lunedì 31 agosto 2020

una gran bell’idea

Tutto è puro per i puri, diceva San Paolo, e forse tutto è poesia per i poeti, e ancora più per i non poeti. Scrive, Franco Bifo Berardi nel primo capitolo del suo Respirare. Caos e poesia (Sossella, 2019) – dove si discute, fra le altre cose, di poesia come rimedio e rivoluzione per il caos odierno: «La poesia è un atto di linguaggio che non può essere definito, perché definire significa porre un limite, e la poesia è per l’appunto eccesso che va oltre il limite del linguaggio, che è anche il limite del mondo». Molto bello. Ma se in un libro effettivamente pieno di intuizioni com’è questo – a cominciare dall’assunzione della mancanza di respiro come metafora ultima della nostra epoca, dallo «I can’t breathe!» pronunciato da Eric Garner ben prima dell’omicidio Floyd, al disastro economico e ambientale che si estende, oggi, fino alla pandemia che attacca le nostre vie respiratorie – gli unici poeti sviscerati sono gli ottocenteschi Hölderlin e Rilke (più i primonovecenteschi Yeats e Dylan Thomas, ma con meno spazio) lì dove invece ci si spinge in altri ambiti a trattare opere e autori contemporanei, come Freedom di Franzen, Carnage di Polanski o Black Star di Bowie, non è un po’ come abdicare all’idea diffusa che ormai il termine “poesia” si sia fatto mero aggettivo, che la poesia si faccia altrove, in altri ambiti, non è più campo d’azione di chi scrive in versi, inadeguati a trattare una realtà complessa, ma di chi utilizza forme e linguaggi “contemporanei”? Ci può anche stare come teoria, ma che senso ha allora dire che la poesia è il rimedio, se per esprimere quanto sta accadendo oggi poi mi rivolgo al cinema? Devo forse pensare che, per il fatto che la poesia non ha limiti, il cinema e il rock siano un sottogenere della poesia (dibattito stravecchio)? Ma questo non è svilire cinema e rock nelle loro potenzialità di linguaggio? E va bene che la poesia non ha limiti, ma se tutto è poesia, allora cosa non lo è? O devo invece concludere, assai più semplicemente, che Bifo Berardi parli e scriva di poesia come salvezza dal caos, senza aver letto i poeti contemporanei? Ovvero ribadendo ancora una volta l’amara verità: che quella della poesia come rivoluzione è una gran bell’idea, ma la poesia, come sempre, è meglio dirla che leggerla?

domenica 30 agosto 2020

tg domenicale

Quando eravamo giovani noi – dice mio padre mentre guardiamo il Tg – il mondo andava a fuoco proprio come adesso, non è cambiato nulla, ma tu sapevi che se ti impegnavi potevi aggiustare le cose. Adesso il mondo continua ad andare a fuoco, ma l’unica maniera di aggiustare le cose è spararsi un colpo in fronte.

(E non ha letto nemmeno Majakovskij).

la fama

La fama è una donna di buona memoria. Se non ti nomina è perché ce l'ha con te.
Ho sognato che me lo diceva una donna. Un sogno tremendo, anche perché la donna continuava a chiamarmi Michele.

venerdì 28 agosto 2020

anniversario


Stamattina Michele Pentassuglia mi ha detto che il prossimo mese – per uno di quegli strani casi del destino, mese di elezioni – cade il cinquantesimo anniversario del suo insediamento come sindaco di Locorotondo, anno 1970. Michele, che a onor del vero all’epoca aveva la pelle scura e i basettoni neri e sembrava venuto fuori da qualche saga siciliana di Sciascia, aveva 35 anni ed è stato uno dei sindaci più giovani della nostra storia. Era democristiano ma la sua candidatura causò una pesante spaccatura all’interno del suo stesso partito: lui allora, cosa inaudita per l’epoca, cercò l’accordo con socialisti e comunisti. Ma Michele va ricordato soprattutto perché fu il primo a muoversi per intercettare, attraverso Aldo Moro, dei finanziamenti europei (si parla di miliardi) con cui venne ridisegnato l’intero paese, portandovi quello che per l’epoca era “il futuro”. Nel giro di circa vent’anni, Locorotondo passò dall’essere un piccolo centro contadino senza strade, senza luce elettrica, senza rete idrica né fognature, al paese benestante che è oggi (ma senza tacere gli strascichi negativi del boom edilizio). A me Michele dice: “Le cose quando le pensi le devi anche dire (sottinteso: devi avere le palle di dirle), perché se le pensi è basta non se ne fa niente nessuno”. Ecco, io penso a quel sindaco giovane, spregiudicato, dinamico e proiettato in avanti, che nel sud del sud (dove eravamo) andava a cercarli i soldi per fare le cose invece di aspettare che gli piovessero dal cielo, con delle idee, un progetto politico e dei risultati, e dico che andrebbe ricordato e bene questo anniversario, sia perché ha segnato un nuovo corso per il paese, sia come esempio di una politica che tutti decantano come qualcosa che prima o poi “si farà” ma che a in realtà si è già fatta, persino qui, solo che ce ne siamo scordati.

incontri notturni

 


martedì 25 agosto 2020

uno sguardo sul condominio s.i.m.

