venerdì 30 aprile 2021

il muretto

Oggi, vigilia del 1 maggio, mi sono messo a lavorare seriamente, faticando in campagna con mio padre e mio fratello. Risultato: sette ore di litigate furibonde per decidere come tirare su un muretto in pietra. La cosa buffa, ho pensato, è che quando sarò vecchio saranno questi gli episodi che mi terranno caldo quando ricorderò di avere avuto una famiglia.

botteghino

Scriveva un dirigente della RKO a Orson Welles nei primi anni Quaranta: «Orson Welles deve fare qualcosa di commerciale. Dobbiamo abbandonare i film “d’arte” e tornare con i piedi per terra. Educare il pubblico è costoso, e il tuo prossimo film dovrà essere pensato per il botteghino». 
Sono cresciuto nella (errata) convinzione che spesso non fosse cattiveria, ma miopia, che di alcuni semplicemente non si riconoscesse il genio e per questo lo si sottostimasse, gli si impedisse di dare il meglio di sé. L'esperienza di Orson Welles insegna che invece spesso il talento lo si vede eccome, e proprio per questo lo si ostracizza, non perché lo si rienga "pericoloso" per il potere, come spesso ancora ci illudiamo che sia*, in un misto di vanità, orgoglio e autodifesa, ma semplicemente perché poco remunerativo. Nulla è più pericolo per il potere che un genio che non vende abbastanza al botteghino.

*Per certi versi (e paradossalmente) è un retaggio di sapore post-comunista, come diceva Ludovica Ripa di Meana in una sua poesia: io odio il comunismo per quello che ha fatto ai suoi intellettuali: non potendoli appiattire a un pensiero unico li ha eliminati tutti.

mercoledì 28 aprile 2021

le tre verità di ogni poeta

Chissà perché tutte le volte che ti intervista uno che non la scrive sai già che fra le altre ti infilerà la fatidica domanda: «Che cos’è la poesia?» e tu ogni volta farai uno sforzo, arrampicandoti su tutti gli specchi, per non rispondergli la prima verità di ogni poeta: «E io che ne so?». Un po’ perché non vuoi essere scortese, un po’ per astuzia, perché sai che se lo dici gli verrà naturale chiederti: «Ma se non lo sai, perché la scrivi?» e tu non vuoi fare la figura dello scemo rispondendogli la seconda verità di ogni poeta: «Boh!». Alla terza verità non si arriva mai.

lunedì 26 aprile 2021

il sogno americano

Leggo i (peraltro bellissimi) racconti di F.S. Fitzgerald e mi accorgo di come in quei racconti sono espressi sogni e possibilità di un’epoca. Ecco che a un certo punto un giovane uomo che è stato sconfitto e deluso da un amore, ritorna dopo un anno o due al paese e ha cambiato completamente la sua vita, ha fatto fortuna, ha perso qualche illusione ma è diventato più grande. È tremenda la rapidità con cui in quelle storie si può dare seguito alle proprie aspirazioni: quattro o cinque stagioni in tutto. Ma qui, pensi con disappunto, nemmeno in dieci anni puoi arrivare a quel grado di successo per cui tornerai da un tuo ex a dirgli: Mo lustrati gli occhi! Figurarsi poi per uno che scrive! Infatti leggi F.S. e sei propenso ad archiviare i suoi sogni come storie che non ti riguarderanno mai; finché un bel mattino leggi che persino Toninelli ha scritto un libro e presto lo pubblicherà con un editore importante. Lui sì e tu no. Per lui il sogno americano ha funzionato e tu mo lustrati pure gli occhi.

