sabato 21 luglio 2018

quest’isola chiamata terra


Quarant’anni fa, a settembre (quindi manca poco all’anniversario) veniva pubblicato The Bride Stripped Bare, disco bellissimo e sottovalutato sulla fine di un amore e sui sentimenti contrastanti che ne conseguono: solitudine, odio, debolezza, insoddisfazione. Amo molto quel tipo di opere e amo molto Bryan Ferry, per cui, visto che mi pare mancasse in italiano una recensione di questo disco che ha la mia stessa età, ho pensato di scriverla io stesso. È lunga e non credo che la leggeranno in molti, ma la dedico a tutti i miei amici che in questo momento vivono sentimenti simili a quelli provati allora da lui. L’arte non guarisce le ferite, però ci fa sentire sempre meno soli.


Settembre 1978. Bryan Ferry pubblica a suo nome un disco assai particolare, The Bride Stripped Bare, la sposa messa nudo, intitolato così in omaggio all’opera più famosa di Marcel Duchamp, Il grande vetro ovvero La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche. È un lavoro che per certi versi si discosta dalla sua produzione e come sempre in questi casi, alcuni lo trattano come un oggetto di culto, altri come un capolavoro mancato, qualcosa che ha cercato di arrivare in un certo luogo senza tuttavia riuscirci del tutto. Eppure, molto del suo fascino risiede proprio nella sua indefinitezza, in ciò che non dice, per incapacità o scelta premeditata del suo autore. 

 
La prima ispirazione dell’album scaturisce, circa un anno prima, dalla rottura sentimentale con la sua fidanzata di allora, Jerry Hall, modella che aveva posato per la copertina di Siren, ultimo album pubblicato dai Roxy Music, nel 1975. La Hall lo lascia per Mick Jagger dei Rolling Stones. «Stavo per sposarmi [con Bryan], ma Mick era così affascinante e io ero pazza di lui. Ero così volubile. Tornai da Bryan, ma quando si ha una storia con una persona a cui si tiene così tanto, non è più la stessa cosa. Finì piuttosto male. Mi piacevano molto entrambi. Dicono che sia impossibile amare due persone allo stesso tempo, ma io lho fatto» racconterà la Hall anni dopo in una intervista concessa al Washington Post (gennaio 2016).
La stampa scandalistica va a nozze con questa storia e attribuisce a quella separazione il senso ultimo del disco, complice quel titolo così evocativo. Eppure non basta, ci sono altri motivi dietro l’album. Ferry, che all’epoca ha trentadue anni, è insoddisfatto, irrequieto, sta cercando nuove strade espressive in un clima musicale in cui il glam rock che aveva contribuito a plasmare, codificandolo sui proprio gusti estetici, sta velocemente invecchiando. I Roxy Music, di cui è leader indiscusso, si sono appena sciolti, o meglio si sono presi una lunga pausa di riflessione per dar modo ai suoi componenti di portare avanti i propri progetti solisti, liberi dalla sua ingombrante presenza. E lui, che aveva sempre affiancato alle loro uscite dei dischi in proprio in cui cantava, riarrangiandole fino a farle proprie, cover di altri artisti che amava, in particolare di Bob Dylan, dopo lo scioglimento ha provato a dare alle stampe un disco di canzoni originali, In Your Mind, di cui non è soddisfatto, non sentendolo suo.


