mercoledì 15 agosto 2018

la tua aristocrazia

Quei libri di poesia che li leggi, li rileggi, li infili in libreria, li riprendi, non ti lasciano mai andare...

[…] A me, questo tuo chiamarti fuori e sempre essere oltre
tutte le sorti comuni, mi ha sempre urtato,
soprattutto perché una caterva
di buoni a nulla, contenti di sé, che si credono
i giusti, che sanno tutto loro, che sistemano il mondo a ciance e prosecchini,
ti venivano dietro come pagliacci
con la faccenda dei capannoni, i palù, il paesaggio (naturalmente!),
con le frasi intelligenti (le tue) per i cin cin,
e nessun rischio per loro, finito il bla bla bla.
Ma tu stavi a casa tua, andavi a piedi […]
mangiavi formaggio, radicchio, non compravi una giacca
da trent’anni – non gettavi un centimetro
quadro di carta (“Per fare appunti” – dicevi).
E invece chi ti dava ragione
e nel tuo nome ancora ciarla senza requie
brucia una foresta per far festa
come una volta in mezzo a un campo,
e dice “Questo inverno ho fatto lo Yemen,
adesso mi interessa il Ciad”.
A me pare che ‘sta easy ecologia, questo easy diffamare
tutto un Paese di miserie malsofferte
è fraintendere la tua aristocrazia […]
Dovevi lasciar dettato in testamento: “Non è certo
quel capannone, quel cavalcavia, che mi soffocano,
ho parlato aperto e schietto (in allegoria!): quello che dicono i miei versi
è che non ci sarà più posto, non più tempo, non più terra
per una parola che abbia radici”.
Questo dovevi dire ben chiaro a loro, dovevi dirlo
ancora più chiaro a me.

Gian Mario Villalta, Tra mi e ti, in Telepatia, Lietocolle

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