sabato 30 gennaio 2010

una giornata particolare



A volte ti capitano delle giornate di quelle che sembrano fatte apposta per dirti qualcosa. E tu magari non vorresti nemmeno sentirtele dire queste cose. Però sono lì, evidentissime, e ogni singola situazione pare un segno troppo perfetto, come se fosse stato messo lì da qualcuno, come in un film, solo e unicamente per darti l’opportunità di una riflessione che ti porti da qualche parte, magari soltanto verso una nuova stazione.
Così è stato ieri, quando svegliandomi e guardandomi allo specchio, ho fatto una scoperta straordinaria: il primo pelo bianco nella barba. È stata una di quelle cose che per alcuni minuti mi ha lasciato lì interdetto a osservare l’intruso sul mio viso, e chiedendomi se fosse davvero o no quello che credevo, magari un pelo un po’ più biondo degli altri, ma no era bianco e basta. Lo so che può sembrar ridicolo a raccontarlo così ma il primo pelo bianco di un uomo la sua importanza dovrà pure avercela, no?
Ho passato la mattina all’Ordine dei Giornalisti e poi sono andato a pranzo con una ragazza. Una bellissima ragazza dal sorriso luminoso e con quel pizzico di malinconia nello sguardo che fa la differenza, e stavo così bene con lei, ero così preso dalla conversazione e dalle sue gambe che, a un certo punto, incrociandola in corridoio mentre andavo in bagno ho seguito l’istinto e l’ho abbracciata per baciarla. E, tenendola fra le braccia, l’ho sentita sussultare. Ho capito di averla spaventata, perciò le ho dato un bacio sulla guancia e le ho chiesto scusa.
Vorrei precisare che non sono un maniaco che aggredisce le ragazze nei bagni. Al massimo ho visto troppi film romantici in cui queste cose funzionano sempre. Però tutto questo mi serve per dire che ho capito una cosa: ho capito che è così tanto tempo che amo ma non sono riamato, che ho dimenticato che sensazione si prova a ricevere dell’amore e ne ho bisogno. Perché dare amore e basta, mi sono accorto, ti induce a diventare egoista in un certo qual modo, ti spinge ad avercela con gli altri e a prendere, con vera rabbia a volte, quello che non ti viene dato. Persino chi vive di paturnie d’amore si prende uno spazio inesistente nella vita dell’altro e si crea un angolo di vita virtuale, fasullo, per nutrire meglio il suo non-amore. Ma questo è sbagliato. Porta solo dolore e fa male a tutti. A chi vive direttamente queste storie e, per riflesso, a chi le vive intorno.
Così ieri sera, quando sono tornato a casa e ho trovato sul mio computer la sua mail così triste e stanca, mi sono sentito stanco anch’io e ho trovato la forza di fare quello che andava fatto, tagliando in un solo minuto quello che non si era spezzato persino negli ultimi dolorosissimi mesi, cioè qualsiasi ponte ci fosse con la persona che più di ogni altra ha significato qualcosa per me negli ultimi 4 anni. L’ho fatto con un pugnale conficcato nel cuore ma non si può vivere sempre sottacqua, guardando il mondo attraverso l’oblò di un palombaro, a volte bisogna venire su, in superficie a rendersi conto del cielo. Ho cancellato tutto, ogni numero, traccia, ricordo. Non mi restano che una manciata di poesie. E se questo amore è valso qualcosa, lo si vedrà solo leggendo quei versi e nient’altro.
Ora però sono stanco. Lo slancio che mi è servito per salire dal fondo in superficie mi è costato troppa fatica. Una fatica immensa. La morte di qualsiasi illusione o fiducia nel presente. Sono senza più energie, per citare lei. Si parlava di Salinger ieri. Sapete, non sono d’accordo con chi diceva che aveva smesso di vivere molti anni prima di morire. Sì, è vero, si era allontanato da qualsiasi forma di rapporto sociale, ma questo non significa nulla. Si parla di un autore qui e un autore non vive mai semplicemente e basta. Un autore vive sempre al massimo ogni singola esperienza per poterla poi utilizzare nella sua opera. Un autore assorbe tutto, somatizza, rielabora continuamente il suo vissuto. E siccome so, perché mi capita, che ogni esperienza vissuta ti arriverà dritta nello stomaco come un pugno, allora forse Salinger, arrivato all’indipendenza economica, detto quello che aveva da dire, ha preferito chiudersi in casa a godersi l’eccelsa bellezza di un tramonto o di una bottiglia di vino, senza altre scosse. Un po’ lo invidio. Magari potessi farlo anch’io.
Invece, come vi racconta la foto sopra, sono ancora in viaggio verso una meta non meglio precisata, un po’ più stanco e un po’ più triste e non ancora bene a fuoco. Ho la barba lunga che comincia a diventare bianca. Senza accorgermene sono diventato grande. E anche se non vorrei mai invecchiare, con un po’ di fortuna potrei anche farcela ad arrivare, come Salinger, a godermi una bottiglia di vino e un tramonto senza poi dovermi sempre chiedere: e adesso che succederà? Senza altre scosse del cuore. Certo, c’è da chiedersi: ma senza altre scosse di cosa mai potrei vivere, scrivere? Ma con un po’ di fortuna lo scoprirò, credo. Lo scopriremo tutti.



