuno la chiamava anche la piazza rossa, per via del nostro locale. Che poi chiamarlo locale era pure troppo. Un rimessone con due stanzini e un bagno con la porta scassata che non si chiudeva mai bene, e povere ragazze mi viene ora da pensare. In una delle due stanze, tutta ricoperta di scatole vuote delle uova per insonorizzarla, provava il gruppo e nell’altra c’erano ammucchiati sui lati tutti i divani che eravamo riusciti a raccattare intorno ai bidoni dell’immondizia. Ce n’era uno, mi ricordo, che non aveva una gamba e allora noi gli togliemmo le altre tre e chi si sedeva si ritrovava quasi col culo per terra e poteva solo stendere i piedi in avanti, in mezzo alla stanza e tutti dovevano fare attenzione a non inciamparci. La stanza dei divani era completamente ricoperta di foto e ritagli di giornale di musicisti o eroi della letteratura o dell’arte che ammiravamo. Non c’erano finestre e con tutti quegli occhi puntati addosso il locale era cupo e claustrofobico, proprio come piaceva a noi, che eravamo giovani (ma già vecchi dentro!) e assolutamente contro. Contro che? Contro tutto. Dicevi la politica: eravamo contro la politica. Dicevi la chiesa: eravamo contro la chiesa. Dicevi la mamma: eravamo contro la mamma. Contro tutto.
C’era anche un cagnetto senza nome, di quelli col pelo lungo, che sapeva solo pisciare dovunque si trovasse ma soprattutto sulla batteria di Andrea il piccolo. Gli avevamo fatto una cuccetta davanti al locale e un giorno d’estate che aveva caldo lo rasammo a zero, lasciandogli solo un ciuffo di peli sulla testa. Qualcuno ebbe la geniale idea di passarli col gel. Ricordo quel pomeriggio in maniera sfocata, eravamo tutti strafatti e guardavamo questo cane con la cresta punk gironzolare per la piazza e scoppiavamo a ridere come idioti ogni cinque minuti. La gente pensava che fossimo pazzi e assolutamente da non frequentare e a noi andava bene così.
Io non suonavo. Quando gli altri provavano mi sedevo in un angolo e facevo schizzi e disegni dei componenti del gruppo. Penso che ognuno di loro ancora oggi conservi un mio ritratto di quei tempi. Poi ci si sedeva di là e si parlava per ore di rock, di libri, di futuro, di “compromessi zero!”, o ci si fumava una canna. Quasi nessuno aveva la macchina così non è che si potesse fare tanto a parte quello. Poi ogni tanto si veniva fuori a rivederci il mondo o si risaliva in villa per socializzare coi mortali nostri fratelli o si andava alla cantina di Anna per bersi una birra. Era bello e cool.
A organizzare tutta la cosa erano stati due ragazzi che se vi dico i nomi vi mettete a ridere: Tony il mostro e Ciccio Sabato. Intorno a loro gravitavano tutta una serie di personaggi altrettanto fuori come Michele Che, James, Tony Killer (noto però ad alcuni come Tony il bannista, perché per arrotondare suonava nella banda ai funerali, ma sempre di morte si trattava e allora…) e poi Andrea il piccolo, per distinguerlo da Andrea il grande suo cugino, l’uno alto un metro e cinquanta, l’altro quasi due. E Loredana e Vera e poi Nica, magrissima e bellissima, e poi si scoprì anche anoressica. C’erano tanti di quei problemi in quel gruppo di scalcagnati ragazzi da non credere. Solo che non ce ne rendevamo conto nemmeno noi. Una sera feci a botte con Andrea il piccolo. Dissi che sua mamma era una vacca e anche se eravamo tutti contro la mamma lui mi saltò addosso e ci pestammo di brutto. Ci vollero due persone per separarci.
Un giorno Tony il mostro venne mollato da Loredana, che era la sua ragazza da tanto di quel tempo che nessuno se ne ricordava l’origine. Fu una tragedia, anche perché Loredana era l’unica con la macchina e non sapevamo più come muoverci quelle poche volte che dovevamo allontanarci. Tony era contro l’amore ma mi ricordo che ci fu un lungo periodo in cui ogni tanto, in seguito a questo fatto, lo si vedeva svenire. Immaginatevi sto tizio magro come un chiodo e con lo sguardo feroce e i baffi nerissimi che sembrava Frank Zappa cadere all’improvviso per terra svenuto, sospirando “Ah Loredana!”. Era proprio buffo. Noi gli stavamo sempre intorno per sorreggerlo. Non ho mai visto nessuno svenire per amore. Non mi è più capitato. In quei giorni Tony si comprò questo disco, Secrets of the beehive di David Sylvian e prodotto da Ryuichi Sakamoto, che ci ascoltammo e riascoltammo infinite volte e ognuno l’ha legato indelebilmente a quel periodo. The boy with the gun od Orpheus per me sono quasi dei bottoni per il flashback. Innescano il meccanismo automaticamente.
E oggi che sono tutti scomparsi dalla mia vita, a parte Ciccio Sabato e Michele Che, che ancora mi accompagnano nei miei reading, mi resta solo una canzone, la mia preferita di quei tempi, per ricordare a me stesso (e contro tanta disperazione dei giorni passati) che non bisogna mai dare del giovane a un “giovane contro” e che i tempi del rock non sono ancora finiti, almeno non per me. E a culo tutto il resto.