domenica 25 aprile 2021

il pirata

Ricevo un messaggio vocale da un numero che non conosco, intorno alle 11. «Buongiorno Lino, ciao, come stai prima di ogni cosa? Eeeeh, sono tornato avantieri mattina nella nottata, eh purtroppo abbiamo fatto un viaggio mezzo disastrato, ci siamo salvati per miracolo perché avevamo Antonio il meccanico insieme… (Voci confuse dietro) …mo’ non mi sto a dilungare sul fatto, praticamente abbiamo preso un alternatore nuovo da Leuci a Cisternino, eeeeeh, il meccanico abbisogna… siccome c’ha una… è una Dyane 6, eeeeh ha adattato un alternatore nuovo, e deve fare un taglio, semplicemente, gli servirebbe il laboratorio tuo, col fleks, che viene con l’alternatore nuovo, gli toglie un pezzettino che lo adatta al mezzo, tutto qua… e poi, e poi, se c’hai un trapano con la punta da… da…? (Seconda voce dietro: una da 5 e l’altra da 10) …una da 5 e l’altra da 10, per il ferro, giusto? (Seconda voce: Sì) …per il ferro. Se possiamo venire direttamente al laboratorio, ci dai un appuntamento… (Seconda voce: Se non c’ha le punte, eh, le compro io, e il disco del fleks, a me m’interessa solo che c’hai il trapano e il fleks quello piccolino) Eh quindi… (Seconda voce: Ci conosciamo Lino! Mo’ non ti ricordi, quando ci vediamo ti farò ricordare io…) …Sì, lui è il papà di Cinzia che venne con il fachiro al tempo con Monica, se ti ricordi, venti anni fa e più, era qui, e quindi rimane sempre lui il meccanico e, e… oltre che musicista ovviamente come primo mestiere, lui per passione rimane il meccanico perché è nato dentro la meccanica… Comunque, se mi fai sapere, così noi ci orientiamo, se puoi ci diamo l’appuntamento nel pomeriggio o domani con calma al tuo laboratorio e facciamo questo fatto, mandaci notizie. Ciao, e a presto… Domani facciamo anche una piccola festicciola con soprattutto un cerchio per capire che cosa dobbiamo fare a Castelluccio. Ciao ciao… (Seconda voce: Ciaooo) …buona giornata!».
Rispondo: Ma è un messaggio vero o uno scherzo? Mi arriva un nuovo vocale intorno alle 13. «Pronto? Lino no, non è uno scherzo, perché mai dovrebbe essere uno scherzo? E se no non ti avrei proprio disturbato al massimo ti avrei solo salutato così, e invitato domani con calma a venire come al solito… eeeeh sono il pirata e certamente ancora non hai capito, e sì sto col telefono di un amico perché il mio è quasi morto, eeeeh niente non è uno scherzo, se puoi dirmi nei dettagli come possiamo fare a venire al tuo laboratorio, sempre se è possibile, è perché c’è Antonio che tu lo conosci bene, te l’ho già detto nel messaggio prima, ciao, dal pirata e da tutti noi, c’è Ciccio il poeta, Antonio, e Ciccio di Poggiomarino, ciao e scusami eh, ma fammi sapere però…».
Rispondo: Non ho capito sinceramente chi siete. Io fra l’altro sono Lillo, e non Lino, e non ho un laboratorio, ho uno studio, di una casa editrice, perché sono un editore, però se hai detto che ci conosciamo mi fido. Se volete ci possiamo vedere domani, intorno alle 16. Io ho lo studio a Locorotondo, nella piazza vicino all’ospedale, ci vediamo lì, ci prendiamo un caffè, e anche se non ho né il trapano né il fleks, vedo che posso fare per darvi una mano.

venerdì 23 aprile 2021

due auto nella notte

 


C’è, in entrambi i film, un’auto che corre nella notte. Una all’inizio, diretta dal passato verso un futuro disastroso coi titoli che scorrono al contrario sullo schermo, una alla fine, in fuga nel passato dal futuro peggiore possibile, sancito dalla parola Fin in chiusura. Su entrambe le auto ci sono due coppie, formate da una donna che ha appena perso tutto e viene salvata da un cinico investigatore venuto fuori, con le sue smargiassate da duro, da una storia di serie B. Nella prima auto la donna chiede all’altro se legge poesie e poi si risponde da sola, no che domanda sciocca. Nella seconda è stato proprio lui che poche ore prima le ha letto dei versi di Paul Éluard per risvegliarla dal tuo torpore affettivo. Sono coppie strane queste di fuggiaschi che parlano di poesia, irreali come tutte le creature letterarie. I due film sono Kiss Me Deadly di Robert Aldrich, del 1955 (lo stesso anno di The Night of the Hunter, altra anomalia del genere) e Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution di Jean-Luc Godard del 1965. Dieci anni precisi in cui un genere di consumo, il noir, che si pensava arrivato al suo esaurimento, si reinventa senza rinunciare a una sola briciola di se stesso, del proprio linguaggio, dei suoi tic e delle sue esagerazioni, anzi esasperando ancora di più ogni sua componente fino al parossismo estetico e narrativo per diventare neo-noir, manierismo. Molti biografi tendono a stabilire come date il 1958, anno di Touch of Evil di Orson Welles che chiude la stagione del noir classico e il 1967, anno di Point Blank di John Boorman che inaugura invece il neo-noir. Ma secondo me è fra queste due corse in auto che ogni cosa viene sconvolta e ricreata. Ci sono queste due auto che corrono verso il buio, verso la ricerca di una verità che, nella sua dichiarata inautenticità non può più soddisfarci: nel primo film è rappresentata da una scatola di piombo di cui non vediamo mai il contenuto, nel secondo gira e rigira intorno a una serie di incontri, chiacchierate, di dialoghi filosofici e di interrogatori, che non sono mai risolutivi. Né tale verità ci porterà alcun giovamento: e infatti nel primo film a vincere è una disperata vitalità, l’azione in se stessa, spesso puramente istintiva e priva di una logica o di uno scopo più alto, finalizzata com’è a mantenersi in vita; nel secondo, più romanticamente vince l’amore, che spesso è un amore triste perché non ha futuro. Il tutto intinto in un bianco e nero estremo, bruciato da fiammate luciferine di luce. C’è già, fra questi due poli, tutto il neo-noir.


