sabato 25 gennaio 2014

una favola sui gatti e sull'amore

Il secondo giorno di novembre, festa d’ognissanti, Giuseppe afferrò i due mici dal pelo grigio e lucido che da alcune settimane avevano scelto il suo giardino secco come casa, li infilò in un sacco e li portò via di lì, strappandoli a quel luogo.
Erano mesi che provava a cacciarli. Sono povero, diceva, sono quasi senza lavoro. Non posso mantenervi, diceva, non siete figli miei e poi mi costate troppo!
Loro lo fissavano da lontano, nascosti dietro i vasi dei gerani secchi, che come spugne di pietra fossile, bucherellati e leggeri, stavano sospesi in fondo al giardino. Rispondevano con gli occhietti insolenti: una casa non è dove ti mettono a stare, ma dove scegli di rimanere.
Lui era anche d’accordo, si impietosiva, passava loro un piattino con una parte del suo pranzo. Loro si avvicinavano circospetti e divoravano voracemente ogni cosa, perché quando si è piccoli la fame è tanta. Ma a volte il piatto era così misero che sbuffavano tutti e tre dispiaciuti.
I due mici mangiavano con gusto, e avevano gli occhi puntati dovunque, perché non si fidavano di nessuno e quando provavi ad avvicinarti sfrecciavano via dietro i vasi.
Però si stavano affezionando gli uni all’altro. I due nei loro giochi si avvicinavano sempre più alla casa, e talvolta Giuseppe se li ritrovava dietro la finestra, che lo fissavano incuriositi o allungavano una zampina in alto, lungo il vetro. Altre volte, quando lo pagavano qualcosa di più, per festeggiare comprava loro un pugno di croccantini, di cui si leccavano da terra perfino le briciole.
Poi si pentiva della spesa. Non va bene, diceva Giuseppe per convincersi, non va niente bene.
Andò avanti così fin dal primo giorno per quasi tre mesi. Fino a quando cioè – il giorno della festa dei morti – si erano lasciati accarezzare a lungo e con piacere sulla schiena, mentre leccavano il fondo del piatto. Gli avevano accordato la loro totale fiducia.
Giuseppe dormì male quella notte. I pensieri si arrovellavano dentro di lui. Già da un pezzo aveva maturato un suo piano di salvezza economica e, ora che le circostanze glielo permettevano, cominciava a mancargli la volontà, gli tremavano le gambe all’idea. Comportati da uomo! si diceva, chiuso nel suo letto, e poi si insultava a lungo per convincersi a prendere sonno.
Così il giorno dopo, due novembre festa d’ognissanti, con l’aria di chi non ha dormito affatto, Giuseppe, ormai intestarditosi nei suoi propositi, portò fuori un piatto delizioso, cucinato appositamente per loro e che lui invece non toccò, preferendo digiunare per quel giorno, che si godessero il loro ultimo pasto insieme.
Lo posò per terra e si mise alle loro spalle, approfittando della fiducia riposta in lui, per guardarli mangiare un’ultima volta e con la bocca girata in basso per la disapprovazione di sé. Poi, poco prima che finissero, si piegò su di loro e con due gesti rapidi, di cui quasi non si accorsero, li afferrò e li infilò nel grande sacco bianco e ruvido che teneva nascosto dietro la schiena, in cui si agitarono spaventati per un pezzo, ma senza quasi fiatare.
Quando furono sfiniti e il sacco si afflosciò fra le sue mani, lo infilò in auto e li portò molto lontano, che non riuscissero più a ritrovare la via di casa. Prese anche con sé, stretti in un tovagliolo di carta, dei croccantini di quelli che piacevano tanto a loro. Per tutto il tempo fece finta di non sentire il loro pianto sommesso dal cofano dell’auto, un pianto che gli straziava il cuore.
Li portò lontano, in campagna, da una sua amica che se ne stava sempre sola. Aveva una gran massa di capelli arruffati e l’aria stralunata delle streghe nei vecchi libri di favole, ma era una persona di buon cuore che amava gli animali.
Staranno bene qui, gli disse lei, c’è molto spazio per giocare, li farò mangiare tutti i giorni. Lui provò ad allungarle il fazzolettino dei biscotti, ma lei li rifiutò. Non le leggi mai le favole?, gli disse, non si danno i biscotti ai piccoli abbandonati, hanno il magico potere di riportarli a casa. Darò loro i miei biscotti invece, così si abitueranno al mio odore.
Poi Giuseppe tornò a casa da solo. E per tutto il resto del giorno li cercò dietro i vasi di gerani, e ogni volta che non ce li trovava, cercava di soffocare il rimorso che gli covava in pancia, o quella che si ostinava a chiamare fame, piluccando i loro croccantini.

5 commenti:

amanda ha detto...

mi hai fatta piangere gatto :(

marian. ha detto...

Nooo, poveri! Loro volevano stare con Giuseppe... :'(

marian. ha detto...

Nooo, poveri! Loro volevano stare con Giuseppe... :'(

Francesco Fassbinder ha detto...

...è fame comunque!

Anonimo ha detto...

è una favola triste... che favola è??