Vorrei chiamarla, dirle: le volpi con le code incendiate
non parlano, ma gridano pazze fra gli alberi per il dolore.
Sediamoci per terra, oppure là, sopra panchine imbiancate
sediamoci sopra un letto di foglie secche e ascoltiamo il nostro cuore.
Ci siamo scordati e perduti, ti ritrovo adesso all'improvviso
dentro una piccola stazione in un giorno grigio d'ottobre.
Tu non mi guardi neppure, io solo ho l'inferno nel cuore
perché la vita è una goccia che scava la pietra del viso.

giovedì 28 gennaio 2010

l’ultimo capitolo era già scritto

Ecco tutto quello che sono disposto a raccontarvi. Probabilmente potrei dirvi quello che feci quando andai a casa, e come mi sono ammalato e via discorrendo, e a che scuola dovrei andare in autunno quando sarò uscito di qui, ma non ne ho voglia. Sul serio. Ora come ora, queste cose non mi interessano molto.
Un sacco di gente, soprattutto questo psicanalista che c’è qui, continuano a domandarmi se quando tornerò a scuola a settembre mi metterò a studiare. È una domanda così stupida, secondo me. Voglio dire, come fate a sapere quello che farete, finché non lo fate? La risposta è che non lo sapete. Credo di sì, ma come faccio a saperlo? Giuro che è una domanda stupida.
D.B. non è tremendo come gli altri, ma anche lui continua a farmi un sacco di domande. L’altro sabato è venuto in macchina con quella bambola inglese che prenderà parte al nuovo film che lui sta scrivendo. Era una posatrice fenomenale, ma bella da morire. Ad ogni modo, quando a un certo momento è andata alla toletta delle signore, che sta a casa del diavolo nell’altro reparto, D.B. mi ha domandato che cosa ne pensavo io di tutta questa storia che ho appena finito di raccontarvi. Non ho saputo che accidenti dirgli. Se proprio volete saperlo, non so che cosa ne penso. Mi dispiace di averla raccontata a tanta gente. Io, suppergiù, so soltanto che sento un po’ la mancanza di tutti quelli a cui ho parlato. Perfino del vecchio Stradlater e del vecchio Ackley, per esempio. Credo di sentire la mancanza perfino di quel maledetto di Maurice. È buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.

martedì 26 gennaio 2010

if not for you

Traduzione, con dedica, del testo di una canzone di Bob Dylan.

SE NON FOSSE PER TE

Se non fosse per te
non troverei neppure la porta
non vedrei dove metto i piedi
sarei triste e depresso
se non fosse per te

Se non fosse per te
starei sveglio l’intera notte
ad aspettare che entri
la luce del mattino
ma non sarebbe così nuova
se non fosse per te

Se non fosse per te
il mio cielo cadrebbe
la pioggia verrebbe giù a scrosciate
senza il tuo amore non sarei un bel niente
sarei perduto se non fosse per te
e tu sai che è vero

Se non fosse per te
l’inverno non avrebbe primavera
né sentirei il pettirosso cantare
non saprei nemmeno cos’è
se non fosse per te

sabato 23 gennaio 2010

una canzone per paolo vites

A quanto raccontano Nobody loves you when you’re down and out, di John Lennon, venne scritta in origine pensando a Frank Sinatra che però, non se ne conoscono i motivi, ascoltato il nastro declinò l’offerta. Chissà, forse la sentiva troppo personale. Già dal primo ascolto, infatti, la si può ritenere la cosa più amara del catalogo di Lennon. Composta alla fine del 1973, durante il weekend perduto (di cui si è già parlato), venne poi pubblicata con un accompagnamento di fiati alla Phil Spector per chiudere Walls and Bridges, 1974, ultimo album di canzoni originali a firma del solo John, qui, per la prima è unica volta, solo per davvero, senza i Beatles e senza Yoko Ono ma con in mano una bottiglia. Si sente.



