Durante il mio primo anno da editore mi scrisse un uomo, età imprecisata, si firmava con una strana sigla, e quando gli dissi che gli serviva un nome se voleva farsi pubblicare, se ne inventò uno lì per lì, apposta per me: Pietro Pietraviva. Con quel nome ce l’ho ancora salvato sul telefono. Disse che ci aveva scelto proprio per il nostro nome, che «puzzava di empirismo». Io all’inizio pensai fosse un burlone, poi mi resi conto che era matto seriamente. Eppure mi stava simpatico. Pietro mi spedì in visione tre opere, due romanzi e una raccolta. Tutte e tre, nel contenuto, inneggiavano a Satana, col quale il protagonista intesseva un rapporto da adepto, spinto fino all’omicidio inteso come sacrificio rituale. Mi disse anche, nel profluvio di menzogne che si inventava lì per lì con un talento straordinario, che avremmo di certo sbancato nell’America di Kerouac, appena ci avessero tradotto il primo romanzo, ma che per quello gli servivo io, perché lui era sorvegliato a vista, non da Satana ma dalle guardie, essendo stato rinchiuso per aver accoltellato un uomo durante un raptus omicida. Un po’ mi affascinava e un po’ mi faceva pena, Pietro. Di certo non lo avrei mai pubblicato, ma a un certo punto abbassai la guardia e lui prese a chiamarmi al telefono ogni singolo giorno, affetto com’era dal male dei secoli: la solitudine. Lui, puntualissimo, mi chiamava dalle tre e un quarto di ogni pomeriggio, quando gli ridavano il telefono che per il resto del giorno gli era stato vietato, e in quei circa 45 minuti d’aria che gli erano concessi, Pietro mi «sequestrava» per parlare un po’ con uno del mondo esterno. Ci teneva a raccontarmi i suoi sogni, le sue letture, i suoi problemi con le sigarette, oppure fatti reali che però erano sempre evidentemente travisati da visioni, esagerazioni e menzogne, e in ognuno dei quali finiva immancabilmente per «sbudellare» con un coltello qualcuno o qualcosa che lo aveva irritato. Altre volte veniva preso da crisi di autocommiserazione e vittimismo, piangeva al telefono, con grande astuzia, per evidenziare le proprie disgrazie, oppure di contro si esaltava all’improvviso perché, grazie ai suoi rapporti intimi con Satana e con me, il suo amico editore, avrebbe conquistato l’America di Kerouac. Finché un bel giorno, forse incoraggiato dai miei silenzi complici, Pietro Pietraviva non cominciò a chiedermi con insistenza dove vivevo, prima per spedirmi delle cose fatte da lui, poi perché voleva venirmi a trovare. Ai miei tentativi di svicolare dall’indirizzo, però, lo feci infuriare, cominciò a insultarmi pesantemente e mi disse di non provare a fregarlo, altrimenti mi avrebbe sbudellato. La prima volta che mi minacciò di uccidermi al telefono rimasi zitto, alla seconda gli dissi di finirla o lo avrei mollato, ma alla terza gli chiusi il telefono in faccia e da allora ho smesso di parlargli. Ci vollero sei mesi perché la finisse di provare a chiamarmi. E anche dopo, ogni tanto, a sorpresa, ho rivisto il suo nome accendersi sul display del telefono. Ma senza rispondergli. Sei anni dopo, ero a Firenze, su sollecitazione di un amico, installai Telegram sul telefono. Dopo nemmeno dieci secondi mi vedo arrivare il primo messaggio, un messaggio di Pietro Pietraviva: «Io ti conosco! Tu non hai accettato nessun mio libro. Sei un fallito. Ti ho spedito documenti, materiale, scienza, empirismo, poemi. Io sono uno dei migliori della storia, empirista pure. E diventerò ricco prima o poi! Sei un fallito, ok? Non si poteva manco più parlarti. Taci adesso. Per sempre. Ti blocco pure». E mi blocca. Stamattina, infine, dopo altri due anni, mi vedo arrivare un nuovo messaggio: «Ciao Pietraviva, sei ancora vivo tu? Io sono Pietramorta ormai. Esattamente. Mi pubblichi o no?»
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