martedì 15 maggio 2018

sull’utilità o meno di cantare azzurro

Nelle ultime settimane mi è capitato per vari motivi di assistere più volte a delle presentazioni di Franco Arminio in cui, nel momento culminante dell’incontro, canta col pubblico. La performance in genere comincia con Azzurro di Paolo Conte (per sciogliersi) e continua con un canto del luogo secondo un canovaccio bene codificato. Lo stesso Arminio, nell’ultimo incontro in cui ho assistito parlava di “ritualità” richiamando certi schemi della liturgia rivisti in chiave laica. Quello che fa non solo è bello e coinvolgente, ma riesce a spezzare il rigido muro della convenzionalità in cui il pubblico assiste intimidito al dialogo fra autore e relatore per un rapporto diretto, molto fisico, con lo stesso pubblico, che apprezza. Si adatta, inoltre, molto bene alla sua personalità e al suo bisogno di istrionismo, e quindi in sé, in ciò che fa, non c’è nulla di male, anzi. Per quanto, come lui stesso ammette, i “saccenti della poesia” storcano il naso, richiamando le stesso polemiche che animarono la vittoria del Nobel da parte di Bob Dylan. Con una differenza, Dylan era ed è sempre stato un cantante con maggiore o minore forza poetica in base ai gusti. Arminio è un poeta che si presta alla canzone. Il dubbio, devo dire lecito, non è tanto in ciò che fa Arminio, ma in cosa recepisce il pubblico che già di per sé è ineducato al linguaggio poetico e forse in questo caso viene del tutto fuorviato. Molti di coloro che assistono alle performance di Arminio non sono lettori abituali di poesia, sono lettori di Arminio che comprano il suo libro perché è scritto da Arminio, non perché è di poesia. Lì dove invece uno compra Montale o Caproni (ad esempio) perché vuole la poesia di Montale, la poesia di Caproni ecc. Anzi, in questo modo non si avvicineranno alla poesia ma la troveranno sempre più noiosa di quello che è, perché Arminio ha mostrato loro cosa può essere una serata di poesia in cui si canta Azzurro. Quello che si teme è che Azzurro alla fine dei conti diventi il fine e non il mezzo, che il pubblico vada lì perché si canta tutti insieme e non per discutere di letteratura e idee. Il che è bello nell’ottica dell’evento, meno in quella della letteratura. Arminio dice che la cosa è fatta per ritrovare una convivialità di popolo in linea con la sua poetica e anche per alleggerire la serata, per coinvolgere chi la poesia non la legge. Ma è davvero giusto? E se uno la poesia la legge e volesse approfondire determinate tematiche, come fa a sottrarsi al rituale di gruppo? E poi, cosa resta nel lettore a parte Azzurro? Me lo chiedo senza avere una risposta. Non sono che dubbi i miei, nati al Salone. Durante il quale, quest’anno, era presente una scrittrice enorme come Herta Müller. Mi sono chiesto, di fronte al silenzio quasi religioso (a sua volta rituale) con cui veniva ascoltata: ma se Herta Müller venendo qui, invece di parlare della sua opera e di cosa la ispirava, avesse detto al popolo dei suoi lettori: ok, adesso cantiamo Azzurro per ritrovare un po’ di intimità, poi facciamo un canto in torinese, poi ne facciamo uno tradizionale del mio paese, poi vi leggo una o due pagine da un mio libro e ce ne andiamo tutti a casa, ecco, mi sono chiesto, ma il popolo dei lettori della Müller (un popolo preparato sui suoi libri) sarebbe stato altrettanto contento del popolo della poesia di Arminio? E se il popolo della poesia che va da Arminio per cantare si fosse trovato di fronte a una presentazione di Andrea Zanzotto, che usava un linguaggio complesso, stratificato, ammantandolo di ironia, ma senza mai banalizzarlo, richiedendo invece una continua attenzione, mentre affrontava tematiche importanti come quella ecologica, che avrebbe pensato: che bello oppure che palle? Questo mi sono chiesto, senza puntare il dito contro Arminio che fa semplicemente il suo lavoro, ma interrogandomi sugli scopi e i desideri del pubblico. Non è che a volte è proprio il popolo della poesia che aggira l’ostacolo del linguaggio, intanto che va a una serata di “poesia”, e si rifugia nel canto puro e semplice per evitare di parlare e di pensare, di esigere le cose ben più serie che ogni buon verso racchiude?

1 commento:

amanda ha detto...

Forse i lettori di Caproni o della Müller richiedono semplicemente liturgie diverse, forse ci sono lettori che leggono le Scritture come un protestante legge Bibbia e Vangelo, senza richiedere intermediari, forse ad una fiera del libro ci va comunque un lettore, e quello ha una sua specifica richiesta. Non richiede una alfabetizzazione, è uno che ha un suo approccio alla lettura, al libro, al genere e all'autore. Una fiera ne ha per tutti i gusti, si spera