venerdì 30 ottobre 2009

doppia canzone



Avevo appena pubblicato una canzone stamattina quando mio fratello, che era lì alle mie spalle, mi ha detto che basta!, metto sempre musica triste sul mio blog e questo non fa bene all’umore. Stessa cosa che mi è stata detta ierisera da Yasemin. Il fatto è che credo che non è la musica a fare l’umore ma è l’umore a richiedere la musica adatta a lui. E poi io ascolto dello splendido rock se mi gira bene. Appunto. Però è anche vero che magari voi vi ci annoiate con la mia musica triste. E allora cambio il post. E metto due pezzi, che potete ascoltare a vostra discrezione, che dovrebbero rappresentare, per chi non lo avesse ancora capito, le mie due anime. Uno è di John Martyn, meraviglioso cantautore inglese, si intitola Solid Air ed è stato scritto per la morte di Nick Drake, altro grandissimo (e credo che un giorno ci tornerò su questa cosa delle canzoni scritte in morte di). Mentre l'altro, Gimme Danger, è degli Stooges, il più oltraggioso e cattivo gruppo rock di fine anni '60 inizi '70, perché ricordiate che quando qualcuno di voi era ancora lì a pettinare le bambole coi Led Zeppelin, c’era gente seria che ascoltava rock con le palle e fatto prima dei Nirvana e compagnia bella (quest'ultima è per Maria che invece si lamenta che ascolto sempre musica fatta da gente ch'è già “morta” da un pezzo e quindi vecchia come il cucco). Ciao cari! :P

mercoledì 28 ottobre 2009

autoritratto di notte

mr stevens e la dignità

Ho finito da poco di leggere un libro splendido ma che, ammetto, mi ha lasciato un amaro in bocca di quelli che ti porti dietro il retrogusto per giorni. Il libro si intitola Quel che resta del giorno ed è stato scritto da Kazuo Ishiguro. Dal libro è stato tratto nel 1993 un film bellissimo e struggente diretto da James Ivory, con Anthony Hopkins e Emma Thompson, che però non rende giustizia agli intenti del romanzo. Di per sé la storia è semplicissima. Nella prima metà del ‘900 un maggiordomo inglese è talmente ligio al suo dovere da lasciarsi scappare poco per volta, al servizio del suo padrone, che poi si scoprirà essere (per ingenuità) un filonazista, tutte le piccole gioie che la vita gli potrebbe offrire fino al culmine rappresentato dalla perdita della donna amata. Si potrebbe considerare la storia di un fallimento. E così la interpreta il film, e così molti l’hanno letta. Ma questo non basta, ancora non rende giustizia al senso del romanzo.
Ho letto in giro alcune recensioni per chiarirmi le idee e tutte colgono qualcosa senza che nessuna convinca però del tutto. Una ragazza, ad esempio, su un forum lamenta di essersi annoiata in quanto non succede niente. E per quanto sia un discorso approssimativo è anche inopinabile: tutto il romanzo vive di piccoli scarti, episodi insignificanti o marginali, due interi capitoli sono dedicati a un ricevimento e a una importante discussione in salotto, altri si perdono dietro conversazioni in merito all’andamento del personale o alla pulizia delle posate e alla fine della vita privata (e sentimentale) dei protagonisti non resta quasi nulla, appena pochissimi accenni perduti nell’immensa matassa di considerazioni sul lavoro. E invero non è un romanzo facile da leggere, scorre via piuttosto lentamente per quanto non sia molto lungo.
Un altro, su un blog, diceva che la cosa che apprezzava di più della storia fosse il fatto che Mr Stevens, il protagonista e narratore, non fosse un testimone attendibile, che il suo racconto fosse pieno di falle, menzogne palesi, omissioni, tutte tese a distrarre l’attenzione del lettore dal suo reale pensiero, che ovviamente è invece chiarissimo. Tutto il libro è costruito così, come un lungo tentativo di raccontarsi negando, senza mai svelarsi del tutto e questo ovviamente non si poteva mettere nel film, che di conseguenza perde completamente questa caratteristica, acquistando però in fluidità e dando maggiore risalto al personaggio di Miss Kenton, la donna che Stevens ama.
Ma nemmeno questo è il succo, e neanche il finale fatto della morale spicciola che bisogna (si può solo) andare avanti con fiducia, perché la parte più bella della giornata è la sera, come gli viene detto da un passante con cui scambia poche parole nelle ultime pagine. No. In verità la chiave del libro si trova nel penultimo capitolo, quando viene chiesto a Mr Stevens di dire la sua, durante un discorso in cui si cerca di definire cosa sia la dignità. E Stevens risponde: “ho il sospetto che sostanzialmente consista nel non togliersi i panni di dosso in pubblico.” Cosa che in parte giustifica quanto detto sopra, ma ancora di più apre uno spiraglio sul senso del libro e sulla vera natura di Stevens, non un personaggio così grigio e insignificante come può apparire nella descrizione che lui stesso fa di sé.
Per quel che ne penso io Quel che resta del giorno è un romanzo sulla dignità e sul perseguimento della stessa. Mr Stevens in cuor suo è un personaggio molto classico, molto “romano” mi verrebbe da dire, permeato degli stessi ideali di quel mondo. Proprio come un soldato romano il suo interesse personale viene sacrificato costantemente alla causa, cioè seguire il proprio generale fino in fondo, credendo ciecamente in lui. Questo fa Stevens per tutto il libro. Per il proprio generale, per il suo signore, Sir Darlington, sacrifica tutto, persino Miss Kenton. E lo fa perché è convito che la causa perseguita dal suo padrone, la pace fra Inghilterra e Germania nazista, sia più alta e importante di lui e dei suoi bisogni. Quando, a un certo punto, Miss Kenton cerca di parlargli per fargli capire che andrà via con un altro se lui non farà niente per trattenerla, lui, che in quel momento è indaffarato per conto del suo padrone, le risponde che quello non è il momento perché di là si sta discutendo dei problemi del pianeta. Potrebbe sembrare una follia oggi, perché quel concetto di dignità non esiste più, ma c’è della nobiltà antica in questo. In fondo la natura di Stevens è nobile. Il suo è il tentativo di partecipare alla realizzazione di un mondo migliore e a questo scopo sacrifica tutto se stesso. La delusione finale di Stevens consiste nel rendersi conto del fatto di avere lottato e sacrificato l’intera sua vita senza ricevere in cambio il suo premio. Che non è Miss Kenton, per rivedere la quale, ormai anziano, si mette in viaggio attraverso l’Inghilterra (viaggio che gli darà l’occasione di ripensare al suo passato) ma, in linea coi principi classici di cui è formato, avrebbe dovuto consistere nella gloria del suo signore e, per riflesso, della sua. Il suo signore invece è caduto in disgrazia dopo la fine della guerra, è morto ed è stato dimenticato. Ora persino parlare di lui crea imbarazzo. Mr Stevens ha servito il padrone sbagliato e si è ritrovato a sacrificare se stesso per una causa che la storia non vuol ricordare. Per lui che ha dato tutto quello che aveva da dare alla causa della storia, nella storia non ci sarà posto. “Io mi sono fidato” e il suo ultimo amaro commento, a chiusura del libro. Tutto quello che gli resta è una lunga sera da vivere.