NESSUNO TI AMA (QUANDO SEI TRISTE E STANCO)

Nessuno ti ama quando sei triste e stanco
Nessuno ti vede quando sei al settimo cielo
Ognuno si sbatte per i suoi quattro soldi
Grattèrò la tua schiena e tu gratterai la mia
Sono stato dall’altra parte del muro
Ti ho mostrato ogni cosa, non ho niente da nascondere
Eppure mi chiedi ancora se ti amo
Cosa significa? Cosa significa?
Tutto quel che posso dirti è
È solo show business
Tutto quel che posso dirti è
È solo show business
Nessuno ti ama quando sei triste e stanco
Nessuno ti conosce quando sei al settimo cielo
Ognuno si sbatte per i suoi quattro soldi
Gratterò la tua schiena e tu pugnalerai la mia
Ho attraversato i mari così tante volte
Ho visto lo stregone con un occhio solo guidare il cieco
Eppure mi chiedi ancora se ti amo
Cosa dici? Cosa dici?
Ogni volta che cerco di affrontare la cosa
Mi sfugge di mano
Ogni volta che cerco di affrontare la cosa
Mi sfugge di mano
Mi alzo la mattina e guardo nello specchio per vedermi
Poi mi stendo nel buio e so che non riuscirò a dormire
Nessuno ti ama quando sei vecchio e grigio
Nessuno chiede di te quando sei sottosopra
Ognuno è felice per il suo compleanno
Tutti ti amano quando sei sottoterra

martedì 19 gennaio 2010

la poesia del mignolo

Manu sul suo blog ci parla del fondamentale lavoro di limatura necessario a un testo. È strano perché appena mezz’ora prima di leggere il suo post mi son ritrovato a parlare con una collega che mi confessava di non rileggere mai quel che scrive. In fondo è cronaca, dice. E a qualcuno importa e a molti altri no, si potrebbe concludere. E, a meno che tu non abbia delle ambizioni particolari, nessuno verrà mai a rimproverarti. È già tanto che ti leggano per sapere chi è morto e chi ha truffato chi, figurati interrogarsi sullo stile.
Io sto leggendo in questi giorni un libro di Aldo Nove basato su un ipotetico incontro avvenuto fra Hopper e Carver. Il libro si intitola Si parla troppo di silenzio, e l’idea alla sua base secondo me è splendida. Peccato che la scrittura sia invece inadeguata al materiale. Io trovo che sia un libro scritto male, considerato che si tratta di Nove. Secondo me non ci si è nemmeno impegnato, limitandosi spesso a ricopiare del materiale estratto dalle fonti. Eppure regge, alla fine regge. Magari tanta sciattezza, ti dici per farti coraggio, è pure voluta, che ne sai? Magari è la solita sperimentazione di Aldo Nove.
E poi quella del labor limae, per dirla come Orazio, è in fondo una gran rogna. Mica facile sviluppare un senso autocritico tale da portarti alla perfezione. Sbagliano anche i grandi a volte. Hemingway in un suo racconto che parlava di un suicidio a cui aveva assistito e intitolato Fuori Stagione, a furia di togliere e togliere per migliorarlo, alla fine tolse anche la fine e del suicidio non si capì più nulla (l’aneddoto è riportato dalla Pivano nella sua introduzione ai 49 racconti). E Carver, che spesso si cita come massimo esempio di sobrietà, ancora più spesso non toglieva lui, ma i tagli gli venivano imposti da Gordon Lish, il suo editor, con vere e proprie crisi depressive da parte dell’autore. A Erri de Luca, da molti ritenuto il più essenziale ed elegante degli scrittori italiani viventi, viene affibbiato da alcuni critici l’aggettivo di dannunziano. Come dicevo prima, una vera rogna.
Anche perché questi alla fine sono giudizi esterni all’autore. Per uno scrittore le cose essenziali sono altre. Certo creare bellezza è fondamentale. E il futuro, credo, va tutto verso la brevità dell’intervento. Meno lettere scrivi e meglio è. In questo la poesia sarebbe avvantaggiata, se il mercato avesse un pelo di interesse in più per lei. Ma alla fine uno scrive quello che sente di dover scrivere e ci lavora su finché non lo sente perfetto. È tutto qui l’atto creativo. Poi è il mondo a giudicare. Ma lui, l’autore, se è riuscito a parlare di sé in maniera non banale, il suo sporco lavoro l’ha già fatto. La cosa più importante è restare onesti, per quanto difficile. Parlare sempre col cuore in mano. Ed essere umili.
Le poesie più belle di Montale, in fondo, sono quelle per Drusilla Tanzi in Xenia, lei oramai scomparsa e ridotta da lui a un insetto infinitesimale, a una mosca: poche cose della vastissima produzione dei suoi ultimi anni valgono quelle 14 poesiole. Ungaretti sui pochi scarni versi che descrivono Moammed Sceab o i fiumi della sua Allegria ci ha costruito interi mondi (tutti un po’ desertici nella mia mente) che ancora sogniamo. La Lamarque in Teresino ha compiuto il miracolo di un linguaggio semplicissimo ma perennemente in bilico fra ansia di vivere e dolcezza, che arriva dritto al cuore e non ne esce più.
E anche io spero un giorno di lasciare la traccia più viva di me per le poesie dedicate alla mia sposa, scappata via una sera col suo demon lover, perché (per rispondere alla domanda fatta da Manu alla fine del suo post) l’unico osso che mi manca per essere davvero felice è quello del suo mignolo quando prendeva il mio durante le nostre passeggiate per indicarmi la strada da seguire. Sull’assenza di quell’osso ci ho scritto il mio libro più bello, quello che nessuno ha mai letto.

