martedì 15 settembre 2009

lezioni di poetica

Un buon artista, mi ha detto il maestro di fotografia, normalmente dovrebbe saper parlare di tutto, affrontare qualsiasi argomento. Poi è ovvio ci sono cose che ti prendono più di altre, argomenti che senti di più e in maniera assolutamente tua e lì nasce una poetica. Ci sta. Per quanto mi sforzi, ad esempio, tutto mi riesce di fare meno che di fotografare un tramonto. Mi sembra una gran fesseria. Un tramonto è bello sedersi è guardarlo. Fotografato è solo una macchia di colore. Ma questo, è ovvio, è solo la mia opinione. È che mi piace vivere e quindi cerco sempre di non perdermi nulla, per quel che posso o che la mia pigrizia congenita mi permette. Poi sarà la mia ben nota “sensibilità” ma torno sempre sugli stessi argomenti.
Le due poesie di seguito sono state scritte la prima il 24 dicembre del 2006 e la seconda il 15 settembre 2004, come annotano le date sul mio taccuino. Scrissi la seconda a Roma ospite di amici e la prima a casa, al ritorno da un viaggio, ed è strano come mi ricordi così bene questa cosa ma non dove fossi andato: è che il senso di colpa che ancora sento per non essere stato lì dove avrei dovuto ha annullato tutto il resto. Descrivere l’argomento di entrambe mi sembra superfluo.
Il fatto è che pochi giorni fa un’amica mi ha chiesto di poter leggere tutte le mie poesie ora che sono in standby con la scrittura, e dando un’occhiata ai miei file per vedere che non ci fosse niente di troppo sconveniente da mandarle (ho anche cose sconvenienti nascoste nel mio armadio) ho riletto queste due che, a onor del vero, sono fra le mie preferite, tanto che mi capita spesso di leggerle quando partecipo a qualche reading. La prima in genere è per me quasi un voto necessario, il modo di pagare un vecchio debito, un tributo dovuto a un amico. La seconda invece è la poesia con cui di solito concludo sempre le mie letture. La poesia delle poesie, la più letta in assoluto delle mie! A me piace. Voglio dire che c’è del mio anche qui. Per lo più quando la leggo scateno perplessità iniziale seguita da una grassa risata finale. Che dirvi, come si potrebbe rinunciare, a fine serata, dopo tanta “intensità poetica” a tutti quelli che ti si avvicinano e ti dicono con un bel sorriso: “però che tipino che sei, mica sembravi!”

POESIA PER LA MORTE DI GIOVANNI CORBASCIO, IL BRASILIANO

Non è vero che la morte ci accomuna.
Né che ci consola il pensiero degli estinti.
Non lenisce sofferenza alcuna il saperti ormai
al riparo da tutte le cadute o i capitomboli
a te destinati dal tuo nome. Non eri
di questa terra. Non di nessuna in particolare.
Andavi per mare infatti, litri di grappa profumata,
ondeggiante, navigavi. Ti svegliavano a volte
con una secchiata d’acqua dolce, ma non era quello
il tuo elemento. Reagivi chimicamente
alle lacrime… Anche ora che ti ricordo così,
ché non ero presente alla tua veglia, né
ho accompagnato alla tua tomba il gatto nero
tuo compagno di stanza, mi sento
in colpa. Chissà se ti hanno sepolto con
addosso il tuo vestito buono, i tuoi scarpini
a centinaia e il tuo ritratto di Mussolini
in divisa. Chissà se ti hanno restituito
tutti i chili di carne rubati dai medici
negli ultimi mesi o i tuoi quaderni sparsi
fra gli ospedali. Mi hai stretto la mano
l’ultima volta, come sempre facevi.
Con cortesia e rabbia. Ma stavolta eri sobrio.
È caduto l’impero romano, mi dicesti
citando forse inconsciamente il Leopardi,
cadrà pure l’americano, prima o poi…
Ti porterò un fiore in una bottiglia.
Aggiungerò nel cassetto la tua foto alle altre.
L’ho strappata via a un manifesto. Mi sembrava
un bel gesto romantico, nel tuo stile.
Ti penserò, hermano, sul fondo del cassetto.


INCORONAZIONE

Il mio glande incoronato
dal tuo morso, bluastro il segno
d’un dispettoso dentino
sulla golosa fragola rossastra,
sul mio piccolo cuore slabbrato.
A te sempre ripenso, ogni volta
che piscio.

10 commenti:

sergio pasquandrea ha detto...

quando ero a new york andai a una lettura di un poeta italoamericano (si chiamava viscusi o qualcosa del genere, un simpatico signore sui 60 anni che insegnava alla ny university).
la cosa che mi colpì fu che il pubblico rideva, di gusto. accanto a me c'era una signora straripante di lardo che cacciava dei veri e propri strilli quasi ogni verso.
pensavo che in italia non ci sarebbe mai venuto in mente di andare a una lettura poetica per ridere.
insomma, la seconda poesia mi piace molto (anche la prima, ovviamente, ma la seconda è, diciamo così, "diversa").

lillo ha detto...

:) grazie sergio, è un bel complimento

Dona ha detto...

Penso che la poesia stia non nelle parole ma nell'emozione che in ognuno trasmette.
Sarei propensa ad ascoltarti si!
Un saluto
Dona

ps: l'urologo cosa dice?

lillo ha detto...

dice che ogni tanto un pò di moto fa bene alla salute, ma senza esagerare! ;)

Althea ha detto...

La seconda mi ha fatto ridere a crepapelle!

Vale ha detto...

Ciao Lillo,
la seconda è grandiosa.
Il titolo mi spinge a pensare che sia un riferimento a un nome molto usato in Puglia :)
Alle letture a cui vado, spesso e volentieri i versi sono sconci, sconcissimi, ma non per questo meno poetici. E si ride da morire, forse perchè siamo una elite di frikis :)
La poesia non dev'essere sempre solenne e seriosa...
Io non scrivo quasi mai cosí, voglio dire usando parole/frasi sconce, forse perchè sono molto riservata, ma condivido a pieno il fatto che uno scrittore debba allargare i propri orizzonti.
Riguardo al fatto che per ora tu non scriva, creo che sia normale nel percorso creativo...è un buon momento per leggere leggere leggere...

Le poesie sono inedite?

Vale ha detto...

Che vuol dire
ave atque?

sono un po arruginita in latino...

lillo ha detto...

ti dirò, per lo più al momento più che leggere fotografo, e infatti ho la casa intasata di libri che mi aspettano! ma per lo più ora fotografo... penso però che con l'inverno mi darò una mossa...
le poesie sono inedite sì... in effetti fin'ora, a parte le 40 poesie della raccoltina e qualcun'altra pubblicata su quanche rivista o in antologie (o sul vecchio blog, certo), non ho mai pubblicato nulla...

per quel che riguarda ave atque vale, è una vecchia formula di saluto romano e significa, più o meno: salve e addio... io la trovo splendida. :)

giardigno65 ha detto...

la seconda poesia è degna di un palazzeschi che bacia dannunzio !

lillo ha detto...

;)