martedì 27 ottobre 2009

dualismo e stress da ambivalenza

Alcuni anni fa, quand’ero all’università, ho conosciuto un trans. Viveva di fronte a casa mia e per un breve periodo l’ho frequentato/a. Si faceva chiamare Bella. Era una sagoma, una enciclopedia vivente di barzellette sconce e anche un po’ idiote. Parlava con lieve accento spagnolo e ovviamente, ovviamente, la sua canzone preferita l’aveva scritta Fabrizio De Andrè. Me la cantava sempre quando, dopo aver bevuto qualcosa al bar, ce ne tornavamo a casa, verso la stazione, dal centro. Ora l’ho perso/a di vista, come ho perso di vista tutti i vecchi compagni dell’università. Ma stamattina, mentre guardavo al telegiornale la storia di un uomo finito e consumato dalla tensione e dallo stress, mi è tornata in mente una sera che mezzi ciucchi su di una panchina mi fece tutto un discorso sulla sincerità, dicendomi: “Guarda che qui, caro il mio Lillo, la più sincera di tutti sono io! Io almeno che sono una doppia persona lo faccio vedere!”
Pensate al povero Marrazzo. Essere in una sola volta così tante persone, né una né due, ma inventarsene una terza, a volte una quarta o una quinta per gli altri, moglie e figlia, avversari politici e compagni di partito, amici ed elettori, pubblico e privato e amanti vari nell’armadio. Chissà se nell’amplesso era uomo o donna? Chissà se davanti allo specchio si riconosceva più, alla fine? Vi immaginate la pressione a cui era sottoposto? Definirlo solo uno stress mi pare poco.
A me fa proprio pena, sapete? M’indigna certo, per alcune scorrettezze verso gli elettori, ma umanamente mi fa pena. Per quanto se ne possa dire male, queste sono cose che ti distruggono da dentro. Ti maturano lentamente in corpo, come un cancro, attraverso il lungo processo che immagino ci sarà e ti invecchiano e ti rattristano senza rimedio. Né credo che si possa mai guarire da ferite così. E poi, se parliamo di ambivalenza, allora non è che i carabinieri ci facciamo una così bella figura. I sempre fedeli alla patria. Né tutti gli altri coinvolti e che non dico, tutti protesi all’interesse generale di chissà quale astratta entità partitica o di potere. A me fa pena l’uomo e credo che alla fine avesse ragione Bella. In tutta questa storia gli unici sinceri per davvero, perché un semplice dualismo, sono stati i trans.

sabato 24 ottobre 2009

voglio amare

Sabato sera e sono chiuso in casa col raffreddore. La mia solita sfiga, mi hanno detto. Immagino sia vero. Mi rifaccio ascoltando un po’ di musica. Will to love, scritta e registrata in una sola notte del 1976 da un Neil Young così strafatto di roba da perdere ogni inibizione e mettersi completamente a nudo, è una canzone che non ascoltavo da anni, ma c’è stato un lungo inverno della mia vita in cui la mettevo nel lettore quasi tutte le sere. Tanto per darmi coraggio oppure, come mi diceva mio fratello, per crogiolarmi meglio nelle mie paturnie. Forse è vero, ma non sono così convinto. Will to love è un lungo sogno in fondo. E forse lo vivo ancora, chissà.
Sapete, oggi ero in macchina con una amica e le ho detto che non voglio più innamorarmi, mai più, che sono ormai troppo cinico per fidarmi ancora. Ma mentivo. In fondo è anche una questione di poetica. Lo dicevamo ieri a cena con Lino, un mio amico poeta. Lui asseriva che fare poesia è prima di tutto e dall’origine un modo di celebrare il ricordo, o meglio il ricordo dei nostri morti. Uno scrive per non dimenticare e perché non si dimentichi. Poi, diceva Lino, per astrazione tu puoi volerti ricordare di quello che ti pare, dei pomodori come di un tramonto.
Il mio talento speciale, mi diceva Lino, o quello in cui riesco meglio è scrivere di tutte queste storie d’amore infelici, perché riassumono per episodi la mia visione fallimentare della vita, mi ricordano quello che in fondo al cuore sento come verità assoluta, e cioè che una vera sincera e profonda comunicazione fra le persone non potrà mai avvenire.
Questo diceva lui e non so se abbia ragione o no. Ma in questo caso, mi dico io, il mio è un esercizio di memoria malata, tutta protesa alla mia infelicità celebrando, e così non permettendomi di dimenticare, episodi infelici affinché sia io stesso a rendermi impossibile un rapporto semplice, completo. Oppure forse, ho pensato poi, magari qui ci sbagliamo tutti e il mio è solo un tentativo di esorcizzare la mia più grande paura, cioè quella di rimanere solo.



I'll never lose it, never lose the will to love
Never lose the will
(Da ascoltare esclusivamente di notte)

dalla torre del castello

venerdì 23 ottobre 2009

tre pezzi d'occasione

Siccome è un po’ che non scrivo a un certo ritmo, ieri per riprenderci la mano mi son dato la sfida di scrivere tre pezzi entro fine giornata. Questo è il risultato. Peace Love & Respect.

1.“BASTA CHE FUNZIONI” RACCONTATO A DANI (E A VOI)

Ierisera ho visto il nuovo film di Woody Allen, intitolato “Basta che funzioni”. È un film di cui mi avevano parlato assai bene e comunque a me di Allen piace quasi tutto. Avrei dovuto andarci con Dani ma Dani ha avuto un contrattempo e così ci sono finito con Martin. Così lo racconto a lei e fra l’altro pago un debito preso con Sciuscia che mi aveva chiesto una recensione.
Dunque di cosa parla il nuovo film di Woody Allen? Beh, in due parole parla di un vecchio cinico, di quelli che più acidi e sarcastici non si può, ma anche talmente fragile da tentare il suicidio, il quale un giorno incontra una ragazza molto più giovane di lui, scappata di casa, la accoglie “per una sola notte” e finisce per sposarla. La storia, com’è logico, non ha futuro e lei lo mollerà per un altro, dopo ovviamente una serie di accadimenti che coinvolgeranno tutta una serie di personaggi che girano intorno a loro, a cominciare dalla madre di lei. Detto così in effetti, scarnificato il tutto degli elementi tipici della commedia, mi rendo conto che può sembrar piuttosto triste. In realtà il soggetto viene trattato in maniera così lieve e antisentimentale da lasciare che la disperazione di fondo dei personaggi non venga mai alla luce, se non a tratti.
Qualcuno, ho letto in alcune recensioni, ha accusato Allen di essere tornato a New York con una sceneggiatura vecchia di trent’anni e di non avere più niente di nuovo da offrirci. Ma è gente che capisce solo di film e niente di uomini, è gente che spesso scorda l’uomo dietro il prodotto cinematografico. Del resto se ha rimesso mano a una sceneggiatura scritta e chiusa nel cassetto nel 1977 un motivo ci sarà. E questo film, pur se con modestia, rappresenta una piccola evoluzione nel percorso umano e artistico di Allen. Un’evoluzione a cui ammetto di non aver mai creduto di poter assistere. Perché forse per la prima volta contro il nero, contro l’oscurità e il pessimismo che comunque caratterizzano la sua visione delle cose, Allen propone la quieta accettazione. È una cosa importante perché, se anche non è la prima volta che, nei suoi film, si parla dell’accettazione come unica forma di resistenza allo scetticismo, è la prima volta che a proporla non è un comprimario come consiglio al personaggio dietro cui si sublima Allen, ma è l’alter ego stesso di Allen a farla sua. Non so se riuscite ad afferrare lo scarto avvenuto in questo passaggio di consegne. È importantissimo, è tutto qui! Non è più Tracy, la ragazzina di Manhattan che dice ad Allen “devi avere fiducia nella gente” perché Allen ha bisogno di sentirselo dire ma non riesce ad ammetterlo in prima persona. È Allen stesso che parla a noi, attraverso il protagonista Larry David, che guarda dritto in camera (proprio come nel finale di Amore e Guerra) e ci dice “questo ho capito, gente, che non si potrà mai raggiungere la piena felicità, l’assoluta serenità ma l’importante è che vada bene, che la felicità funzioni anche solo per quei cinque minuti.” Godere al massimo di ogni istante prezioso, ecco il suo messaggio all’umanità. E so che detto così pare molto elementare ma in fondo la conquista più difficile è proprio quella della semplicità. E una cosa è dire e un’altra è sentire pienamente col cuore. Questa è in fondo una vittoria dell’uomo Allen contro il proprio pessimismo. Per cui forse è vero che non riuscirà più a rinnovarsi formalmente, ma non si può venire a propinarmi che è un film senza niente da dire. Chi lo dice non ha saputo vedere proprio la più semplice delle verità.
A parte questo Larry David è bravo ma ovviamente non è Woody, anche se capisco che Allen si sarebbe potuto trovare a disagio a recitare tutte quelle battute in cui ammette, anche se con molta autoironia, la proprio consapevolezza di essere un genio e poi gli manca la prestanza fisica per sembrare un arrabbiato credibile. (E a proposito mi interrogo sullo shock che proverò quando al prossimo film non sentirò più la sua voce doppiata da Oreste Lionello). Evan Rachel Wood, la coprotagonista, è perfetta ed è anche un gran bel pezzo di ragazza! La regia di Allen è al solito rigorosa e molto essenziale, pulita, i tempi comici perfetti. E se anche il film non è il suo capolavoro, né credo che Allen possa farne un altro dopo Match Point, ma poi perché ci si dovrebbe impegnare? Ha già dato e tanto al cinema! Non ha niente da dimostrare a nessuno e si può vivere anche del semplice piacere di raccontare belle storie, no? Alla fine questo è un film grazioso, fatto bene, non originale certo ma che perlomeno ci offre una briciola di serenità se non proprio di speranza, da parte di uno degli intellettuali più cupi e pessimisti in circolazione. E scusate se è poco.


2.ZIA CECCA LA SPUTATRICE

Zia Cecca (zia Francesca) era la sorella di mio nonno. È morta quattro anni fa, a distanza di un mese da suo marito e appena due dopo mia nonna. In famiglia la chiamavano tutti ‘a mucetazze (la sporcacciona) per la scarsissima attenzione che aveva per qualsiasi forma di igiene. Non aveva peli sulla lingua e mi dicono che da giovane fosse una vera gatta selvatica, una indomabile lottatrice di quelle a cui piacciono le risse per sport. Poi, come sempre succede, tutti i pregi della giovinezza ti si rivoltano contro in tarda età, trasformandosi nei tuoi peggiori difetti. Negli ultimi anni tutti la ritenevano una vecchia pazza. Viveva in un palazzo vicino casa mia, dove si era trasferita da vecchia e i suoi vicini la odiavano perché di notte, se aveva dei motivi di astio contro qualcuno (e ne aveva di continuo dato il suo carattere) andava davanti alla casa del malcapitato di turno, tirava su la gonna e gli pisciava sulla soglia. Insomma l’avete capito, una scassapalle autentica, proprio nella migliore tradizione della mia famiglia. Di lei si dicevano cose strane e folli, tipo che conservasse il pane sotto il letto perché lì rimaneva morbido, ma la cosa che più di tutte incantava me e mio fratello da bambini, era la sua straordinaria abilità di sputatrice. Già sdentata all’epoca della nostra infanzia, faceva per noi sempre questo giochetto: si metteva in bocca un Ferrero Rocher di quelli che le offrivamo nel vassoio, si mangiava tutto il cioccolato intorno ripulendo per bene la nocciola al centro, poi una volta ripulita ci diceva “guardate lì!” puntando il dito verso uno degli Swarovski di mia madre, prendeva la mira e sputava! E la nocciola inevitabilmente colpiva quello che aveva puntato, con grandissimo e malcelato disappunto di mamma. Ci incantava e per quanti sforzi facessimo non siamo mai riusciti a imitarla. Capimmo che sarebbe morta presto il giorno che si trovava a casa nostra per una visita e aveva ripulito per bene il suo bel proiettile con le gengive, e presa la mira all’ultimo momento scosse la testa, tirò un grosso respiro, poi afferrò la mano di mio fratello, ci sputò dentro la nocciola e gli disse: “Tieni, mangiatela tu!” Poi più niente. Morì due settimane dopo. Ieri mentre imboccavo mio nonno all’ora di pranzo, guardando il suo viso smunto che masticava lentamente la pasta, mi è tornata in mente zia Cecca. Per certi versi si assomigliavano molto.