venerdì 15 gennaio 2010

lou reed e l'amore - shelley albin (seconda parte)

Lou e Shelley si ritrovarono intorno al 1968. Shelley nel frattempo si era sposata. E anche stavolta, così com’era successo coi suoi genitori, quando presentò Lou a suo marito sperando di poter costruire fra loro una solida amicizia, questi si rifiutò di avere a che fare con tale feccia umana. Visto che Shelley rimaneva sempre e comunque legata a Lou e non volendo rinunciare a vederlo, il loro rapporto divenne, proprio come alcuni anni prima, una dolorosa sequenza di incontri clandestini, fatti di brevi attimi di totale felicità e lunghi pianti senza sfogo. Si incontravano al parco o andavano allo zoo, passeggiavano, parlavano, ridevano, si capivano come nessun altro al mondo, eppure erano consci di quanto fossero effimeri questi momenti. I ricordi di quei pomeriggi così intrisi di bellezza e allo stesso tempo di un’infinita tristezza per tanto amore negato, ispirarono poi Reed per quella che forse resta, insieme a Sweet Jane, la sua canzone più famosa, Perfect day (contenuta in Transformer, del 1972).



Non solo, i tormenti sentimentali che stava vivendo in quel momento, diviso com’era fra questa storia senza futuro con Shelley e una relazione omosessuale con Billy Name, fotografo conosciuto alla Factory, lo costrinsero a guardare dentro di sé e a scrivere il suo primo vero album personale, il terzo dei VU (senza titolo), tutto dedicato alle sue riflessioni sull’amore, che viene sviscerato in ogni sua forma. Lo stesso Reed era così legato a questo lavoro da permettersi di modificare, senza informarne gli altri, il missaggio finale mettendo maggiormente in evidenza la propria voce sugli strumenti. Così che, messe da parte atmosfere malsane, distorsioni e ritmi tribali, si respira un’intimità senza precedenti per un disco dei VU, e infatti molti fan del gruppo storcono il naso a sentirlo. Eppure è uno dei capolavori degli anni ’60, e una delle opere più intense di Reed, che nel disco inserisce alcune delle sue perle: Some kinda love, Candy says, Afterhours, ma soprattutto Pale blue eyes, la più dolce e fragile delle sue dichiarazioni d’amore, con quel tocco di fatalità in più che fa la differenza. "Ho scritto questa canzone per qualcuno che mi mancava troppo" dirà poi in un’intervista. Per la prima volta è lui a incidere uno dei suoi pezzi sentimentali su disco. Nessun altro avrebbe potuto cantarlo così.



Nell’estate del 1969 la storia di Lou e Shelley assunse le tinte di una relazione vera e propria. Lou, che sentiva di capirla e di amarla più di suo marito le chiese più volte di lasciarlo ma lei, pur desiderandolo, ben sapeva che la vita con lui sarebbe stata troppo disordinata perché potesse adattarvisi. Shelley rifiutò sempre di fuggire con Lou, pur fra mille dubbi e rimorsi. Le composizioni di Reed di questo periodo registrano questa incertezza. Da una parte scrive canzoni vivaci e allegre come She’s my best friend (che poi, rallentata, finì nello stesso disco di Coney Island Baby), dall’altra lamenta la sua assenza e il suo bisogno di lei in brani come I can’t stand it, non ci sto, (in parte riscritta per il suo primo album solista) nel cui ritornello canta, dopo che la padrona di casa ha cercato di picchiarlo con una scopa: “Ma se Shelley fosse qui con me tutto andrebbe bene”.
Il mio pezzo preferito di queste registrazioni, però, si intitola I’m sticking with you, mi sto attaccando a te, e come spesso succede nei pezzi più intimi del primo Reed, la fa cantare ad altri. In questo caso il pezzo è costruito con un arrangiamento vaudeville e affidato alla batterista, Maureen Tucker, che con la sua voce da ragazzina non fa che accentuare il sentimento d’innocenza espresso dal testo (non a caso poi inserito nella colonna sonora di Juno). A metà però succede l’imprevisto. Il pezzo diventa prima un duetto fra lei e Reed. Poi, per dieci lunghissimi secondi, proprio come in I found a reason, Reed canta da solo, anzi di più, fa cantare il suo cuore. Non è mai stato e raramente sarà ancora così scopertamente nudo come in questo momento. Non è più una semplice interpretazione la sua, si avverte, è puro sentimento: “Farò qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa mi chiederai di fare, qualsiasi cosa per te…” prima del coro in crescendo finale. Qualsiasi cosa perché tu (Shelley) stia con me, è sottinteso. È un momento di grande commozione. La crisi è già alle porte e lui la sente e, come succede sempre a tipi così, l’unica maniera che ha per combatterla è aprirsi completamente, tirare fuori e confessare i suoi più intimi sentimenti. Una resa totale all’altra che però non venne capita, generando in tal modo un profondo rancore.
Tutto ciò è molto triste perché negli ultimi pezzi di Reed dedicati a Shelley (composti durante le registrazioni di Loaded ma utilizzati anch’essi nel suo primo album solista) si respira la trepidazione per qualcosa di nuovo. I love you e Love makes you feel sono pezzi di una semplicità disarmante in cui Reed ammette, finalmente in prima persona, di aver compreso che non ci si può opporre all’amore, che è stupido, perché l’amore ti fa star bene, ti fa sentire alto tre metri, e suona così...