sabato 17 aprile 2021

cosimino

Ieri parlavo col mio amico Cosimino, che è uno di quei tipi un po' matti e un po' creativi che non sanno mai stare fermi. Poco prima della pandemia ha fatto questa cosa, ha mollato il suo lavoro per mettersi a fare il contadino. Non ho ancora capito come gli vanno le cose ma sembra felice. Ogni volta gli chiedo come va e lui comincia a parlarmi del suo orto. Ieri gli ho chiesto per la prima volta come stanno le sue piante e lui si è messo a ridere: Le sto viziando, quando lavoro metto la musica a tutto volume così ascoltano anche loro. Poi mi ha fatto sentire al telefono cosa stavano ascoltando di là. Van Morrison. Così vengono su piene di vita, mi ha detto.

 

giovedì 15 aprile 2021

destino


Da tutta la vita ho a che fare con Pirro, il più famoso dei miei concittadini, cavaliere senza gloria e senza drago, che nel XV secolo fece edificare, poco fuori dal paese, una chiesetta riccamente addobbata che ne magnificasse il nome. La chiesetta nel tempo è stata fagocitata dal borgo e depredata da chiunque, e ora resta come un guscio vuoto in cui i turisti si rifugiano in estate dal caldo. In fondo, di lato, quasi abbandonata vicino all'altare del suo modello San Giorgio in perenne lotta col drago, c'è la statua di Pirro che continua a pregare in ginocchio, devoto, e a guardare in alto, forse sperando in una qualche risposta sul perché ad alcuni tocca un destino e ad altri no.