3.A UN FINGITORE NEL PALLONE

Nelle prossime settimane, con la mia associazione, stiamo promuovendo alcuni incontri letterari in Valle d’Itria con alcuni scrittori più o meno famosi. Una sera, per organizzare uno di questi appuntamenti, siamo andati a Bari a sentire un’intervista organizzata da uno di questi scrittori per lanciare il suo nuovo libro, la classica storia ben scritta ma tutto sommato inutile, ma pubblicata da una grossa casa editrice. Durante l’incontro lo scrittore ha più volte rimarcato quanto il suo libro fosse permeato di musica, e in particolar modo della musica di Marvin Gaye, suo idolo e per lui un continuo punto di riferimento. Io da fan di Gaye mi sono gasato per queste dichiarazioni. Per cui dopo l’intervista, quando ci siamo avvicinati per prendere appuntamento, tanto per rompere il ghiaccio gli ho fatto un paio di domande sui suoi dischi preferiti di Gaye e insomma le solite cose che si chiedono in certe circostanze fra fan, e mi sono accorto di aver messo in difficoltà il tipo che continuava a rispondermi “Ah sì! Ah sì!” ma basta. Lui mi stava simpatico per cui ammetto di essermi quasi sentito in colpa, tanto più che i miei soci dopo mi hanno rimproverato di non stare mai zitto quando devo. Finché non ho letto il libro e mi sono accorto che tutta questa influenza di Gaye si riduce ai soliti due-tre pezzi famosi, di quelli che trasmettono sempre di notte in radio, per tener svegli i guidatori un po’ intontiti dalla strada.
Questo mi ha suscitato una reazione di sdegno e vorrei dire che se anche è vero, come diceva Pessoa, che il poeta è un fingitore, è anche vero che ‘sta cosa inculcataci dal sistema scolastico che basta leggere e analizzare (ad esempio) “Meriggiare pallido e assorto…” per aver capito tutto della disperazione di Montale, è una grossa cazzata! Ma miseriaccia siamo uomini, la nostra vita è qualcosa più di un’opera d’arte e un’opera d’arte, per quanto bella, non è che un piccolo momento nella vita e nella ricerca di un uomo. Ok, può piacerti quanto vuoi e magari leggerla ti ha cambiato la vita ed è anche vero che pure conoscendo a memoria tutta la sua opera non potrai mai sapere TUTTO di lui. Ma almeno non avere la presunzione di dire che lo hai capito solo perché un giorno gli è scappato fuori un verso e tu per caso l’hai ascoltato. Ma cazzo leggiti almeno il libro! E lo stesso vale per tutti gli altri. Avrei potuto fare lo stesso esempio per Munch e L’urlo e non sarebbe cambiata una virgola. Così anche per Marvin Gaye.



Così questa canzone (una delle mie preferite) è dedicata a un grande fingitore che secondo me non ha studiato abbastanza il suo pollo. Ha un titolo lunghissimo, quasi uno scioglilingua "When did you stop loving me, when did I stop loving you" e viene da un disco intitolato Here my dear del 1978, il più autobiografico di Gaye. E parla della dolorosa fine del suo matrimonio. Gaye si era innamorato di un’altra donna e questo disco ( i cui diritti sarebbero dovuti servire per pagare gli alimenti alla ex moglie) è un continuo e doloroso interrogarsi dell’uomo e dell’artista Gaye sul perché i sentimenti finiscono o vengono scalzati da altri più forti o mutano fino al punto da diventare irriconoscibili. Buon ascolto.

mercoledì 21 ottobre 2009

il comunista

Ultimamente mi sono accorto, forse anche perché penso con la mia testa, che ogni qual volta esprimo un’opinione su come vedo le cose e questa opinione spesso non collima col pensiero comune, anzi gli si oppone, ogni volta la mia idea viene bollata dagli altri col classico sorriso indulgente di chi lo sa come sei ma non ti può e non ti vuole cambiare, e mi dicono: “Sì vabbè, Lillo, ma tu sei comunista!” Come a voler dire che l’idea è già sbagliata per questo, che si porta dentro il gene della stramberia insito nel mio pensiero da “rivoluzionario”.
All’inizio la prendevo anche io sul ridere, poi nel suo perpetrarsi mi sono un po’ irritato. E sì che sono comunista ma non è che per questo dico solo cretinate! Ma ripensandoci mi sono anche reso conto che prima ancora che lo facessero gli altri a me, lo facevo io a loro. “Tanto son comunisti!” lo dicevo anche io coi miei amici, e lo usavo per indicare quelle persone simpatiche ma anche un po’ scassapalle, se mi permettete l’espressione. Cioè: è un simpatico scassapalle, di quelli che hanno sempre da ridire su tutto ma lo stesso gli vuoi bene? Allora è comunista! E se pensate che non sia così, guardatevi intorno. La parola sta lentamente cambiando forma, significato. Perde la sua connotazione politica per assumerne una nuova legata agli atteggiamenti, ai comportamenti, in questo caso contestatori. Berlusconi docet. Sei contro di me? Allora sei comunista! Ma ve lo immaginate fra un secolo o più, quando avrà completamente perduto la sua connotazione originale? “Gigi, ora mi sono stancata, non puoi tornare sempre alle quattro del mattino! un giorno o l’altro mi farai prendere un colpo!” “Ma mamma, sei la solita comunista! Io sono giovane, devo vivere la mia vita!” Da brividi, no?
A tutto questo, finché siamo ancora in tempo e prima che i passaggi televisivi a tema di Berlusconi ammazzino definitivamente la parola, svilendola di ogni nobiltà (e ce n’è e tanta anche), io proporrei a tutti quelli a cui va, come cura contro l’apatia di questi giorni, di rifarsi a una delle scene più geniali del cinema italiano, quando ancora si riusciva a ridere anche nei tempi più neri, e di svegliarsi ogni mattina e guardarsi allo specchio e avere ancora l’orgoglio di gridare, come il grandissimo Mario Brega in Un Sacco Bello di Carlo Verdone: “Io nun so’ comunista così! So’ comunista COSÌ!”



