Il testamento del dr. Mabuse del 1933 è stato il secondo film sonoro e l’ultimo film girato in Germania, prima dell’esilio, da Fritz Lang. Se ne possono trovare due versioni in rete: quella definita “francese” perché uscita in Francia negli anni ’30 con un taglio di circa mezz’ora sulle due ore originali (la qualità video è pessima, ma è doppiata in italiano: fra le altre si sente la voce di Gino Cervi dire: «Non vorrai rinnegare un buon camerata perché è stato pescato»), e quella “originale”, restaurata di recente nella sua interezza (bellissima come qualità video, ma in tedesco con sottotitoli in inglese o spagnolo). Il film non arriva alla bellezza dei suoi predecessori – con Il dr. Mabuse sopra tutti gli altri – ma appartiene ancora, sotto ogni aspetto formale, alla produzione altissima di Lang; il quale, gli va riconosciuto, film brutti non ne ha mai fatti. Dal punto di vista della trama, forse la cosa più notevole è la presenza di un particolare personaggio, il commissario Karl Lohmann (interpretato da Otto Wernicke), il quale era già stato fra i protagonisti del precedente M. il mostro di Düsseldorf del 1931. È la prima volta questa, ma non l’ultima, che Lang utilizza lo stesso personaggio o attore in due film distinti, per creare un filo intertestuale fra le sue opere. In questa maniera cosa fa? Usando il commissario come punto di incontro meta-narrativo, inserisce nella stessa trama due diversi paesaggi/plot narrativi e finisce per farli confondere: sia quello del dr. Mabuse sia quello di M. hanno al loro centro il vivace sottobosco criminale che sembra contaminare – col piglio brechtiano di una vera e propria epica dei bassifondi – ogni singolo aspetto sociale della Germania dell’epoca. Non solo, a predominare sulle bande che fanno il bello e cattivo tempo, fino al punto di istituire un vero e proprio tribunale criminale, sono lo spietato Schranker (in M.) è il dr. Baum (nel Testamento) il quale, proprio come il dr. Mabuse, è completamente pazzo. Non per nulla gli ultimi film di Lang non piacquero ai nazisti. Ancora, per quanto astuto sia, in entrambi i casi il commissario Lohmann riesce a sgominare le varie bande e vincere la sua sfida col male non in virtù del suo particolare talento, ma per un puro semplice caso: è la fortuna, ci dice Lang, e non la forza della Giustizia ad aiutare i buoni del mondo. E comunque, anche se i cattivi vengono presi, i crimini perpetrati rimarranno insanabili. «Chi ci ridarà i nostri bambini?» chiedono le madri vittime della furia omicida di M. alla fine del film. E lo stesso commissario Lohmann, in un atto di resa al caos che ha preso piede di fronte ai suoi occhi, commenta sconsolato l’arresto di Baum: «Non c’è più nulla qui che possa fare la giustizia umana», invocando quindi una forza più alta, sovraumana, che possa arginare il disastro. In questo modo il suo personaggio anticipa, nella sua consapevole impotenza, i poliziotti proposti alcuni anni dopo da Friedrich Dürrenmatt, in titoli come Il giudice e il suo boia o La promessa. Mentre lo stesso Lang chiuderà definitivamente i conti col dr. Mabuse circa trent’anni dopo, al suo ritorno in Germania.
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