Leggo La paga del sabato, primo romanzo in assoluto scritto da Beppe Fenoglio, inviato a Einaudi nel 1950 e rifiutato da Elio Vittorini perché ritenuto un “cartonaccio cinematografico” senza rimedio, e nonostante le resistenze di Calvino, che invece lo apprezzava, pur ammettendone i difetti.
Ecco, lo leggo e penso che, secondo me, è una buona opera prima, un romanzo bello e teso, un noir ambientato nelle Langhe sorretto da una scrittura solida e asciutta, che scorre perfetto fino al suo tragico finale, come un meccanismo a orologeria. Non il suo capolavoro ma meritevole di una pubblicazione sì. Penso anche che, probabilmente, questa è la mia opinione a posteriori, ma sono pure convinto che Fenoglio non fu mai pienamente compreso dai suoi contemporanei, neppure da Calvino che gli fu amico.
I tre libri che riuscì a pubblicare in vita furono accolti spesso e volentieri da stroncature od opinioni di sufficienza dalla critica (straordinario il caso del “rimprovero” di Vittorini pubblicato come quarta di copertina a La malora, suo secondo libro). Le case editrici invece di incoraggiarlo lo influenzarono negativamente per i propri dubbi in merito alla bontà delle sue sperimentazioni (tanto da condizionarlo a non terminare mai la seconda e fondamentale parte de Il partigiano Johnny). E in effetti la maggior parte del suo lavoro è venuta alla luce postuma, spesso frammentaria, imponendosi all’attenzione del pubblico lentamente, per il suo solo valore letterario.
Tanto che Fenoglio è considerato da molti un esempio di scrittore puro, dedito unicamente alla sua scrittura. Cosa fondamentalmente vera, se non fosse che pure Fenoglio, come ogni uomo, avrebbe desiderato talvolta una conferma, un riconoscimento del suo lavoro artistico, che di rado gli arrivò. E in questo Fenoglio, oggi considerato un padre simbolico da molti giovani scrittori che si ritrovano soli contro un mercato talmente oscuro, ingordo e ingombrante da paragonarsi a un mostro mitologico, affamato di vittime sacrificate al suo altare, fu uno sconfitto. Di una dignità enorme, unica, ma sconfitto.
Penso a Fenoglio, sconfitto e incompreso dalla critica e dai suoi stessi colleghi, mentre leggo il suo primo romanzo, pubblicato nel 1969, sei anni dopo la sua morte. E me lo immagino giovane e pieno di sogni e speranze, apprestarsi a metterlo giù, su carta, e lavorarci di lima e senza sosta fino alla perfezione. E penso anche a Vittorini, che nel suo rigore, se vedesse quello che è diventato oggi il mercato editoriale, dove la letteratura e la bella scrittura sono bandite, o guardate con sospetto, a meno che non abbiano in sé quel po’ di “cartonaccio cinematografico” necessario a ricavarne poi un film per la stagione successiva, ecco, credo davvero che si rivolterebbe nella tomba, disgustato.
Ecco, lo leggo e penso che, secondo me, è una buona opera prima, un romanzo bello e teso, un noir ambientato nelle Langhe sorretto da una scrittura solida e asciutta, che scorre perfetto fino al suo tragico finale, come un meccanismo a orologeria. Non il suo capolavoro ma meritevole di una pubblicazione sì. Penso anche che, probabilmente, questa è la mia opinione a posteriori, ma sono pure convinto che Fenoglio non fu mai pienamente compreso dai suoi contemporanei, neppure da Calvino che gli fu amico.
I tre libri che riuscì a pubblicare in vita furono accolti spesso e volentieri da stroncature od opinioni di sufficienza dalla critica (straordinario il caso del “rimprovero” di Vittorini pubblicato come quarta di copertina a La malora, suo secondo libro). Le case editrici invece di incoraggiarlo lo influenzarono negativamente per i propri dubbi in merito alla bontà delle sue sperimentazioni (tanto da condizionarlo a non terminare mai la seconda e fondamentale parte de Il partigiano Johnny). E in effetti la maggior parte del suo lavoro è venuta alla luce postuma, spesso frammentaria, imponendosi all’attenzione del pubblico lentamente, per il suo solo valore letterario.
Tanto che Fenoglio è considerato da molti un esempio di scrittore puro, dedito unicamente alla sua scrittura. Cosa fondamentalmente vera, se non fosse che pure Fenoglio, come ogni uomo, avrebbe desiderato talvolta una conferma, un riconoscimento del suo lavoro artistico, che di rado gli arrivò. E in questo Fenoglio, oggi considerato un padre simbolico da molti giovani scrittori che si ritrovano soli contro un mercato talmente oscuro, ingordo e ingombrante da paragonarsi a un mostro mitologico, affamato di vittime sacrificate al suo altare, fu uno sconfitto. Di una dignità enorme, unica, ma sconfitto.