Ecco il mio film, se mai potessi farne uno.

martedì 1 settembre 2009

la recensione di fabiano alborghetti al mio primo libro

ANTONIO LILLO, L’INNOCENZA DEL MALE
LietoColle Editore, Faloppio, 2009, pagg. 53, poesia


Gli esordi sono un piacere da leggere, specie quando sono attesi. La prima volta che ho letto una poesia di Antonio Lillo è stata durante la scelta di poesie che porterà alla composizione del volume Il segreto delle fragole 2008, da me co-curato con Giampiero Neri. E la poesia scelta fu una vera sorpresa quanto lo scoprire che l’autore era quasi del tutto inedito.
Ora non più ed ho tra le mani L’innocenza del male, sua opera prima che in apertura si fregia di una attenta prefazione di Guido Oldani.
L’esplorazione del rapporto tra esperienza e conoscenza è probabilmente uno dei più frequentati dalla filosofia, così come lo è in poesia. Meno consueto è collegare i due fattori all’innocenza: intuitivamente l’innocenza rimanda (quasi esclusivamente) ad uno stato prelapsario (antecedente al peccato originale), ad un’infanzia incorrotta oppure alle cosiddette virtù monacali. L’innocenza è ciò che non può essere dimostrato attraverso i procedimenti della ragione discorsiva ma Lillo ribalta il senso tramite un ossimoro, l’innocenza del male appunto, e s’addentra con linguaggio diritto e dosato, con incursioni (rare) nel vernacolo (il dialetto usato è quello parlato a Locorotondo, terra dell’autore) verso il tentativo di determinare un agente morale che tramite la caratterizzazione della soggettività porti all’esperienza, là dove il soggetto morale non è solo un animale dotato di linguaggio bensì un catalizzatore di esperienza. L’errore è credere che l’esperienza sia solo un fascio di sensazioni. Accade, certo, ma in luce di una sedimentazione stratificata che porge nuovi significati e cambia i precedenti. Questa “esperienza strutturata” sa di essere una somma di eventi antecedenti (quindi non soltanto un mero catalizzatore). La coscienza che ne segue è la coscienza di un io votato al mondo dove poi inserire l’io corpo che ne è la condizione.
Lillo si contrappone però al divenire ameba immersa in un grande omogeneizzato (cito dalla prefazione di Oldani), cosi come sa che senza il mondo sociale l’individuo non sarebbe altro che una astrazione ed è qui il punto: restare (meglio ancora: essere!) nella fioritura umana (i trent’anni dell’autore) senza divenire omologazione, scoramento, ammaestramento. L’autore è consapevole dello sdoppiamento riflessivo del sé, delle ragioni che costanti portano al conflitto (anche interiore) e che è una guerra riappropriarsi di quell’io originario, spontaneo, innocente e quindi autentico.
Se da un lato è necessario subire (stratificarsi del e nel male), dall’altro resiste l’atto libero dell’attenzione (e della sorpresa) che non contrae su di un unico punto focalizzato e localizzato del tempo e dell’esperienza (come un riflesso condizionato). È qui che esiste o rinasce l’innocenza.
Apparentemente parrebbe un libro di difficile percorso: non lo è.
Pregio di Antonio Lillo è scrivere come mangia: ha letto e molto e si sente. Cita grandi poeti, anche contemporanei (un esempio immediato e diritto d’inizio volume: a pagina 12, Pagliarani) ma non li copia. Ulteriore punto a favore è la tecnica, capita e messa da parte per trovare quella spontaneità che caratterizza un dettato personale. Viene usato con sicurezza l’enjambement, l’ipermetro ma qui o là affiora una certa prosasticità che andrà limata strada facendo. Suggerisco di muovere – inoltre – con maggiore sintesi per non annacquare un dettato che evidentemente arriva da un lavoro di forgiatura. Si dia adesso il tempo di curare questo volume, portarlo avanti: lavorare intanto senza fretta per rafforzare una lingua che ha sicuramente una buona strada avanti e questo esordio in sicurezza lo conferma. Del lavoro impervio e terribilmente duro che attende chi scrive poesia, Lillo è però consapevole, tanto da porre anche a sé stesso un promemoria in epigrafe: Per me/ Povero più di prima/ che non ero pubblicato. Chapeu!

Fabiano Alborghetti

(Pubblicata su Alleo, il 03-04-2009)