domenica 17 giugno 2012

note fra i versi di "odi et amo" di catullo


Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.


Odio e amo. Perché mi accade, forse te lo chiedi.
Non so, ma accade lo sento, e mi lacera.


Odi et amo. Non sono un latinista ma ho sempre pensato che molti traduttori affrontino questa poesia da un punto di vista sbagliato: volendo usare una metafora, la guardano dall’alto anziché dal basso e così la apprezzano, ne capiscono i meccanismi ma non la sentono mai per davvero.
Questo perché la poesia esprime lo stato emotivo di un animo ancora immaturo o regredito all’immaturità per forza di un sentimento enorme, devastante, impossibile da affrontare con le comuni armi della logica, dell’esperienza, che se ammessa, accettata, determinerebbe l’evolversi della storia in storia passata, finita, l’elaborazione del suo lutto.
Gli studenti, che come Catullo sono portati alla vita, alla pienezza per quanto contrastata della giovinezza, la sentono istintivamente loro ma spesso non sono i grado di smontarla in pezzi, comprenderne i meccanismi interni e apprezzarne fino in fondo la bellezza. Spesso, con l’avanzare dell’età, con la crescita, questi celebri versi vengono regrediti allo stato di boutade nei ricordi liceali al pari del famigerato “m’illumino d’immenso” di Ungaretti.
Molti credono, o vengono portati a credere, che la chiave della poesia, ciò che la rende così forte, assoluta, stia tutta nella schiettezza del sentimento (o risentimento) espresso, nella pulizia formale che la contraddistingue, nella purezza del distico che dice quel che c’è da dire senza fronzoli. In buona parte è vero. Eppure la sua forza, la forza di ogni poesia, non sta tanto nelle parole scritte, quanto nelle parole non scritte, in ciò che non viene detto a voce alta, sono quelle parole che evocano i mondi emotivi in cui spesso ci piace perderci o addirittura identificarci. Sono quelle che accendono, qui, la fiamma della disperazione, l’urgenza di fissarla sulla carta.
In questo caso, a dispetto della potenza espressiva scaturita da un incipit epocale, il senso vero, rivelatore, della poesia nasce da una proposizione secondaria che spesso non viene messa abbastanza a fuoco: fortasse requiris, “forse te lo chiedi”, eccola la chiave dello scrigno. Fortasse requiris, cioè: sono sicuro che non lo stai facendo però spero ugualmente, con tutto me stesso, che tu adesso te lo stia chiedendo, che tu mi stia pensando.
Il dubbio resta insolubile, e da tale dubbio nasce la lacerazione che porta il poeta a odiare e amare allo stesso tempo, amare per una necessità insanabile dell’anima, odiare per l’incapacità di accettare la realtà, che lo porta piuttosto a negare, a vivere nel limbo doloroso e rassegnato di quel nescio, non so, non voglio sapere, della naturalità selvaggia (egoistica, immatura) di un sentimento che “accade” ma non vuole razionalizzarsi perché razionalizzarlo significherebbe ucciderlo, e con esso uccidere la speranza, per quanto già in cancrena.

sabato 16 giugno 2012

santo

l'orgoglio di mio nonno...

L’orgoglio di mio nonno
è il suo lavoro, la sua giovinezza
selvatica nei campi.
Noi non eravamo mai stanchi
mi ripete, noi: lui
e la sua generazione di braccianti.

il tristo mietitore

coccodrillo per giuseppe bertolucci

16 giugno 2012. Muore oggi Giuseppe Bertolucci, figlio del grandissimo poeta Attilio B. (che proprio come lui conoscono in troppo pochi) e fratello dell'assai più famoso e magniloquente Bernardo. Il suo era un cinema minimale, semplice, fatto tutto di atmosfere sospese, spesso lunari, di dialoghi pieni di sfumature e di poesia. Molti probabilmente lo ricorderanno per il suo primo film, lo stralunato appassionato e sincero "Berlinguer ti voglio bene" con Roberto Benigni. Ci piace piuttosto ricordarlo per film successivi, delicati e intimisti come "Amori in corso", "Il dolce rumore della vita" o "L'amore probabilmente" che forse non hanno saputo parlare a tutti allo stesso modo, ma sempre sono riusciti a toccare il cuore di chi li ha visti con la loro grazia e il loro malinconico romanticismo.

giovedì 14 giugno 2012

natura morta con finestra

tre note intorno a sanguineti, a due anni dalla sua morte

Nota 1



Mikrokosmos, di Béla Bartók, è l’opera da cui Sanguineti ha tratto il titolo per la propria autoantologia (edita da Feltrinelli nel 2004). Sono 153 pezzi per solo piano raccolti in sei volumi, una cosa mastodontica secondo me, comunque quelli pubblicati qui sopra sono gli ultimi pezzi dull'ultimo volume, e fanno un capitolo a sé, intitolato Six Dances in Bulgarian Rhythm da intendersi, credo, come un omaggio alle proprie radici.