Post dedicato a Licia.

la casa della morta

lunedì 19 ottobre 2009

cinque poesie di heiner muller

Traduzione di Antonello Piana.
Grazie a Carlo Formigoni per il regalo.


AUTORITRATTO ALLE DUE DI NOTTE, 20 AGOSTO 1959

Sedere davanti alla macchina per scrivere. Sfogliare
Un romanzo poliziesco. Sapere alla fine
Quel che sai già ora:
Il segretario dal viso smunto e dalla barba folta
È l'assassino del senatore
E l'amore del giovane sergente della omicidi
Per la figlia dell'ammiraglio è ricambiato.
Ma tu non tralascerai neppure una riga.
Ogni tanto voltando pagina un rapido sguardo
Al foglio bianco nella macchina per scrivere.
Dunque ci verrà risparmiato almeno questo. È già qualcosa.
Sul giornale: da qualche parte un villaggio
È stato raso al suolo dalle bombe.
È increscioso, ma cosa ti riguarda.
Il sergente è in procinto di impedire
Un secondo omicidio, sebbene la figlia dell'ammiraglio
Gli offra le labbra (per la prima volta!), ma il servizio è servizio.
Non sai quanti morti ci siano stati, il giornale non c'è piú.
Accanto tua moglie sogna il suo primo amore.
Ieri ha tentato di impiccarsi. Domani si taglierà
I polsi o che so io. Almeno ha un obiettivo
Davanti a se. Che raggiungerà in un modo o nell'altro
E il cuore è un cimitero spazioso.
La storia di Fatima sul Neues Deutschland
Era scritta cosí male che ti è venuto da ridere.
È piú facile apprendere la tortura
Che a descrivere la tortura.
L'assassino è caduto nella trappola.
Il sergente chiude il premio tra le braccia.
Ora puoi andare a dormire. Domani è un altro giorno.


POLITICA CULTURALE SECONDO BORIS DJACENKO

Boris Diacenko mi ha detto Dopo che venne vietato
Il mio romanzo CUORE E CENERE parte seconda
In cui venivano descritti per la prima volta gli orrori
Della liberazione da parte dell'ARMATA ROSSA
Il mio censore mi convocò per un colloquio privato
Il lettore burocrate mi mostrò con orgoglio il dattiloscritto
Rilegato in pelle pregiata A TAL PUNTO AMMIRO IL TUO LIBRO
CHE HO DOVUTO PROIBIRE NELL'INTERESSE
LO SAI DELLA NOSTRA CAUSA COMUNE
In futuro disse Boris Djacenko
I libri vietati verranno rilegati
NELL'INTERESSE
LO SAI DELLA NOSTRA CAUSA COMUNE
Con la pelle conciata degli scrittori
Conserviamo intatte le nostre pelli disse Boris Djacenko
Affinché i nostri libri abbiano una rilegatura durevole
Che possa sopravvivere ai lettori burocrati.


TALVOLTA, QUANDO GODO DEI MIEI PRIVILEGI

Per esempio un whisky sull'aereo da Francoforte a Berlino (ovest)
Mi assale quel che gli idioti dello SPIEGEL chiamano
L'amore rabbioso per il mio paese
Selvaggio come l'abbraccio di una regina di cuori
Creduta morta nel giorno del giudizio.


RILEGGENDO I DICIANNOVE DI ALEXANDER FADEJEV

In una notte di vodka IL CIELO PIENO DI VERMI
Scrive la sua immagine con la pistola salda nel barbaglio
Dell'ultimo congresso del partito quando i monumenti sanguinano


CARIE A PARIGI

Qualcosa mi mangia dentro

Fumo troppo
Bevo troppo

Muoio troppo lentamente.

sabato 17 ottobre 2009

l'irrequieto mattino

Qualcuno mi ha detto di non condividere la mia passione per i REM. Posso capirlo. Questo qualcuno ha molti anni meno di me e dei REM si è vissuto l’ultima fase, quella calante. Ma chi come me ha vissuto la propria adolescenza nei primi anni ’90, lo sa che i REM sono qualcosa di più di un gruppo rock. Per noi erano l’altro. Il fratello che non hai mai avuto, come ha detto Dylan in una sua canzone. I REM parlavano al cuore di tutti coloro che non sentivano di essere lì, al centro della stanza e sotto i riflettori, ma di lato, sempre nell’angolo, e ti dicevano con le loro canzoni un po’ oscure la cosa più semplice del mondo, e la più efficace: che, nonostante tutto, tu non sei solo. Che, per quanto diverso, per quanto non unico e speciale, ci sarà qualcuno anche per te. Ovviamente il potere di una canzone non sta solo nel modo in cui questa cosa ti viene detta. Non basta stare lì a scuotere il capo o battere il piede. Sta anche nel fatto che, mentre te la dice, tu credi a quel che ti viene detto e ne provi conforto. Non conosco tutta l’opera dei REM, e nemmeno mi importa. Non sono un loro fan tradizionale, di quelli che conoscono a memoria ogni loro storia stramba o il significato di ogni parola. Ma lo stesso i REM mi hanno accompagnato in quegli anni e poi per tutta l’università come amici fidati. Ricorderò per sempre le mattine in treno dei miei vent’anni, mentre viaggiavo per l’università e mi guardavo l’alba dal finestrino ascoltando New Adventures in Hi-Fi a tutto volume. Era favoloso! Sentivi che qualcosa di grande ti stava aspettando. Era lì lì per accadere e tu potevi afferrarla se solo avessi voluto e ti faceva sentire inquieto ed entusiasta allo stesso tempo, e pieno di aspettative. Ti scuotevano leggeri brividi lungo la schiena e sulle braccia e ti chiedevi sorridendo se non fosse il freddo, ma no, era la pelle che ti si rizzava d’ansia ed emozione. Era il primo sole che ti si posava addosso, illuminandoti, attraverso il vetro. Ho riassaporato la medesima sensazione di panico e avventura ieri mattina andando a Bari verso l’ospedale. La radio ha trasmesso questa canzone e per un attimo i miei pensieri hanno cominciato a vagare. Poi si sa, il rock non ha mai cambiato il mondo e ancora quella cosa che cercavo non sono riuscito ad afferrarla. Ma un giorno forse, chissà.