Quando Shelley rimase incinta, nel 1970, fu costretta a scegliere se restare col marito, garantendo così alla figlia un futuro sicuro e confortevole o seguire Lou nelle sue derive tossiche e nei suoi sogni di rock’n’roll. Lei scelse di restare col marito. Il suo ultimo dialogo con lui avvenne al telefono. Lou stava male, era depresso: stava cercando, senza successo, di disintossicarsi e aveva lasciato i Velvet, nel tentativo di darsi una nuova direzione. La chiamò per congratularsi con lei della bambina e anche perché aveva bisogno di sentirla e lei, che aveva la madre accanto, fece finta di non conoscerlo e chiuse il telefono dicendogli che aveva sbagliato numero. Lui non la cercò mai più.

giovedì 14 gennaio 2010

lou reed e l'amore - shelley albin (prima parte)


Lou Reed incontrò Shelley Albin, ispiratrice delle più belle e famose fra le sue canzoni d’amore, durante il secondo anno di Università, a Syracuse, nel 1962. Passarono insieme, letteralmente appiccicati l’uno all’altra, i due anni successivi. Erano anime complementari e non riuscivano a stare lontani. Proprio per questo, paradossalmente, la prima testimonianza di quest’amore assoluto, fu il frutto della lontananza, durante il ritorno a casa per le vacanze estive fra secondo e terzo anno di università. Chi non ha presente quel sentimento così comune nelle storie a distanza, quando si sta soli a casa struggendosi di passione e malinconia e sospettando invece che l’altro se ne vada tranquillamente in giro a divertirsi con chissà chi? Ecco, il giovane Lou incanalò le sue prime crisi di gelosia in un breve racconto intitolato The gift, il dono, sviluppandole però in una trama grottesca, con tanto di omicidio finale di lui da parte di lei, e che prenderà la forma di un’agghiacciante spoken song solo nel 1967, quando John Cale lo recitò con voce incolore su una sgangherata base musicale improvvisata dai Velvet Underground per il loro secondo disco, White light/White heat. Qui sotto un bellissimo cortometraggio in italiano della canzone.



All’opposto, con I found a reason, ho trovato una ragione, l’altro grande pezzo scritto quell’estate, Reed scrisse la sua prima canzone d’amore in cui cercava di dare al proprio sentimento una forma attraverso le parole, di comunicarlo a un’altra persona. Ci aveva già provato pochi mesi prima con Coney Island Baby, una canzone che però non avrebbe avuto seguito e sarebbe stata completamente riscritta (e dedicata a un’altra persona) a metà degli anni ’70. È interessante notare come la prima versione di I found a reason, che tanto commosse Shelley quando la ascoltò, fosse arrangiata come un pezzo folk con tanto di armonica dylaniana (come la si può sentire nell’antologia Peel slowly and see). Non è una semplice curiosità, se si considera che il folk, nei primi ’60, era sinonimo di sincerità assoluta, spoglia ed essenziale. Quando Reed decise di riutilizzare il pezzo per Loaded, l’ultimo album dei VU, lo arrangiò con eleganza in chiave doo wop, lasciando il cantato a Doug Yule, il bassista del gruppo e tenendo per sé solo la strofa centrale parlata. Reed disse poi che non sarebbe stato credibile se l’avesse interpretata lui, ma è ovvio che non si sentiva a suo agio a cantare un brano in cui dichiarava così spudoratamente la propria sensibilità. A me personalmente piace, ancora più dell’originale, l’intensa versione che ne ha dato Cat Power nel 2000, e che credo catturi alla perfezione il sentimento di totale abbandono romantico provato da Reed quando la sentì nascere dentro di sé.



Nel 1963 il rapporto di Lou e Shelley si fece ancora più saldo. Divennero, come disse poi Reed, così intimi da essere quasi uno, da pensare le stesse cose nello stesso momento, da vivere in totale simbiosi e completare l’uno i bisogni dell’altro. Chi ha vissuto una storia così sa che sono brevi momenti di perfezione, ma restano unici nella memoria. Reed volle celebrare questi momenti in quello che può ritenersi il suo primo capolavoro assoluto come compositore, I’ll be your mirror, sarò il tuo specchio, perché se la guardavo, disse poi Reed, era come vedere me stesso. Una canzone a cui poi restò sempre legato ma incisa, sul primo disco dei VU, da Nico. Quei mesi e quella canzone furono il loro apice di felicità.
L’idillio finì quando Lou fece il grosso errore di chiedere a Shelley di presentarlo ai suoi genitori. Quando i due lo incontrarono si ritrovarono davanti a un tossico cinico e nichilista, e (comprensibilmente) impedirono alla figlia di rivederlo. Il loro divenne così un amore segreto, trascinatosi fra grandissime difficoltà, dovute ai primi massicci esperimenti con le droghe di Reed (in questo periodo scrisse Heroin e Waiting for my man) che avevano un effetto deleterio sul suo carattere. Alla fine Shelley, stanca, lo lasciò per un altro. Reed ci rimase male, tanto da litigare ferocemente con lei. Ma quando nel 1964 si laureò, prima di andare via dall’Università, si fermò a casa di lei, che era malata e non aveva nessuno accanto e le rimase vicino, prendendosene cura, finché non fu guarita. Era la prova che in fondo, nonostante tanti problemi, l’affetto fra loro restava sempre fortissimo. Poi i due si persero di vista per quasi tre anni, il tempo necessario a Reed per formare i Velvet Underground e per completare la sua discesa all’inferno nella Factory di Andy Warhol.


(continua)

mercoledì 13 gennaio 2010

alessandra

l'interpretazione dei sogni

È il sogno più ambito da qualsiasi uomo della mia generazione: una compiacente signorina in minigonna che ti offre un bel lavoro statale con uno stipendio di tutto rispetto in cambio dei tuoi favori sessuali. E infatti ero lì lì per impalmarla sulla lavatrice quando all’improvviso mi è comparso dietro gli occhi, opprimente, un cartello nero con la scritta: RICORDATI DI PAGARE IL CANONE. Ho lottato con tutte le forze contro me stesso ma quando sono riuscito a strapparlo, nella stanza ho trovato solo dei fazzolettini bagnati. Cosa mai vorrà significare?

lunedì 11 gennaio 2010

epiloghi

Una poesia di Derek Walcott.

Le cose non esplodono,
sbiadiscono, svaniscono,

come il sole svanisce dalla pelle,
come la spuma s’insabbia rapida a riva,

anche il lampo fulmineo d’amore
non finisce in un tuono,

ma muore col suono
dei fiori che svaniscono come pelle

sotto la pomice umida,
ogni cosa cospira a questo

finché non si resta
col silenzio che avvolge la testa di Beethoven.

sabato 9 gennaio 2010

incontro con lisetta carmi



C’è Francesco, il mio maestro di fotografia, che me lo ripete sempre: la valle d’Itria è una sorta di polo di attrazione zen per le menti creative. Detto così può sembrare un po’ fantasiosa come teoria. Fatto sta che io di menti creative ne ho incontrate parecchie qui e ne incontro tuttora, spesso provenienti da ogni parte del mondo. Sapete, quand’ero ragazzo c’era Catia, il mio primo grandissimo amore, che si sforzava di trascinarmi all’Ashram di Cisternino, più o meno a un quarto d’ora da casa nostra, e considerato uno dei luoghi di ricerca spirituale più importanti del Sud. Sospetto anzi che se la valle è diventata un tale polo zen è proprio grazie all’azione seminale dell’Ashram. C’è da dire che all’epoca ero un giovane confuso, ingenuo e non poco arrabbiato e mal sopportavo tutto quell’ambiente che consideravo solo una gran truffa e così facevo di tutto per sabotare i piani di Catia per salvarmi l’anima dal cinismo. Catia non riuscì nel suo intento e poi partì per l’India per approfondire la sua ricerca da sola.



Quanto a me che sono rimasto qui e sono diventato il meno arrabbiato degli uomini (non sempre ma spesso mi riesce), non avrei mai sospettato di poter incontrare un giorno la donna che l’Ashram l’ha creato, Lisetta Carmi. Sono andato a trovarla ieri pomeriggio per mezzo di un amico comune e il bello è che ci sono andato non sospettando minimamente che fosse così intima di Babaji. Ci sono andato perché Lisetta Carmi è una delle più grandi fotografe del mondo. E questa fotografa vive a Cisternino, in pieno centro storico già da un po’ di anni. Immaginate il mio stupore e poi la contentezza nello scoprire di avere degli amici comuni che potevano presentarmela, visto che Lisetta già da un po’ predilige la solitudine e non sapevo come avvicinarla. Così siamo andati a trovarla coi miei amici e, se è lecito dirlo, mi sono innamorato di lei. Lisetta Carmi è nata nel 1924 e aspetta la morte con una serenità invidiabile, ma emana un’intensità, un’energia vitale, un fuoco così luminoso e una determinazione tale da lasciare allibiti, da lasciarti lì in silenzio ad ascoltarla come un bambino di fronte a una sorpresa a colori. Così è successo a me, mi sono seduto alla sua destra e lei mi ha preso la mano e ha cominciato a parlarmi e io sono rimasto zitto perché non avevo nulla da dire, nulla da aggiungere a quello che diceva. “L’amore è tutto, un fotografo deve amare la vita, le persone, questo è l’unico segreto che conta. Io amo i poveri soprattutto, i deboli, chi non può difendersi. Io fotografavo per capire gli altri, il mondo, mi serviva quel mezzo per arrivare a loro, per vederli e per vedere me stessa attraverso di loro, quando ho imparato a capire senza bisogno della fotocamera allora ho smesso. Non è la fotografia che mi interessa ma le persone.