il testamento del dr. mabuse

Il testamento del dr. Mabuse del 1933 è stato il secondo film sonoro e l’ultimo film girato in Germania, prima dell’esilio, da Fritz Lang. Se ne possono trovare due versioni in rete: quella definita “francese” perché uscita in Francia negli anni ’30 con un taglio di circa mezz’ora sulle due ore originali (la qualità video è pessima, ma è doppiata in italiano: fra le altre si sente la voce di Gino Cervi dire: «Non vorrai rinnegare un buon camerata perché è stato pescato»), e quella “originale”, restaurata di recente nella sua interezza (bellissima come qualità video, ma in tedesco con sottotitoli in inglese o spagnolo). Il film non arriva alla bellezza dei suoi predecessori – con Il dr. Mabuse sopra tutti gli altri – ma appartiene ancora, sotto ogni aspetto formale, alla produzione altissima di Lang; il quale, gli va riconosciuto, film brutti non ne ha mai fatti. Dal punto di vista della trama, forse la cosa più notevole è la presenza di un particolare personaggio, il commissario Karl Lohmann (interpretato da Otto Wernicke), il quale era già stato fra i protagonisti del precedente M. il mostro di Düsseldorf del 1931. È la prima volta questa, ma non l’ultima, che Lang utilizza lo stesso personaggio o attore in due film distinti, per creare un filo intertestuale fra le sue opere. In questa maniera cosa fa? Usando il commissario come punto di incontro meta-narrativo, inserisce nella stessa trama due diversi paesaggi/plot narrativi e finisce per farli confondere: sia quello del dr. Mabuse sia quello di M. hanno al loro centro il vivace sottobosco criminale che sembra contaminare – col piglio brechtiano di una vera e propria epica dei bassifondi – ogni singolo aspetto sociale della Germania dell’epoca. Non solo, a predominare sulle bande che fanno il bello e cattivo tempo, fino al punto di istituire un vero e proprio tribunale criminale, sono lo spietato Schranker (in M.) è il dr. Baum (nel Testamento) il quale, proprio come il dr. Mabuse, è completamente pazzo. Non per nulla gli ultimi film di Lang non piacquero ai nazisti. Ancora, per quanto astuto sia, in entrambi i casi il commissario Lohmann riesce a sgominare le varie bande e vincere la sua sfida col male non in virtù del suo particolare talento, ma per un puro semplice caso: è la fortuna, ci dice Lang, e non la forza della Giustizia ad aiutare i buoni del mondo. E comunque, anche se i cattivi vengono presi, i crimini perpetrati rimarranno insanabili. «Chi ci ridarà i nostri bambini?» chiedono le madri vittime della furia omicida di M. alla fine del film. E lo stesso commissario Lohmann, in un atto di resa al caos che ha preso piede di fronte ai suoi occhi, commenta sconsolato l’arresto di Baum: «Non c’è più nulla qui che possa fare la giustizia umana», invocando quindi una forza più alta, sovraumana, che possa arginare il disastro. In questo modo il suo personaggio anticipa, nella sua consapevole impotenza, i poliziotti proposti alcuni anni dopo da Friedrich Dürrenmatt, in titoli come Il giudice e il suo boia o La promessa. Mentre lo stesso Lang chiuderà definitivamente i conti col dr. Mabuse circa trent’anni dopo, al suo ritorno in Germania.

domenica 11 aprile 2021

modello

Tutti i giorni sento dire al TG di quanto sono bravi in Israele, i primi al mondo con l'Inghilterra per aver immunizzato tutti quanti (anche se poi sono, in tutto, 9 milioni di persone) e mai uno che aggiunga che sono bravi a tal punto che, mentre la vicina Palestina ha l'1% della popolazione vaccinata e l'epidemia a livelli altissimi, Israele dice loro: "La cosa non ci riguarda". Stupenda questa dualità per cui quando c'è da bombardare o fare la guerra dell'acqua la cosa ti riguarda, ma quando c'è da portare medicine non ti riguarda affatto. Ma più bello ancora è accendere il TG e sentirsi dire: Ma che bravi questi di Israele, un vero modello da imitare.

topi

 Sono già alcuni giorni che non si fa altro che parlare del caso Gallimard. Se ci pensate, della stessa cosa si stiamo lamentando tutti, anche qui in Italia, da un anno a questa parte. Certo, se lo dice Gallimard, allora è proprio vero: tutti sono capaci di scrivere un libro. A me di Gallimard non è che freghi tanto, posso dire però sinceramente che quest'anno sto vendendo meno dell'anno passato, che già ho venduto poco. Questo perché, credo, rispetto all'anno passato sta cambiando qualcosa: la gente è più stanca, stanno finendo i soldi, quindi comincia a tirare la cinghia. Molti bravi editori, se ci fate caso, si sono fermati o quasi nella loro programmazione, altri stanno addirittura chiudendo, altri ancora hanno cominciato a investire sui classici, perché se c'è una cosa che è vera è che quando i tempi si fanno bui ci si rivolge sempre ai classici. Gli autori vivi, e vitali, che sono proprio come noi comuni mortali, ci interessano poco o nulla se non sono circondati dall'aura del tempo e della classicità, se non hanno attraversato quella particolare soglia. Ed è forse il motivo per cui, paradossalmente, tutti scrivono e sommergono le case editrici, perché sentono la precarietà del tempo e tentano a loro modo di salvarsi. Sperano di infilarsi anche loro, come topi, nei meccanismi che ci trasformano in un classico, per farci trasportare dall'altra parte del mare e fare in modo che, forse non oggi, forse non domani, ma un giorno saremo anche noi buoni da ripescare, magari durante la prossima catastrofe o crisi mondiale.