Dedicata agli amici perduti per strada. A quelli con cui non parlo più. A quelli con cui parlo ma non ci capiamo, ma è solo un momento, ragazzi, state tranquilli. E ai vecchi amanti e ai nuovi amori che verranno, sperando di avere imparato qualcosa dagli errori passati.

venerdì 16 ottobre 2009

pensiero ospedaliero

Lunedì sera una ragazza con cui ogni tanto mi scrivo mi ha consigliato, per cercare di migliorare il mio punto di vista su questo periodo nero, di cercar di fare il classico gioco del pensapositivo, insomma di provare a individuare nella mia giornata le piccole cose buone che la rendono migliore. Ho pensato che non ci fosse niente di male a provarci, così ecco cosa ho scovato oggi.

Cose belle del mio 16 ottobre:

1.Trovare il senso della vite grazie a una trottola;
2.Scoprire che io e mio nonno abbiamo lo stesso gusto in fatto di donne. Infatti in momenti diversi ci abbiamo provato entrambi con la stessa tirocinante;
3.Guidare una carrozzina in giro per l’ospedale, cosa che non è mica facile come sembra: rischi continuamente di mettere sotto qualcuno (due vittime a mio carico solo stamattina);
4.Cantare a squarciagola con Ciccio del letto accanto, all’ora di pranzo, “Viva le cozze, le cozze e il parmigiano!”, quando gli hanno servito quell’insulsa porzione di pastasciutta senza sugo perché è diabetico, e beh forse sarà stupido ma lo stesso Vive la Revolucion!



A parte questo, tutto va male.

giovedì 15 ottobre 2009

un ritratto che mi ha fatto silvio



E poi mi ha detto: "Se avessi avuto la giacca saresti stato bellissimo!" Già.

870 Km

Potrò ancora permettermi
senz’alcuna paura il pensiero
di amarti, di averti
avuto un tempo in cui nemmeno sapevi
che fosse la furia d’amore?
Non sospettavo io di poter cedere
a un eccesso di vino, togliere i puntelli
alle difese e crollare sul telefono
in un pianto nel mezzo della festa.
Forse ho finto troppo
con tutti, che tutto andasse bene
per l’annunciato nulla che siamo diventati.
E mi chiedo se mai prima
avessi calcolato i rischi del ritorno
o ci abbia tu pensato solo quando
il dispiacere ha celebrato in un sol giorno
l’anniversario della tua nascita, amore
e della nostra morte.

mercoledì 14 ottobre 2009

cerco lavoro

A dimostrazione che la nota legge di Murphy “non c’è 4 senza 5” funziona (o erano Ficarra e Picone?), posso dire che a coronamento della mia settimana di merda lunedì sera ho avuto un non proprio simpatico scambio di idee col mio editore, tanto che, anche per venire incontro a chi mi consigliava di fare un lungo giro per scaricare la tensione, ci ho pensato su e oggi vi comunico serenamente che sono in cerca di lavoro. Ovviamente spero sempre che qualcuno mi chiami dalla Mondadori per dirmi che pubblicheranno il mio romanzo e mi faranno ricco ma, nel frattempo, se sapete qualcosa fatemi sapere, ok? (nel mio profilo c’è anche la mail, se serve). Cos’altro? Ah sì, stamattina qui c’è il sole, a sprazzi, ma si vede. E buongiorno a tutti! (E per rimanere in tema ancora REM).

lunedì 12 ottobre 2009

avvertimento

Beh posso dirlo a 32 anni suonati, chi ha detto che i guai non vengono mai soli aveva proprio ragione. Dopo la morte di mia zia, giovedì. Dopo uno dei venerdì a più alto tasso alcolico e autodistruttivo che ricordi di avere mai vissuto. Dopo un sabato di merda per un brutto litigio con un’amica che aveva pienamente ragione ma cazzo, non era colpa mia, e allora perché te la prendi con me? Dopo tutto questo ieri a mio nonno è venuto un attacco ischemico, per cui ho passato uno dei pomeriggi più orrendi della mia vita, prima qui, quando è stato male, poi quando è stato portato via in ambulanza per essere operato e mi ci sono volute delle ore solo perché qualcuno si degnasse di dirmi qualcosa di concreto. Ora nonno è sotto osservazione. E io da tutto questo traggo una sola conclusione. Che c’è un limite oltre il quale non vado. Che riesco a soffrire e sforzarmi di capire i problemi di tutti fino a un certo punto ma poi basta, poi cari amici, amati e colleghi vari, ve lo chiedo per favore, se non potete portarmi buone notizie, non portatemene affatto. Mi sono rotto le palle.



La vita è più grande
è più grande di te
e tu non sei me

venerdì 9 ottobre 2009

con spirito cristiano

Primo pensiero, maturato ieri sera mentre facevo vedere delle mie foto a una persona che si dichiara fanatica assoluta di De Andrè.
Le mostravo le foto e lei mi ha chiesto a un certo punto, quasi infastidita, osservando certi miei ritratti: “Ma tu tutti gli ubriaconi del mondo ritrai?” perché uno dei miei soggetti preferiti sono gli animali da bar. Le faccio io, per scherzo: “Ma come, proprio tu che stai sempre a cantare le canzoni di Faber ti schifi di certa gente? A lui sarebbero piaciute!” E lei mi ha risposto: “Che c’entra! Ma quella è poesia!” Come a dire che il “letame” di Faber è bello se messo nelle canzoni, ma a viverlo manca di qualsiasi romanticismo e quindi sarebbe meglio non averci troppo a che fare. Ho ribattuto a questa persona che anche le mie foto sono forme di poesia e lei non ha aggiunto altro. Ma in effetti avevo anche un pensiero da dire e una parola per questa cosa che mi è rimasta in gola, ma come accennavo sopra, questa persona la conosco e non voglio entrare in polemica, e quindi non parlo. Se vi va, ditela voi.