Penso a Fenoglio, sconfitto e incompreso dalla critica e dai suoi stessi colleghi, mentre leggo il suo primo romanzo, pubblicato nel 1969, sei anni dopo la sua morte. E me lo immagino giovane e pieno di sogni e speranze, apprestarsi a metterlo giù, su carta, e lavorarci di lima e senza sosta fino alla perfezione. E penso anche a Vittorini, che nel suo rigore, se vedesse quello che è diventato oggi il mercato editoriale, dove la letteratura e la bella scrittura sono bandite, o guardate con sospetto, a meno che non abbiano in sé quel po’ di “cartonaccio cinematografico” necessario a ricavarne poi un film per la stagione successiva, ecco, credo davvero che si rivolterebbe nella tomba, disgustato.
7 commenti:
non l'ho letto e mi hai fatto venire voglia di leggerlo :)
..gran bella scelta
easter ;)
erano altri tempi, antonio.
l'einaudi era un'azienda che faceva cultura. cultura vera. e andando in pari con i conti. e avendo gente che ha fatto la storia della letteratura italiana: vittorini, calvino, pavese, la ginzburg, mila, pintor.
era un altro mondo: oggi neanche vittorini arriverebbe a pubblicare.
mbè Sergio c'è un mio amico stronzo (forse non più di me)che tra le sue battute preferite suole dire agli studenti universitari cui insegna: "Mbè il trio Pavese Vittorini Calvino, i poeti diciamo, hanno fatto fallire l'Einaudi".
Carica troppo il cannone, ma non spara poi troppo male. Non è che i conti a Torino quadrassero molto.
Comunque, questo è a latere.
Fenoglio secondo me non è un grande scrittore, almeno secondo i miei parametri di scrittura. E stento anche a capire, oltre tutto, il motivo di tante simpatie calvine al Beppe.
Comunque, ne comprendo la portata e capisco possa piacere. "La paga del sabato" è a tutti gli effetti il titolo più bello dei suoi. Vatti a vedere se l'ha messo lui a terra o qualche einaudiano. Ricordo che o su questo o su qualche altro manoscritto ci fu un lavoro editoriale di forbice e ricucitura degne della moderna sartoria editoriale attuale.
Il fatto è che ci sono destini non scritti e quando NON VA, suvvia, NON VA. Inutile cercare, sono le cose che ti trovano.
ciao
mah a me piace parecchio fenoglio, anche se credo fosse più adatto al racconto che al romanzo (e nei racconti non sbaglia né si perde quasi mai! altrettanto non si può dire dei romanzi, lo ammetto).
il taglia e cuci di cui parli venne fatto sul partigiano johnny, a cura di dante isella, che mischia le due versioni del romanzo (riscritto in due tempi diversi da fenoglio, che ne era insoddisfatto). quanto sia lecito questo tipo di lavoro non so, però c'è e questo e quanto. c'è anche una (ottima) edizione che le presenta entrambe, anzi che presenta in ordine filologico tutte le sue opere in, se non sbaglio, cinque volumi, ma ha costi proibitivi per un disoccupato!
mentre la paga del sabato è titolo suo, così come la malora (per cui dovette lottare parecchio, in quanto proprio non piaceva) e primavera di bellezza. tutti gli altri titoli furono imposti da einaudi e garzanti.
per quel che riguarda il trio pavese, vittorini e calvino, e quello che dice il tuo amico, beh io direi che c'è sempre una via di mezzo, no? voglio dire che non credo che fare soldi e pubblicare qualcosa di valido sia necessariamente in antitesi. o almeno lo spero!
mentre sui destini non scritti, beh, hai perfettamente ragione.
Sai cos'è? che il mio amico vorrebbe rimorchiare qualche manza e usa battute ad effetto, ma quelle, porelle, non sanno nemmeno cos'è la Einaudi...
A parte gli scherzi, trovo che Einaudi a quel tempo abbia fatto grandi cose, solo che i grandi scrittori non stavan mica tutti lì. Finì per diventare una parrocchia elitaria e settaria, un po' come dire che persero il contatto col pubblico. Si lisciavano l'un l'altro, pronti a proclamarsi fenomeni a stretto giro di posta, come nelle bocciodromi si incorona un fenomeno over 80 al giorno.
Di Einaudi mi tedia l'aria del Ghe pensi mi (di odierna tristissima memoria), de la Scola Mejo semo noi, e, se te lo devo proprio dire da stronzo, il fallimento era tutto meritato.
Ma se oggi, con tanti sacrifici (25 anni a scuola per imparare a leggere e scrivere, non senza errori), la gente NON legge che Aldus Nine e Savi-ano, figuremose negli anni di Beppe Itolo e co.
Pavese e Vitto, comunque, sono dei grandi proprio.
ciao lil
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