sabato 10 aprile 2021

key largo

Key Largo di John Huston, anno 1948 (passato in Italia come L’isola di corallo) è uno di quei film minori ma fondamentali che andrebbe visto almeno una volta nella vita. Basato su un testo teatrale di Maxwell Handerson, ma riscritto da capo a piedi dallo stesso Huston con Richard Brooks, si basa su una storia semplice: in un albergo di Key Largo – che è un’isola della Florida da cui si può facilmente raggiungere Cuba in barca – durante una tempesta tropicale si rifugiano il proprietario dell’albergo (Lionel Barrymore) e sua figlia acquisita (Lauren Bacall), un avventuriero reduce di guerra (Humphrey Bogart), una banda di criminali guidati dal gangster Johnny Rocco (Edward G. Robinson), il quale si è portato dietro una sua vecchia fiamma, l’alcolizzata Gaye Dawn (Claire Trevor), a cui si aggiungono, come comparse, un gruppo di indiani e i due sceriffi di zona. Durante la notte di tempesta la tensione cresce fino a generare una serie di contrasti. Fin qui la trama di un film non originale, ma solido, tutto basato sulla caratterizzazione dei personaggi e sul bellissimo bianco e nero opera di Karl Freund (Metropolis). Dove risiede, però, il fascino maggiore della pellicola? Da un punto di vista formale, nella continua sfida, lanciata da Huston, ai limiti della finzione cinematografica. Nel suo essere, per questo, una sorta di lavoro fondamentalmente postmoderno che, da una parte, innesta nella fiction schegge di cinema verità che si rifanno al suo mestiere di documentarista; dall’altra, nell’immersione in un gioco metatestuale che cuce insieme, su più livelli (dal pastiche alla parodia), una serie di citazioni prese da film precedenti, suoi e di altri, che anticipa quello che vent’anni dopo diventerà caratteristico del genere neo-noir. Non le indico tutte per non allungarmi e non creare eccessiva confusione, ma le più evidenti riguardano: 1) La presenza di Bogart e Bacall, qui alla loro quarta e ultima pellicola insieme; i due erano già stati protagonisti, nel 1946, di quelli che molti considerano il classico assoluto del genere, Il grande sonno di Howard Hawks, dove Bogart, nei panni di Philip Marlowe, viene chiamato da un vecchio generale in sedia a rotelle per salvare sua figlia minore da un ricattatore, innamorandosi della maggiore (Bacall); in Key Largo il proprietario dell’albergo è anch’egli in sedia a rotelle e vive con sua figlia che sembra provare, senza dichiararli, dei sentimenti per Bogart; 2) La presenza di Edward G. Robinson, una delle icone del film nero americano, già protagonista nel 1931 del capolavoro Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy, basato sull’ascesa e caduta di un gangster durante il proibizionismo; in Key Largo Robinson riprende proprio quel personaggio, un gangster che sogna di tornare al proibizionismo, con gli stessi scatti, la volgarità, lo stesso fascino e la stessa crudeltà a cui poi – altro gioco di specchi da segnalare – si ispirerà Robert De Niro per il suo Al Capone ne Gli intoccabili di  Brian De Palma (1987): nel film di De Palma c’è una scena in cui De Niro conversa mentre si fa fare la barba che è un ricalco quasi mimetico di un’identica scena nel film di Huston. 3) Bogart e Robinson avevano già lavorato insieme in un precedente film del 1938, The Amazing Dr. Clitterhouse (passato in Italia come Il sapore del delitto), commedia nera di Anatole Litvak su sceneggiatura proprio di Huston, in cui i ruoli erano invertiti – Bogart era il gangster feroce e Robinson il “matto” che provava a tenergli testa – e dove la protagonista femminile era Claire Trevor, femme fatale che ora, in Key Largo, ritorna come ex amante, sfiorita e invecchiata, di Robinson. Nella scena più bella di tutto il film, che valse proprio alla Trevor un Oscar come attrice non protagonista, Robinson/Rocco le chiede di cantare una canzone. Trevor/Dawn tentenna, non vuole, non si sente sicura, alla fine acconsente e canticchia a cappella, con voce incerta, un successo della vecchia Broadway, Moanin’ Low, che parla appunto di una donna la cui vita è stata devastata dalla presenza di un uomo brutale. Da una parte, questa scena può intendersi come il controcanto (disincantato) di un certo genere di personaggio alla Gilda. Dall’altra, è estremamente interessante perché si basa, in tanta finzione, su un artifizio che rovescia la medaglia: lì dove, in precedenza, tutte le attrici dei film di Hollywood si facevano doppiare da cantanti di professione, e così avrebbe voluto anche la Trevor, qui è proprio lei che canta, con la sua voce sottile, e stona. Huston sulle prime la convince dicendo che stanno facendo delle prove per le riprese successive, ma dopo che lei ha cantato dà buona la prima e monta nel film proprio quella prova canora così stentata, per ottenere quell’effetto patetico, drammatico: noi avvertiamo tutto il disagio di Gaye Dawn perché è il disagio reale della Trevor che si mette a nudo nelle sue carenze di artista, in un modo che non era mai stato concepito prima. 4) Questo però non è l’unico caso di incursione di cinema verità nella finzione del film. Mentre tutto l’albergo è ricostruito in studio, e le scene dell’uragano utilizzano filmati d’archivio, le scene in barca sono girate sulla vera barca di Bogart, provetto marinaio. Ancora, incastonata fra le altre, c’è una sotto-trama indipendente, che qui non esploro, sull’omicidio brutale e razzista di due indiani accusati di omicidio. Huston, proprio per questa sotto-trama, riprende un gruppo di veri indiani che, poco prima della tempesta, sbarcano sul molo dell’albergo. C’è un momento bellissimo, non filtrato da copione, in cui, sul finto molo del finto albergo una vera, vecchia indiana, si appoggia a Bogart e gli chiede una sigaretta. Le rughe della vecchia sono talmente reali da sollevarsi oltre il cielo dipinto sul fondale fino a bucare lo schermo.  