Intanto è appena esploso il punk, che ripudia i Roxy Music come esemplari di un genere non più in linea coi gusti del pubblico. David Bowie, padre di quel genere quanto e più di lui, ha appena inaugurato con Station to Station, Low e The Idiot prodotto per Iggy Pop, un nuovo periodo artistico per la propria musica, il cosiddetto periodo berlinese, di cui si trovano tracce persino nel suono di In Your Mind. Ancora a Berlino Brian Eno, amico-rivale di Ferry, con cui aveva fondato i Roxy Music prima di venirne estromesso, ha perfezionato un nuovo genere, l’ambient, e sta per dare alle stampe il seminale Before and After Science. Persino Lou Reed, che per certi versi è un dinosauro assai più vecchio di lui, si è completamente rinnovato fino al punto da venire eletto, di lì a poco, padrino del punk. Solo Ferry, coi suoi modi da dandy fuori dal tempo, che non sono una posa ma espressione più profonda del suo essere, sembra un pesce fuor d’acqua ormai destinato all’estinzione.
Invece, come spesso succede in questi casi, scosso nelle sue certezze più profonde, segnato nei suoi affetti, all’apice di un periodo di estrema solitudine e vulnerabilità, Ferry scrive una serie di canzoni in cui mette a nudo il proprio cuore, e per inciderle, senza un apparente motivo, forse solamente per cambiare aria (ma senza andare a Berlino), prenota i Mountain Studio di Montreux, in Svizzera, di proprietà dei Queen. Per l’occasione decide di fare le cose in maniera asettica, professionale: invece di chiamare i vecchi compagni, come in passato aveva sempre fatto (Phil Manzanera ad esempio), si circonda di una serie di affidabili turnisti, in cui la parte del leone la fa Waddy Wachtel. Nel malinconico ritiro di Montreux, situato sul lago di Ginevra, ma fuori stagione, senza amici, senza una donna, circondato da questa band appena formata esclusivamente per le registrazioni, Ferry entra in una dimensione di estrema intensità emotiva, qualcosa, come dirà lui stesso, «di molto remoto, molto solitario e molto folle».

Registra così abbastanza materiale per un doppio album, ma è a tal punto insicuro di cosa questo disco debba rappresentare per lui, di cosa debba raccontare, da rimaneggiarne più volte la tracklist, rinviandone di parecchi mesi l’uscita, fino a ridurlo a un album singolo. La sensazione che si ha confrontando le prime scalette col prodotto finito è quella di un artista che sia partito per scrivere un’opera sulla fine dolorosa di un rapporto, e sia arrivato a realizzarne una sulla fragilità dei sentimenti, sull’incomunicabilità, sull’incapacità di mettersi mai completamente a nudo e di riuscire ad esprimere le proprie debolezze, il bisogno di affetto, così da trovare nell’altro un punto di appoggio, di comprensione o complicità, il perdono, la salvezza dell’amore. 

Letto in questo senso, il titolo del disco, con tutti i suoi riferimenti all’ambigua opera di Duchamp, in cui la sposa è volata via, e vive su un altro piano, separato e irraggiungibile rispetto a quello terreno dello sposo, assume un connotato fortemente simbolico e non privo di una certa amara ironia rispetto a quello che in genere gli si attribuisce. Proprio per questo, dal prodotto finito, che trova equilibrio fra i pezzi confessionali scritti da Ferry sull’abbandono della Hall e intense cover a tema, vengono estromessi pezzi assai intimi con Broken Wings, Four Letter Love e la sua versione di Crazy Love di Van Morrison (che poi verranno ripresi negli anni in altri prodotti discografici) per dar spazio a pezzi altrettanto rivelatori ma di più ampio respiro.



Così l’iniziale Sign of the Time, scritta da Ferry, comincia coi versi: «Ecco un arcobaleno per i tuoi capelli/ ecco un altro segno dei tempi» che può leggersi come un sardonico addio, oltre che alla donna amata, agli splendori in costume del glam. Altre canzoni autobiografiche sono la successiva Can’t Let GoA volte il mondo là fuori ti prenderà con un sorriso/ tu che sei accecato dal desiderio/ Cento notti insonni mi hanno lasciato devastato e inerte/ ma posso farcela, posso aggrapparmi ad esso») e la centrale When She Walks In the Room, che richiama nel titolo una vecchia hit del 1963 di Jackie De Shannon, ed è più scopertamente ispirata alla fine della sua relazione («Per tutta la vita ti hanno insegnato a credere/ poi arriva un momento di verità e scopri che sei stato ingannato/ Tutto il nettare della tua vita si è prosciugato/ È dunque arrivata l’ora di arrendersi?»).