Nota 2

“Quando Sanguineti stava iniziando a costituire quello che poi sarebbe divenuto Laborintus mandò alcuni suoi testi a Cesare Pavese, il quale gli rispose che erano più adatti alla “Settimana Enigmistica”, perché più che poesie sembravano cruciverba. Sanguineti non si arrese e verso la fine degli anni '50 fece leggere alcune sue poesie ad Andrea Zanzotto, che gli disse che erano delle trascrizioni in parole di un mal di testa, o comunque di un grave esaurimento nervoso. La risposta altrettanto celebre di Sanguineti a Zanzotto fu che si trattava sì di un mal di testa o di un esaurimento nervoso, ma non suo, bensì sociale, diffuso a tutta la realtà. […] La polemica più famosa fu quella violentissima fra Pier Paolo Pasolini ed Edoardo Sanguineti. Pasolini fu accusato di essere conservatore, di essere utopico, di essere completamente chiuso a quello che stava succedendo nel mondo. Mentre Sanguineti e l'intero Gruppo '63 furono definiti da Pasolini dei figli di papà che si divertivano a fare gli avanguardisti totalmente asserviti al sistema.” (Aldo Nove, tratto da qui )

Nota 3

“La poesia non è una cosa morta, ma vive una vita clandestina.” (Edoardo Sanguineti)

autoritratto (cum cetera)

mercoledì 13 giugno 2012

fenomenologia di cassano

Se ci fate attenzione più o meno ogni due anni Cassano se ne esce con qualche cazzata delle sue, di quelle che fa indignare e saltare sulla sedia mezzo mondo, il mezzo mondo bene appassionato di sport, ma con eleganza. A me personalmente viene sempre da ridere e non tanto per ciò che dice, l’equivalente (portato in tv) delle solite stronzate da bar, ma per le reazioni che suscita e che sono frutto, evidentemente, dell’ipocrisia sociale che ci caratterizza e che non riesce ad ammettere che un campione sportivo strapagato, un esempio per i giovani, un uomo venuto dai quartieri poveri che ha realizzato il tipico sogno americano sia anche, no non un uomo di poche letture (come gli rimprovera Vendola), ma un vero e proprio minchione da bar come ce ne sono tanti, uno come te e me per dirla tutta, uno che il sogno americano l’ha realizzato ma solo a metà, quella dei soldi, senza però che questo sogno l’abbia anche cambiato, migliorato come uomo.
La gente rifiuta di ammettere la semplice verità e la semplice verità è che Cassano era e rimane un ragazzo cresciuto nella periferia, brutta sporca e cattiva, di Bari vecchia, un animale da combattimento continuamente nell’arena, uno che se ne frega altamente di essere politically correct (perché può permetterselo) e a cui si rimprovera una mancanza di eleganza che non solo non ha mai avuto ma nemmeno vuole. Perché pretendiamo da lui che sia migliore di ciò che è? Forse perché ci assomiglia troppo e non offre alcuna speranza di redenzione all’immagine fallimentare che abbiamo di noi e del nostro quotidiano? Perché dovrebbe imparare le buone maniere? Per andare a fare le comparsate in tv e far vedere come c’è speranza, invece, per tutti? Ma lui i soldi se li è fatti e continua a farli per essere un animale arrabbiato nell’arena, mica un presentatore “acchittato” del piccolo schermo. Chi vorrebbe davvero assomigliargli, alla fine?
Alla fine dei conti ciò che dice può non piacere, così come può non piacere la cretinata sentita al bar dai vecchietti del tavolino vicino, eppure Cassano resta, incredibilmente, il più onesto di tutti per il semplice motivo che se ne fotte delle convenzioni, di essere altri che se stesso e di dire, pane al pane, tutte le incredibili minchiate o battutacce volgari che gli vengono in mente, come farebbe un qualsiasi stronzo da bar, uno come te e me. Al massimo poi chiederà scusa per quietare gli animi. Ma tanto cosa gli possono fare? Sospenderlo dalle dirette televisive? O dalle partite da cui lui e tanti altri dietro di lui guadagnano quelle cifre straordinarie che tanto gli invidiamo?
No, la cosa sconcertante è che ci sia ancora gente che spalanca la bocca, indignata, di fronte alle sue dichiarazioni invece di fare la cosa più semplice, quella che normalmente si fa nei bar, e cioè prendere e andarsene, cambiare canale. Qualcuno adesso dirà che la tv non è il bar, ha un altro peso, un’altra risonanza e io invece rispondo che la tv in questo preciso momento storico è proprio come con un vecchio bar di Bari vecchia, allo stesso livello, non ha un grammo di qualità o di eleganza in più, anzi, le manca persino quell’umanità che fa del bar di Bari vecchia un’esperienza interessante o quantomeno curiosa, comunque meritevole.
La gente si indigna e il problema di fondo è tutto loro, che magari segretamente sognano per i propri figli un futuro di successo “facile” simile a quello di Cassano, e non si capacitano che un simile “rozzo” non corrisponda alla propria idea di eroe nell’arena: bello giusto e immacolato. Possibile che mio figlio possa diventare un tale stronzo? Sì, è possibile, anzi, forse ci è già arrivato da solo mentre tu stai ancora pensando a quello che ha detto ieri Cassano.
La realtà spesso è molto elementare e Cassano è una cura necessaria, per la nostra immaginazione imbevuta di sogni televisivi e telecronache sportive, di realtà pura al 100%.

dead end

domenica 10 giugno 2012

battuta sopravvissuta a un sogno

“Quindi, fammi capire, secondo te l'arte è una forma più elegante di masturbazione?”
“Veramente ci sto ancora lavorando, sono in dubbio fra quello e l'eiaculazione precoce...”

