martedì 23 novembre 2010

a proposito della morte della poesia

Ieri sera, prendevo un caffè con un’amica, si parlava di editoria e mercato e all’improvviso, dopo averci pensato un attimo, mi ha chiesto perché mi ostino a scrivere ancora di poesia, che tanto non la legge più nessuno. Sulle prime ci sono rimasto male e ho provato a rispondere meglio che potevo. Ma in effetti non è colpa sua, quella che ha espresso è un’opinione comune.
Ed è strano, ci riflettevo stamattina, come ormai si legga dovunque che la vera poesia (quale che sia la vera poesia) abbia ormai un piede nella fossa. Eppure, allo stesso tempo, in molti si lamentano scocciati, e con un atteggiamento che sinceramente trovo non poco snob, che c’è più gente che scrive poesie (spesso brutte), di quante ne legga. Oddio, per certi versi è vero: chi scrive brutte poesie toglie spazio necessario agli altri. E il mercato della poesia, che sforna centinaia di libri al giorno, arricchendosi dei sogni di tanti poveri malcapitati, ha lo stesso e di continuo i conti in rosso, perché strozza il mercato e non mette in evidenza nessuno. Insomma, come ho letto la settimana scorsa (credo) sullo speciale domenicale del Sole24Ore, la prima colpevole se la poesia non funziona oggi, è proprio la poesia. Che ci prova ma non riesce a rinnovarsi e ad adattarsi ai tempi che vive.
Questo però non significa che la poesia sia finita. Tutt’altro mi pare. Io vedo tutta questa gente che riempie i suoi diari segreti o i muri alla stazione o i tovagliolini dei bar, se preferite quel tipo di romanticherie, e sono felice, davvero. Anche se poi quel che scrive sono cazzate, e se quelle cazzate non intaccheranno minimamente, per loro stessa natura, il mercato editoriale.
Il fatto che la gente, molta gente, tantissima, senta il bisogno di mettersi e scrivere in versi i propri sentimenti o stati d’animo, io la vedo una cosa bellissima, e molto molto consolante. Significa che al di là di tutte le lamentele che giornalmente vengono a propinarci, e del fatto che si rimproveri oggi, a tutti, di essere vuoti e spenti e privi di ambizioni e sentimento, c’è ancora chi ci crede nella poesia, chi la sente sua e la vive come un’esigenza primaria, per cui fermarsi ad appuntare dei versi diventa una cosa necessaria, fondamentale, proprio come mangiare e dormire. Magari sarà anche poesia ingenua nella forma ma nello spirito c’è tutta, e cos’altro conta alla fine?
In fondo, se ci pensate bene, abbiamo cominciato tutti così. Con un foglio di carta e una penna e la volontà di parlare col cuore in mano. Soli e nudi e con l’impulso irrefrenabile a dire, a raccontarsi. Certo, chi poi ha continuato seriamente ha letto, si è formato, ha studiato le regole del verso, ma quello va già oltre l’indispensabile. Non tutti saranno il nuovo Montale, o il nuovo Sereni, perché per quello occorre qualcosa di più, che va oltre la semplice passione ma, così come succede per altre forme d’arte (l’ascolto della musica classica ad esempio), è più facile che ad appassionarsi alla poesia sia qualcuno che la frequenta con amore giorno per giorno, portandosela appresso e coccolandola, che non chi la sente estranea e del tutto ininfluente alle incombenze quotidiane.
Casomai, poi, andrebbero coltivati i poeti, cercando di creare degli incontri, continui, fra chi scrive e chi ha scritto, ricordando che i poeti di qualsiasi epoca o nazione o lingua sono tutti fratelli, e devono solo ritrovarsi per pochi minuti per scoprirlo. Ma quella è già un’altra storia. Una storia che non si accorda per nulla coi tempi che viviamo.

lunedì 15 novembre 2010

la storia che mi ha raccontato un amico

Hai presente Amburgo, il paradiso delle troie? Ero lì, sarà stato un anno fa, ero con questa tipa che avevo conosciuto la settimana prima a Copenaghen, una specie di colpo di fulmine o qualcosa del genere, e insomma avevamo passato la giornata fuori per negozi, e con la scusa di farmi vedere la città ci portavamo a spasso la figlia. La tipa voleva che si facesse amicizia perché l’intenzione era di fermarmi lì un po’ e quindi era meglio andare subito d’amore & d’accordo.
Insomma eravamo lì che tubavamo alla grande e sembravamo quasi una famiglia, e anche con la piccola eravamo grandi amici, e cammina cammina senza manco accorgerci, ci siamo ritrovati vicino alla Reeperbahn. Il bello è che non ci pensavamo proprio, ti rendi conto?
Beh, ce ne siamo accorti quando, girando l’angolo, ci siamo ritrovati davanti a sto troione altissimo, quasi senza vestiti, ehi, bella da togliere il fiato, con ‘sti due occhi freddi, capaci di raggelarti con uno sguardo.
E insomma, si camminava e abbiamo sbattuto contro di lei. E la piccola se l’è squadrata tutta dalla testa ai piedi e ha cominciato a fissarle la patata, ti rendi conto? Considera che era già ottobre e faceva un freddo cane, e noi ce ne stavamo lì tutti chiusi per il freddo e questa qui se ne stava lì come nulla, mezza nuda davanti a noi, con la patata di fuori e ci guardava con questi due occhi da far paura, sembrava una sorta di vichinga o qualcosa del genere, hai presente?
Beh, la bambina sai che fa? Da non crederci, la bambina la guarda lì, le fissa la patata e le dice, con tutta l’innocenza che può avere una bambina, le dice: “Ma come mai stai tutta scoperta, che fa freddo?” E a me viene da ridere e guardo sua madre che invece si è fatta tutta bianca, sembra di gesso, pensando a tutte le spiegazioni che dovrà dare poi alla figlia, sai il fiore & la cicogna e tutte quelle stronzate, e sai cosa fa il troione? Non ci crederai mai, il troione si piega tutto sulla bambina, la guarda con quei suoi occhi di ghiaccio e le dice con ‘sto vocione, le dice: “È perché ho nostalgia della primavera”. E ce la siamo filata. Bella storia, vero?


venerdì 5 novembre 2010

l'ospite

Resto l’unico tuo ospite, mi accorgo
a passeggiare per le camere deserte
della casa. Dall’altra parte della strada
osservo i ragazzi dare le spalle al mare
disperarsi in faccia agli alberghi deserti
del fuori stagione, disperarsi per il vento
che non fa prigionieri, sognare le tonnare
violente, le battaglie di sangue e remi
guardate di sera in tv per riempire i silenzi
sognare il suicida dall’altra parte del muro
ogni notte quel tonfo di scarpa che batte
lì dov’è cominciata e ti dicevi
non scrivo più diari. Una foto ti mostrava
inquieta e sorridente sotto il panama bianco
e tu correvi ogni sera in pizzeria
dal signor Enzo per offrirgli
quel sorriso, insieme con l’ultimo sorso di vino.


(poesia ispirata all’opera di Licia Vignotto)

mercoledì 3 novembre 2010

di sabbia e silenzio


“Probabilmente tutto è nato nella redazione del Corriere della Sera. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se fosse andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire.”
Dino Buzzati, parlando del Deserto dei Tartari