Infine la crepuscolare, conclusiva This Island Earth, che prende probabilmente il nome dall’omonimo film di fantascienza del 1955 diretto da Joseph Newman e Jack Arnold (in Italia Cittadino dello spazio), primo esempio cinematografico di space-opera, di opera cioè ambientata nello spazio con tanto di viaggi e battaglie interstellari con orribili alieni, fino al disperato atterraggio in mare che chiude la pellicola. Fra i più belli di Ferry, questo pezzo senza ritorno si spalanca a una visione cupa e pessimistica della vita e dei rapporti umani: «Il mio spirito sanguina Dio sa dove/ un flusso senza fine/ Ho provato ad amare, provato a trovare/ la mia anima nelle ombre che corrono cieche/ e irrequiete come il mare/ […] Così vicini eppure così lontani/ i naufraghi sono come estranei/ Quest’isola chiamata Terra/ e tu ed io». 


Le cover, invece, altrettanto fondamentali, si muovono fra tributi al soul più sanguigno e al funk, con le due belle versioni di Hold On (I’m Coming) scritta da Isaac Hayes nel 1966 per Sam & Dave, e di Take Me to the River, successo del 1974 di Al Green di cui Ferry propone una versione molto più in linea con quella che contemporaneamente stanno realizzando a New York, per il loro secondo disco, i Talking Heads sotto la supervisione di Brian Eno: la New Wave è alle porte. E ancora con una That’s How Strong My Love Is già portata al successo da Otis Redding nel 1965, ma cantata anche dai Rolling Stones, che sembra una piccola stoccata a Mick Jagger. Completano il disco la bella e insinuante The Same Old Blues, composta da J.J. Cale nel 1973, il commosso tradizionale irlandese Carrickfergus, e infine una splendida versione di What Goes On, dal terzo album dei Velvet Underground in cui con un tocco di genio fonde alcuni versi della loro I Beginning to See The Light: «How does it feel to be loved?». Ne viene fuori un lavoro di grande coesione tematica e musicale, pur nella varietà degli stili proposti.


Il disco di Ferry si accosta, dunque, ad altre opere confessionali e assai tormentate della prima metà degli anni ‘70, come Blood on the Tracks di Bob Dylan o Veedon Fleece di Van Morrison o, appunto, al terzo disco dei Velvet Underground, scritto interamente da Lou Reed nel 1968 sotto l’urgenza di una crisi personale e sentimentale che andava scritta, messa in musica. Lavori che, proprio in virtù della loro trasversalità e precarietà emotiva restano come opere aperte, impossibili da concludere, da definire o da accantonare, ammantate dal sottile fascino di un dolore maturo, struggente e romantico, ineluttabile nella sua fatalità. Eppure, come conseguenza di tutto ciò, l’album di Ferry, prodotto fuori tempo massimo rispetto ai suoi predecessori, per quanto apprezzato dalla critica, non venne capito dal pubblico, non vendette bene, né verso i fan di Ferry, ai quali mancava la disincantata, brillante eleganza dei dischi dei Roxy Music e non sapevano come interpretare questa nuova crudezza emotiva, l’ostentata esibizione delle sue ferite, né verso il nuovo mercato discografico in cui furoreggiava il punk che non sapeva che farsene di un’opera così indefinibile, piena di cuore, ma troppo arrangiata, troppo adulta, priva della rabbia istintiva e distruttiva del rock. L’album inoltre, per scelta di Ferry, non venne supportato da nessun tour promozionale.



Sulla copertina, un corrucciato Bryan Ferry in posa come sulla locandina di un noir, con giacca di pelle e cravatta (che oggi fa molto Matrix) nella fredda luce azzurrina di un sotterraneo, volge lo sguardo oltre la camera, rifiuta il contatto, sia col pubblico, sia con la donna in abito da sera giallo-oro e riversa sul tavolo da obitorio alle sue spalle (la modella Barbara Allen Kwiatkowska sul retro di copertina), dopo il morso di un serpente, chiara allusione cinematografica alla morte di Cleopatra, capace di sedurre col suo fascino i condottieri dell’Impero. La regina è morta, Ferry, indagando con cinismo da detective sulla scena del crimine, ne canta il referto. Si prepara così agli anni ’80, in cui fra varie altre maschere, ormai tutte in bianco e nero e non più a colori, tornerà sovente a questa tormentata esibizione di distacco, ma senza più ritrovare la grazia di tanta fragilità e umano dolore. 



Nessun commento: