domenica 20 settembre 2009

mi persi

A fine luglio dello scorso anno eravamo ospiti, con Martin e altri di un comune amico a Imperia, il Durca, come lo chiamavano. In genere passavamo le mattine girando per i paesini dell’entroterra, semi abbandonati oppure occupati da hippie venuti lì da mezza Europa. E la sera facevamo lunghe passeggiate sul porto ventoso o ci mangiavamo un gelato e chiacchieravamo fino a tardi sulle scale della chiesa di fronte a casa sua. Era divertente. Salvo che, come sempre mi succede da che ho cominciato a crescere, avevo dei problemi con una ragazza rimasta a casa, per cui non la chiamavo per evitarci discussioni al telefono, le peggiori, ma incapace di staccarmi del tutto, le mandavo dei messaggi con dei brevi allegri resoconti delle mie giornate, sperando di farla ridere. Lei tentennava nelle risposte, voglio dire che a volte mi rispondeva e a volte no, in base all’umore. Poi smise del tutto di scrivermi, senza nessuna spiegazione e non l’ho più sentita per i due mesi successivi. La cosa, lo ammetto, non mi fece piacere ma, visto che come detto mi capita di continuo, ho imparato a convivere con certe situazioni. Per cui mi tenni il magone in gola e andai avanti per la mia vacanza, mai triste e mai completamente felice.
Una sera poi, gli altri erano particolarmente stanchi e si decise di non uscire. Tutti, dopo cena, se ne andarono a letto. E io che invece non riuscivo a prendere sonno me ne rimasi in cucina. Cominciai a sfogliare i dischi del Durca, e fra gli altri mi ritrovai fra le mani l’ultimo di Daniele Silvestri, un artista letteralmente adorato da ragazzo, che avevo addirittura "toccato con mano" a Roma alla premiazione di un concorso, ma che avevo perso di vista da un po’ di tempo. Il disco si intitolava Il latitante. Controllai i titoli delle canzoni: c’era la Paranza, l’unica che conoscevo e l’unica che in effetti non volevo proprio sentire, troppo fracassona per me, quella sera. Gli altri titoli però mi ispiravano: Mi persi, Sulle rive dell’Arrone, Io fortunatamente, Ancora importante… Così, già che c’ero e visto che mi piacevano sia il titolo che la copertina, decisi di dargli un’occasione ma a basso volume, per non disturbare. Mi sistemai davanti al balcone, con le porte aperte e le finestre spente dalle case di fronte. Era fresco e si sentiva, ma faceva piacere contro la pelle. Seduto in una poltroncina di vimini, il viso contro la mano, diedi un grosso sospiro e schiacciai play. E non fui deluso.
La notte entrò dalla finestra nella stanza, tutta intorno a me fin dalla prima canzone. Arrivò a nascondere sotto una coltre buia il mio magone, tanto che per un’ora circa non mi riuscì più di vederlo. Persino con la Paranza. E per la prima volta dall’inizio di quella vacanza mi sentii completamente liberato ascoltando nitidamente il suono, la voce di quello che provavo. Fu un’esperienza catartica. O così mi pare venga definita dagli esperti. Ascoltai quel disco due volte e poi riascoltai un paio di canzoni una terza volta. Dopodiché chiusi la finestra, ricacciando fuori il buio, e me ne andai a dormire più sereno, ben sapendo che il giorno dopo il mio magone sarebbe stato ancora lì, al suo posto.

4 commenti:

Vale ha detto...

La catarsi arriva inaspettatamente.

In amore siamo tutti imbranati.
Troppo.

lillo ha detto...

alcuni sono più imbranati degli altri, parafrasando orwell.

lodolite ha detto...

il brano mi è piaciuto molto e lo stile mi corrisponde, nonostante il gap generazionale.
ciao s.

Anonimo ha detto...

il basso volume non era poi tanto basso ma è stato piacevole addormentarsi così...:)

martin