Secondo pensiero, maturato stamattina al funerale di mia zia.
Sapete, ho chiuso i miei rapporti con la Chiesa all’incirca verso i 14 anni, con la cresima. I miei ci tenevano e io li ho accontentati, anche se già allora avevo dei dubbi. Insomma, a meno che non si tratti, come oggi, di occasioni speciali, è cosa rara che io possa entrare in una chiesa, se non per osservarne i dipinti. In ogni caso, anche se ci entro per dovere (matrimoni o funerali), la posizione preferita è quella all’ultimo banco, in fondo, dove non c’è mai nessuno intorno. Lo facevo per istinto ma quello che mi mancava era il vero motivo. Non mi ero mai interrogato prima ma oggi son riuscito a capire qual è. E cioè che odio il momento in cui il prete, durante la cerimonia dice: “Scambiatevi un segno di pace”. Detesto dare quella mano. Non crediate, non è che odi il mondo fino al punto da rinnegare ogni contatto, ma nemmeno posso dirmi in pace con esso, e formalizzare un sentimento che non provo mi irrita a dismisura. Questo è quanto. Non sono in pace col mondo e non ho nessuna intenzione di esserlo.

giovedì 8 ottobre 2009

veglia

Ed ecco che l’angoscioso sentimento di catastrofe che avvertivo sulla pelle negli ultimi giorni si è concretizzato stanotte, intorno alle tre, in una telefonata con cui mi annunciavano la morte di mia zia Maria. Era vecchia e malata e ce lo aspettavamo da tempo. Non ho potuto però fare a meno di provare un gran senso di dispiacere perché era una delle zie per cui provavo più simpatia. Una di quelle che aveva scelto in una tipica famiglia meridionale, cioè religiosissima e leggermente bigotta, la via dello scandalo.
Sapete, famiglie come la nostra vivono di primi casi. Sono il succo delle nostre storie. Così come c’è stato mio zio Onofrio che è stato il primo a scrivere poesie, così come mio nonno è stato il primo musicista nottambulo perditempo di famiglia, e a me è rimasto solo il ruolo assai meno divertente del primo laureato di casa, così lei è stata l’unica donna della mia famiglia a lasciare a un certo punto il marito perché, diceva, non lo sopportava più. Non conosco benissimo la loro storia ma pare fosse stato un matrimonio senza amore e quando anche la pazienza finì, lei fece una cosa inaudita per i tempi e lo mollò, portando con sé il figlio disabile. Non posso dire nulla di male di suo marito, non l’ho conosciuto bene ed è morto molti anni fa, ma mi pare non fosse una cattiva persona, solo era testardo come un mulo. Non parlavano mai. Non si amavano. Può succedere.
Questa storia mi mette addosso una certa tristezza. Lui è morto solo e abbandonato nella sua casa in campagna. Era malato e non c’è stato nessuno che si sia occupato di lui. Lei è morta sola stanotte, non più autosufficiente e un po’ tocca. Ci ha dato la notizia la badante. E solo resta ancora il loro figlio disabile, che ha cinquant’anni e non sa legarsi le scarpe e prende una pensione da fame. Mi chiedo cosa sarà di lui. Ho pensato a questa storia tutta la notte.



Stamattina poi, per quegli strani accostamenti del pensiero che ti vengono fuori quando meno te lo aspetti, mi sono reso conto, guardando la data, che domani cade l’anniversario della morte del Che Guevara, un altro uomo che ha sacrificato tutto per la libertà, pure gli uomini che l’hanno seguito fiduciosi nella sua ricerca dell’ideale. Ho pensato persino al Lodo Alfano, credetemi, alla beffa subita ieri dal Governo. Ho pensato ai cazzi miei personali, a delle cose che mi sono state dette. E mi sono accorto che siamo in fondo così uniti, gente, che non c’è idea di libertà che non sia in fondo una forma di crudeltà verso l’altro. La libertà è crudele e dura, è così. Si sacrifica sempre qualcuno per ottenerla. È una lotta, una conquista che richiede dello spargimento di sangue, per strapparsi gli altri di dosso, e motivati da un tale senso di necessità da ritenere alla fine la sofferenza degli altri, appunto, il male minore.

lunedì 5 ottobre 2009

l'inverno è ancora lungo e il cielo troppo lontano

Di giorno è più facile far finta di niente ma di sera no, di sera c’è il buio e la tastiera e tutta questa voglia di dire che trabocca. Non sto bene, è ovvio. Per quanto mi sforzi di negarlo i sintomi sono evidenti. Sono distratto, sempre con la testa per aria, mai del tutto felice. Bevo troppo. Sono fiacco, debole. Ho l’ansia addosso, in corpo, esattamente fra petto e gola, come una mano che stringe e ti toglie il fiato. Respiro a fatica, ho voglia di piangere. Faccio sogni a occhi aperti. L’ultimo riguarda un palazzo in costruzione qui di fronte. M’ immagino come sarebbe facile arrampicarsi sulle impalcature e gettarsi di sotto. Una mia vecchia fantasia che a volte ritorna. Sta tornando infatti. La depressione dico, la sento strisciare in me. Respingerla finora non è servito. I miei problemi di cuore poi non aiutano. Ma è una cosa più grande. Ogni due o tre anni ritorna. Comincia attaccandomi dallo stomaco e poi sale su su fin nella mia testa. Mi travolge come un'onda. Mi distrugge e mi ricrea, ogni volta. Succede sempre alle soglie dell’inverno. Chiudo i ponti col mondo, mi chiudo in casa per non vedere nessuno, non rispondo nemmeno al telefono e do di matto per un po’. Poi torno normale, se mai lo sono stato. Eppure un po' cambiato. Ogni volta più solo, provato, creativo anche. E in ogni caso “socialmente” inutile. Ma quanto può durare un inverno così?

noi non siamo soli

Ho sempre trovato straordinaria la storia di Robert Wyatt. Uno dei più grandi batteristi della storia del rock che un giorno, totalmente ubriaco, cade giù dalla finestra di un palazzo e resta paralizzato dalla vita in giù. Un altro si sarebbe demoralizzato fino al punto di smettere di vivere. Lui invece si è rimboccato le maniche e ha ricominciato tutto da capo. E ci ha dato alcune delle più belle canzoni di sempre. La preferita di molti però resta questa: Sea song, scritta in ospedale durante i lunghi mesi di degenza dopo la caduta. Potete prenderla come preferite, come una canzone d’amore o come un inno alla vita, o una metafora del suo mutamento esistenziale. Come volete. Vi si respira una leggera inquietudine sotto la fascinazione, come a cantare col fiato sospeso. Una sensazione che qualcuno di noi conosce bene. Tutto il disco in cui è inserita, Rock bottom, è splendido, per quanto non proprio allegrissimo. Del resto vi sfido a sfracellarvi sul marciapiede dal terzo piano ed essere allegri. Ma vi è qualcosa di più. Rock bottom è come un viaggio (tutte le grandi opere d’arte lo sono in fondo) attraverso il dolore, il buio e lo sconforto verso la luce, l’accettazione e una nuova serenità, riassunta nella risata che chiude il disco. Ho trovato su youtube due video di questo pezzo. In uno, girato nel 1974, poco dopo l’incidente, Wyatt è solo al piano con la sedia a rotelle ben in evidenza e dei palloncini colorati tutti intorno, ha gli occhi spiritati e in effetti fa una certa impressione, mette angoscia. L’altro, quello qui sotto, è di qualche anno fa e propone l’ultimo Wyatt, un raffinato interprete lontano anni luce dagli eccessi giovanili, barbuto e bianco come un piccolo guru. Lo guardo e spero di arrivarci anch’io a questa pace, e canto e mi ripeto: noi non siamo soli, noi non siamo soli, per convincermi.