 

Aggiungo, per completezza, che da un altro punto di vista squisitamente sociologico (ben approfondito da Peter Strempel in un suo articolo, The Key Largo hypothesis: Brooks and Huston set the noir context, che si può leggere in rete su medium.com, QUI), uno dei dialoghi più intensi e oscuri del film, quando i personaggi di Bogart e Robinson si incontrano e si confrontano per la prima volta, contiene molti riferimenti criptati, veri e propri atti di accusa verso il clima di intolleranza e di caccia alle streghe che stava nascendo a Hollywood proprio in quel periodo, e che avrebbe presto portato alla censura maccartista. Non a caso questo fu l’ultimo film di Huston con la Warner Bros. Di lì a poco tutti i protagonisti del film dovranno fare pubblica ammenda per le loro idee “sovversive”, come Bogart e Bacall, oppure, rifiutandosi di farle, verranno lentamente esautorati dal mondo cinematografico, come Robinson, o costretti all’esilio, come Huston che nel 1952 emigrerà per sempre in Irlanda.

giovedì 8 aprile 2021

parla da sé

Ho appena letto una discussione in cui due persone riprendevano, ancora una volta, la questione irrisolta della poesia “Non ho smesso di pensarti” di autore anonimo, ma che i più attribuiscono a Bukowski. Ricorda un po’, in minore, la storia della poesia “L'amicizia” che tutti attribuiscono a Borges (anche Matteo Renzi) pur non essendo opera dell’argentino. La cosa assurda è che a questo stadio non conta più nulla il fatto che sia oggettivamente troppo melensa per essere di Buk, e nemmeno che lo abbia dichiarato persino Simona Viciani, che è la sua traduttrice italiana: nella considerazione comune ormai “Non smetto di pensarti” si è a tal punto legata alla sua figura, che continua testardamente a riciclarsi come una delle massime creazioni dell’autore americano, fino al punto che viene da chiedersi cosa piaccia tanto della sua opera poetica, se poi per molti il suo massimo capolavoro è un apocrifo scritto da un altro. Ma guai a mettere in dubbio la cosa, si rischia di non essere creduti. Così è successo a chi ha commentato il post con la poesia: “Non è di Bukowski”; al che un altro ha risposto: “Non può essere”; “Perché non può essere?” ha chiesto il primo. “Perché è troppo bella per non essere sua”, che è il tutto e per tutto un assoluto a cui non si può rispondere con la logica, perché sconfina nella fede: se è bella è perché l’ha scritta Buk, punto. Io non ci provo nemmeno a commentarla una risposta così, perché implica tante di quelle cose sul rapporto fra pubblico e poesia e su quello fra poesia e autorialità, che ne verrebbe fuori una cosa lunghissima. La risposta, già così, parla da sé.