lunedì 11 gennaio 2016

nel silenzio

Posso dire, con una nota autobiografica che non c’entra nulla con quanto segue, che sapere che David Bowie è morto mentre sei in fila dal fisioterapista e hai di fronte una ragazza russa che ti insegna a dire acqua nella sua lingua (вода) ha un che di surreale. Soprattutto se pensi che appena due giorni fa è uscito il suo ultimo disco, Blackstar, a detta di molti un capolavoro, e che adesso prende il sapore del testamento. Si vede che, sapendo di morire, ci ha messo qualcosa in più, un alito di vita in più. Ancora incredulo sono andato a controllare. A parte le notizie sulle varie testate, c’era già, come una lapide sulla sua storia, o un punto, la data di morte su Wikipedia. Io, stupido, mi sono chiesto chi sarà stato, chi è che mette le date di morte su Wikipedia? Chi è stato a chiudere il file? Tempo fa ho letto in un testo critico che il periodo artistico più rilevante di Bowie coincide con l’internamento in manicomio di suo fratello Terry, per cui Bowie scrisse la sua canzone che preferisco, The Bewlay Brothers. Quando Terry peggiorò e poi morì, a metà anni ’80, Bowie perse molti stimoli e la voglia di fare arte, e nascose se stesso dietro un muro di musica commerciale, spesso squallido ma non abbastanza da scalfire la sua aura di artista, com’è successo ad altri reduci del rock degli anni ’60 e ‘70. Un bel ritratto di lui e di come veniva percepito all’apice del suo talento e poi subito dopo la caduta, lo ha dato Todd Haynes in Velvet Goldmine, film che racconta (anche) la magia di un periodo e di un genere, il glam rock, senza metterci dentro un solo brano di Bowie, che negò il suo permesso a usarli. Eppure, anche se non si sente mai la sua voce, il film lo racconta ancora meglio di quanto fece L’uomo che cadde sulla terra, di Nicolas Roeg, a cui partecipò con vero sentimento lo stesso Bowie in qualità di protagonista. Credo anzi che sia stato proprio questo il segreto di molta sua arte, appreso dalle lezioni del primo Bob Dylan e di Lindsay Kemp, ovvero la capacità di alimentare il proprio mistero, l’arte della sottrazione per cui quello che conta, il messaggio, spesso perturbante, non è in ciò che dici, ma all’opposto in ciò che taci, in ciò che sta nascosto nel silenzio.

2 commenti:

Marco Bertoli ha detto...

Una nota a latere: io ho visto solo di recente il film di Roeg, che fu all'epoca (1976) un film di grande successo, e, oltre a piacermi, mi ha stupito molto per il linguaggio avanzato: impensabile, oggi, in un film di quell'impegno produttivo e così larga distribuzione. Oggi si ritiene che il grande pubblico voglia solo "le storie", meglio se raccontate nel modo più semplice e lineare possibile; per questo tanti spettatori sono terrorizzati oggi dallo «spoiler»: se gli togli la trama, non hanno più niente a cui attaccarsi; un film non lo sanno leggere al di là dei meri fatti che espone.

Non posso dire che conoscessi David Bowie, ne ricordo due o tre canzoni che mi piacciono molto; ho sempre avuto l'impresione che fosse un vero artista.

Tita ha detto...

Ciao David.