SEA SONG

Sembri diversa ogni volta che arrivi
dall' acqua salmastra coronata di spuma
è la tua pelle che brilla delicatamente alla luce della luna
in parte pesce, in parte focena, in parte cucciolo di balena

Sono tuo? Posso giocare con te?
Scherzi a parte quando sei ubriaca
sei fantastica quando sei ubriaca
ma mi piaci di più a notte tarda - sei quasi perfetta

Ma non riesco a capire la differente te
la mattina quando è ora di giocare
a essere umani per un po'
per favore sorridi!

Sarai diversa in primavera, lo so
sei una bestia stagionale
come le stelle marine spinte dalla marea, dalla marea
quindi finchè il tuo sangue va a incontrare la prossima luna piena
la tua follia combacia perfettamente con la mia, con la mia
la tua pazzia combacia perfettamente con la mia, la mia

Noi non siamo soli

venerdì 2 ottobre 2009

perché sarebbe meglio risparmiare sul telefono

Sapete, a chi vive in un paese piccolo come il mio capita spesso che la sera non sai che fare e allora ci si ritrova tutti al bar, quello delle foto qui sotto, a parlare. E a furia di parlare sempre con le stesse persone si finisce alla fine per tirare fuori gli argomenti più idioti. Argomento dell’altra sera, ad esempio, è stato (precise parole di Andrea): “Ma secondo voi il Lillo è un tombeur de femmes?” Una proposta doverosa, dicono, e derivata dall’incredibile numero di appuntamenti e facilità di abbordaggio che dimostrerei di continuo. Ho cercato di oppormi alla discussione, giuro, perché odio che si parli così dei cazzi miei in pubblico. Ma non c’è stato nulla da fare. Quando partono queste discussioni, il soggetto delle stesse viene regolarmente ignorato o zittito e più si dibatte, più viene paraculato. Così alla fine mi sono messo in un angolo zitto, sperando che il mio totale immobilismo li ispirasse a lasciarmi perdere. Invece si sono messi lì a sviscerare tutto quello che sapevano di me, per usarlo come esempio di questa o di quella teoria ma in realtà con l’unico intento di mettermi in imbarazzo. Mi sono sorbito battute, battutacce, sberleffi, pizzicate e pure qualche schiaffo dietro la nuca ma così, per simpatia, finché alla fine dell’analisi è venuta fuori l’illuminante realtà: “No, Lillo non è un tombeur de femmes, perché non è abbastanza figlio di puttana!” Bella scoperta, ho concluso io.
Non fosse altro che tutti questi appuntamenti e abbordaggi alla fine non portano mai a niente, niente più di una, massimo due serate, una settimana, salvo che poi tutte, tutte dico, tornano per dirmi che non vogliono perdermi di vista, che per loro sono unico e prezioso, che le ascolto come non fa nessun altro, e insomma: “Possiamo rivederci ma solo per parlare?”. La vecchia storia dell’amico perfetto. Il che, però, da un po’ mi ha messo in allarme. Ho cominciato a interrogarmi e a interrogare i miei amici sulla natura di questi strani ritorni, per capirci qualcosa.
E gli amici hanno parlato chiaro e tondo. Roberto, più tecnico, dice che vi è in me un eccesso di lato femminile, che se da una parte mi rende subito simpatico alle donne, le attira, dall’altro le indirizza poco dopo verso la bell’amicizia. Ale, più diretta, mi ha detto: “Lillo, le donne sono masochiste e totalmente irrazionali! Tu ti apri troppo, le rispetti, le tratti come se fossero dee in terra e quelle magari cercano solo uno che le faccia piangere un poco, che le tratti un po’ da puttane, così possono scoparselo e poi lamentarsi di come sono state trattate male dallo stronzo di turno, quando lui non si fa risentire! Si rispettano le amiche, Lillo! Quelle che ti interessano le devi trattare male!” E su questo non aggiungo nulla perché più chiaro di così si muore, e a parlare è stata una donna, quindi credo che, a meno che non pensiate che sia matta, comunque rappresenta tutta una tipologia.
Ieri sera, quando ne ho parlato con Dani, che è una donna pure lei ma ha un punto di vista e un carattere molto diversi da Ale, mi ha detto che in effetti in me c’è un eccesso di attenzioni, a volte. Che siccome credo giusto e bello richiamare una donna se mi piace, se ci sono stato bene o anche solo se ho voglia di sentirla e non la vedo da un po’, mi aspetto che anche la donna in questione lo faccia con me. E ci rimango male se invece questo non succede. Il punto, mi diceva Dani, è che non è detto che una donna abbia le tue stesse esigenze, magari dà per scontato che se mi piaci basta questo, io lo so e tu lo sai e non c’è bisogno di altre conferme. Soprattutto quando non ti ama. Così quando mi serve vederti, ti chiamo. Altrimenti no. Punto. Per me no invece, non funziona così, per me è importante sentirsi con regolarità, è un’esigenza. Insomma credo sia il mio lato femminile che però, a questo punto, ritengo sia del tutto sballato.
La migliore però me l’ha detta Marina stasera. Eravamo fuori insieme e mi dice, confrontandoci su alcune storie passate: “Lillo, l’importante è non diventare mai oggetto della pietà di lei. È brutto per lei che magari ti vuol anche bene ma non ricambia i tuoi sentimenti, per te che sei migliore di così e hai una tua dignità, e pure per i tuoi amici che ti stanno accanto per darti una mano e si sorbiscono le tue lamentele folli!” Mi ha aperto gli occhi, giuro. Altro che tombeur de femmes!
Che dire, imparerò dai miei errori, anche se non so ancora bene come. Magari mi faccio un uomo, ho pensato. Oppure, più seriamente, non chiamo più nessuna e basta. Sto a casa e aspetto che mi chiamino loro, se ci tengono. Così risparmio anche, che sono sempre al verde! A meno che, ovvio, non abbia un'estrema necessità di lei: “Prontooo?” “Scusi, mi servirebbe un’idraulica!”