L’ho amata subito. Mi ha colpito soprattutto il contrato fra il viso bello, nobile, con gli occhi vivacissimi e brillanti incorniciati dai capelli soffici, bianchi come neve e la schiena piegata, le sue mani gonfie, sformate, le dita tozze e strette da un paio di anellini, mani di una donna che ha sempre lavorato. Mia nonna le ha identiche. Con la differenza che quella di mia nonna è una condanna che si porta dalla nascita, la Carmi è nata ricca e ha dato via tutto per inseguire la sua sete di vita. “Ho sempre pensato che le persone più sfortunate sono le persone ricche, così attaccate alle cose, alla paura di perderle. Una persona povera ha solo se stessa, i suoi affetti. Basta una casa e del cibo, dei vestiti dignitosi per essere felici. Cos’altro serve?
Lisetta Carmi ieri indossava una tunica nera orientale sopra dei vestiti di lana grezza, la scrivania era sommersa dai libri e dai suoi appunti. Mi ha tenuto lontano dallo scaffale delle ceneri perché sono un pasticcione e avrei potuto far danni e infatti come mi son seduto sullo sgabello del pianoforte ho combinato un casino andando a sbattere con la testa contro la lampada e mandando tutto per aria. Lei mi ha sorriso. E mi è sembrata quasi commuoversi quando ha scoperto che non ho una macchina fotografica mia ma me la faccio prestare, forse mi ha accomunato a uno dei suoi poveri, chissà? Mi ha detto che sono fortunato. Si è informata di me con vero interesse e mi ha dato dei buoni consigli. Poi ci ha raccontato la sua storia ed è stata una lunga emozione. La sua infanzia felice a Genova. Le leggi razziali (la Carmi è ebrea) e poi la guerra e la fuga a Zurigo. La musica prima e poi la scoperta della fotografia, proprio qui in Puglia, con una macchinetta da quattro soldi e nove rullini comprati per gioco. Il reportage sui travestiti di Genova che destò tanto scalpore, e poi l’incontro con Ezra Pound. I viaggi in Israele e Sudamerica e poi l’incontro con Babaji. Il film documentario che le ha dedicato Daniele Segre e che uscirà a breve nelle sale ripercorre tutto questo.



Ho scoperto con stupore che anche lei, come me, ha cominciato a fotografare dopo i 30 anni. Prima faceva la pianista. Fino ai 50 si è occupata di fotografia ai massimi livelli, affrontando con coraggio l’ipocrisia e i forti squilibri sociali dell’Italia e allargando la sua visione al mondo intero, senza mai venire a compromessi con nessuno. Poi ha incontrato Babaji e semplicemente ha smesso di fotografare. Ha venduto la sua casa a Genova, ha raccolto le sue poche cose e se n’è venuta in Puglia, con sua madre, a vivere in un trullo per fondare l’Ashram. E ora? Ora vive la sua quinta vita e studia il cinese. “Non bisogna attaccarsi a niente, sapete. La vita è fatta di esperienze e quando ne hai concluso una è inutile continuare a guardarsi indietro. Si tagliano i ponti e si va avanti.



Le foto in B/N sono di Lisetta Carmi e vengono dal suo reportage sui travestiti di Genova.