(Nel sogno ero con Woody Allen in un bar e si parlava di arte e di uova).

sabato 9 giugno 2012

layla, e la continua ricerca del tempo fuori dal tempo



Per Francesca, che su pezzi come questo si emoziona sempre

Il pezzo che pubblico è così famoso che molti di voi lo conoscono di certo, Layla di Eric Clapton, pubblicato per la prima volta nel 1970 su “Layla and Other Assorted Love Songs”, disco uscito a nome Derek and the Dominos e unico lavoro di studio di quel supergruppo formato tra gli altri dal grandissimo Duane Allman, che di quella canzone creò il riff. Qui è in una versione molto bella, arrangiata in chiave acustica insieme a Marcus Miller (famoso, per chi non lo conoscesse, come il più stretto collaboratore di Miles Davis negli ultimi anni), e presentata dai due al festival jazz di Montreux, nel 1997, durante il tour europeo di un gruppo formato per l’occasione da Miller, e comprendente Joe Sample al piano, David Sanborn al sax, Steve Gadd alle percussioni più Miller al basso e al clarinetto basso ed Eric Clapton alla chitarra e alla voce. Il gruppo era denominato Legends.
Più che di un singolo pezzo in realtà si dovrebbe parlare di un medley, visto che la performance si apre con una versione minimale e notturna di In a Sentimental Mood, standard scritto da Duke Ellington nel 1935 e suonato dalla formazione senza Clapton: è un tema romantico, in cui l’assolo al clarinetto basso di Miller la fa da padrone, e serve appunto a introdurre il pezzo di Clapton.
È lo stesso Miller a introdurre le prime note di Layla e quindi l’ingresso sul palco del chitarrista. La sua versione acustica, lenta ma meno blueseggiante di quella proposta cinque anni prima ad Unplugged, è pura bellezza e sembra fatta apposta per cambiare finalmente prospettiva sulla storia di quel pezzo, ampliandone così i significati.
Non so se conoscete il retroscena della canzone. Clapton la scrisse per Pattie Boyd, moglie di George Harrison che all'epoca era il suo migliore amico. Clapton era combattuto fra l’amicizia per George e la passione bruciante per Pattie, e scrisse questo pezzo (oltre all’intero album dei Derek and the Dominos, a tema unico) che si ispirava alle vicissitudini del poeta beduino Quays ibn al-Mulawwah, innamorato senza speranza di sua cugina Layla bint Mahdi ibn Sa’d. Quays, dice la leggenda letteraria, impazzì e vagò da solo, per il resto della sua breve vita, nel deserto, componendo e recitando versi d’amore per la sua amata, andata in sposa a un altro.
Clapton ovviamente rievoca quella leggenda, nell’originale versione rock dei suoi venticinque anni, come espressione del proprio furore amoroso. Ma secondo me il topos originale, quello del poema a cui si ispira la canzone, più che con la vicenda amorosa di due sfortunati amanti contro l’ipocrisia e la grettezza del mondo (un po’ alla Romeo e Giulietta), ha a che fare con la continua insoddisfazione e la ricerca di un irraggiungibile ideale di felicità, tipici della giovinezza.
In questa luce, la versione lenta di Clapton cinquantaduenne, essendo la visione di un uomo ormai maturo e volto al passato piuttosto che al futuro, si adatta ancora meglio a quest’ultima mia impressione. La furia d’amore è ormai estinta e resta soltanto la celebrazione di quella giovinezza, l’estatica contemplazione di un attimo di assoluto equilibrio fra follia e perfezione creativa, per un attimo raggiunto e poi continuamente inseguito sul palco e per la vita, a ogni nuovo concerto.

giovedì 7 giugno 2012

metafore sulla giustizia

Sarebbe davvero ironico, crudelmente ironico se, dopo tante marce spontanee contro le mafie, in nome di una giustizia che difenda il “nostro futuro” (i ragazzi) dal male, si venisse ora a confermare il primo movente di Giovanni Vantaggiato, il bombarolo dell’istituto Morvillo-Falcone, e cioè di una sua vendetta personale contro il palazzo di Giustizia lì vicino. Come a ribadire, metaforicamente, che a uccidere il “nostro futuro”, più ancora delle mafie, è il nostro stesso senso della giustizia, privata o istituzionale che sia, che fa persino dei nostri figli delle vittime sacrificali nello scontro giornaliero fra cittadino e sistema, fino al punto di arrivare, ai suoi estremi, all’aberrante parodia cinematografica vista a Brindisi.