giovedì 7 gennaio 2010

una canzone da cantare sul tetto a squarciagola

Come tutti ben sanno i Beatles si sono sciolti nel dicembre del 1970, ma in effetti l’ultima loro operazione artistica è avvenuta nel gennaio del 1969, con un breve e inaspettato concerto live, organizzato un po’ alla buona sui tetti della Apple, e durato il tempo di sette pezzi, finché non è intervenuta la polizia obbligandoli a smettere, perché avevano bloccato il traffico del centro di Londra. Fu in realtà un’esibizione molto meno incasinata di quello che si può pensare, ma nella pura semplice bellezza dell’idea (ma ve lo immaginate svegliarsi la mattina e dirsi sghignazzando, magari mentre ci si rolla una canna: beh quasi quasi oggi non dico niente a nessuno e mi metto a suonare su di un palazzo in pieno centro a tutto volume, e poi lo fai davvero?); nel fatto che ancora oggi, a più di quarant’anni di distanza si respira a guardare il video il totale e scanzonato divertimento che si stava godendo il gruppo, privo di qualsiasi ambizione a dimostrare alcunché (con Lennon che si scorda le parole della sua canzone e McCartney che sculetta ballando davanti alle telecamere); e poi nel suo implicito romanticismo, con la musica che si solleva sopra il cielo bianco di Londra, resta un grande addio al proprio pubblico e un esempio insuperato per decine di gruppi che poi hanno provato a imitarli, gli U2 su tutti, ma poi finivano per fare troppo i fichi per convincere chi non fosse una ragazzina alle prese coi suoi primi turbamenti ormonali da rock star. Insomma i Beatles ci sembrano così veri e sinceri perché della serietà non sapevano proprio che farsene. Loro si divertivano e basta. E questo direi che non sempre, ma spesso è tutto quello che conta. In assoluto uno dei concerti che preferisco, non fosse altro che finisco sempre col ridere ogni volta che mi riguardo (sugli altri video che potete trovare su youtube, tipo questo) le facce attonite dei bravi inglesi per strada e poi l’uomo con la pipa che sembra uscito da un quadro di Magritte che si arrampica su una scala per godersi meglio lo spettacolo. E per la cronaca, in una mia ipotetica hit parade delle canzoni d’amore che preferisco, Don’t let me down si piazza di sicuro fra le prime cinque.

mercoledì 6 gennaio 2010

promesse

Questa qui sotto è una libera riscrittura di una poesia di Vivian Lamarque: Regali di Natale. Il primo gennaio il mio amico Mimmo l’ha rielaborata per un reading, mettendoci dentro un po’ del suo. Del resto il tema è così bello che è davvero difficile resistere alla tentazione di farla propria. E così ci ho provato anch’io. Questa è la mia versione anche se della poesia originale alla fine restano appena parte della struttura e intero il terzultimo verso.

Per la vita ti faccio le seguenti promesse
caramelle al miele per quando avrai la tosse
e una coperta e un caldo abbraccio se sei malata
un milione di baci senza scopo
il mio numero anche per chiamare
quando vuoi parlarmi di qualcosa e la promessa
che ogni volta ti presterò attenzione
le mie cartoline da ogni dove per dirti
che ogni luogo è buono per amarti
e poi un mare di ricordi piccini forse ma ognuno
con la sua grande importanza
se ti riguardano e poi raccontano la nostra storia
una canzone da cantare sul tetto a squarciagola
una bugia di terracotta per quando avremo buio
tutta la poesia di questo mondo
e poi anche un pezzetto di cuore solamente tuo.


E su suggerimento di Dani ascoltate qui.

sabato 2 gennaio 2010

capodanno

È la notte dell’uno e siamo ospiti di Lele, un amico e quello che una volta si sarebbe definito un avventuriero. Lele vive tutto solo in campagna, o meglio in compagnia di una lunga teoria di bottiglie di grappa che tiene in fila sul camino e di un vecchio cane di battaglia che ormai beve solo latte accompagnandolo nelle sue brave bevute. E fuori, a scorazzare liberi fra gli alberi, tutta una serie di animali più o meno esotici che si è portato qui dai suoi viaggi, a coppie, quasi fosse una sorta di moderno Noè senz’arca, per salvarci. Cosa vuoi salvare tu?, mi chiede sempre un po’ torvo. E così io, per sfotterlo, lo chiamo Capitano.
Siamo ebbri di vino e couscous, Martin e io. Lele è andato a dormire. Siamo fuori, sono circa le tre, e abbiamo appena fatto pipì sotto la luna più luminosa che ricordi di avere mai visto da molti anni a questa parte. Il cielo di un azzurro stregato. Ce ne andiamo a zonzo per la sua campagna, fra l’erba alta e umida che ci bagna le scarpe, quando a un tratto sentiamo qualcosa che si muove sopra di noi. E alzando lo sguardo ci ritroviamo a fissare due capre tibetane che se ne vanno a zonzo sui trulli, arrampicandosi fra i coni. Non ho con me la macchina fotografica. Ma è un attimo di stupore e magia così forte che forse non saprei riprenderlo. Come si può fotografare lo stupore?
Rimaniamo fermi per un po’ a guardarci con le capre, provando a intavolare un dialogo fatto di sguardi, ammiccamenti, pensando che siano lì ad annunciarci l'arrivo di qualcosa di buono. Poi, nel più completo silenzio, ci voltiamo e attraverso un viottolo di terra battuta arriviamo al cancello, chiudiamo il catenaccio e lasciamo la chiave sopra la colonnina alla nostra sinistra, seguendo le istruzioni che ci ha dato Lele. Non fa nemmeno freddo, dice Martin.