 
Forse faccio ingiustizia all’ultimo libro di Alessandro Canzian, Il condominio S.I.M. (edito da stampa2009 con prefazione di Maurizio Cucchi) ma, per esperienze personali, ogni volta che ne leggo il titolo tendo sempre ad assimilare quel S.I.M. (Società Immobiliare Maniaghese) a C.I.M., vecchia sigla che indicava i centri di aggregazioni per persone con disturbi psichici.
Non che è personaggi raccolti in questa piccola antologia di ritratti siano particolarmente folli, però l’azione che più spesso ritorna fra i capitoli, a parte quella implicita di osservare/sbirciare le azioni degli altri, creando un continuo stato di ansia nel lettore, è legata al gridare/urlare/sgridare e ascoltare queste urla attutite attraverso i muri. Né vengono nascosti i continui riferimenti alla sfera sensoriale dell’olfatto – fra escrementi e sangue, il continuo odore di pioggia, il marcire delle foglie – che legano il tutto a una dimensione ridotta, quasi ferina dell’uomo, dove la sopravvivenza la fa da padrone sull’idea stessa di vita, specie nelle scene di sesso o accoppiamento che hanno completamente sublimato qualsiasi rapporto amoroso. Si avverte dovunque un continuo senso di chiusura e di stanchezza, misto a una buona dose di inquietudine, di violenza repressa ma sempre pronta a esplodere nelle vite degli otto protagonisti, a cui si deve aggiungere quella della voce narrante, ennesimo condomino che non ha una vita propria da descrivere, ma si realizza nelle storie degli altri che osserva e racconta con partecipazione a tratti voyeuristica, a tratti intrisa di simpatia e pietà, ciò che più rasenta l’amicizia in queste pagine.
Rispetto a La ragazza Carla che pure viene tirata in ballo fra le pagine – anche se i maggiori contatti li ho trovati con la poesia di Giampiero Neri –, opera che mostrava una maggiore carica sarcastica, qui mi pare ci sia una più forte adesione al dato crudamente realistico, dalle tinte livide, a cominciare dalla scelta di una ambientazione assolutamente verosimile – non so quanto reale – segno della volontà di Canzian di attenersi a un discorso lineare, minimo, duro a volte ma di grande immediatezza espressiva, persino nella scelta di un verso piano e privo di orpelli, diretto, di forte aderenza visiva, spesso ficcante nella precisione con cui inquadra i particolari minimi di questi piccoli sketch intorno a vite consumate nella solitudine.
Così, da un punto di vista propriamente sociale, se quella di Pagliarani denunciava le deformazioni del boom economico milanese, quella di Canzian all’opposto denuncia lo stato di alienazione quasi claustrofobica di un certo nord est alla fine del boom, quando le promesse del lavoro non riescono più a colmare i vuoti del cuore. Non uno dei personaggi del Condominio – se non quello narrante che poi in sostanza è anche il più nascosto al nostro sguardo – riesce a entrare in contatto con gli altri, ognuno debitamente inquadrato nel proprio capitolo-appartamento e incapace di una apertura al proprio vicino, di un’azione verso l’altro: all’unico che ci prova, Alberto, è destinata la fine più cruenta e per certi versi “scontata”.
È un altro degli elementi che, tirando ancora in ballo il mio vissuto – ingiustamente, lo riconosco –, ho sentito stridere con più forza e un po’ di insofferenza; dove qui a Sud tale chiusura sarebbe stata quasi impossibile, si sarebbe subito risolta in un contatto non solo visivo, ma fisico, concreto, ciarliero, poroso, a tratti anche invasivo della privacy, questo ai più introversi personaggi di Canzian non potrà mai succedere, e da lì nasce il loro dramma. 
 
Cinque poesie dal libro:

*
Ieri era Olga, domani Carla.
Il nome non ha importanza
nel trascorso del racconto, il
dolore è pari al suo piacere
oltre il tappetino che divide
il tessuto molle della vita.
Si prega di bussare per entrare.

*
Carlo questa notte credo
abbia fatto l’amore – dopo
un limoncello a trenta gradi –.
Non aveva volto la ragazza, solo
piedi lunghi e capelli ben curati.
e grida di un animale in gabbia
che non sa uscire dalla vita.

*
Giulia oggi mi ha stupito.
Nella corsa per le scale si
stringeva contro il muro
con lo sguardo che aspettava.
La stessa gonna indossata ieri.
Finché guardandomi ha detto:
“dai, mi scappa la pipì”.

*
Silvio amava leggere poesie
ma non le finiva mai davvero.
Doveva saltarne un verso, due,
per capirne il senso. Come
con le donne, che non riusciva
mai a guardare intere.

*
Quando piove l’entrata
Del Condominio è tutta
un brulicare di foglie, urla,
bambini – una volta
ho trovato una cucciolata
già morta –. Parlo
da sola come i matti, lo so. 


(Nell'immagine: Edward Hopper, Eleven A.M., 1926)

lunedì 24 agosto 2020

dalle lotte di classe non si salva nessuno

IO: Mi sono rotto le palle del fetido ambiente degli scrittori italiani...
MIO PADRE (ferroviere in pensione): Perché, tu pensi che quello delle ferrovie invece profuma?

domenica 23 agosto 2020

la crepa (the crunch)

troppo o
troppo poco

troppo grasso o
troppo scarno
o nessuno.

ridere o
piangere

chi t’odia
chi t’ama

estranei con facce come i
culi delle
puntine da disegno

eserciti che si fanno largo in marcia
su strade di sangue
sbandierando bottiglie di vino
e fottendo di baionetta
le vergini.

o un vecchio in una stanza modica
con una fotografia di M. Monroe

è così vasta la solitudine di questo mondo
che puoi osservarla nel lento movimento delle
lancette di un orologio.

gente sfinita
mutilata
dall’amore o da nessun amore.

ma davvero faccia a faccia la gente non è buona
l’un con l’altra.

il ricco non è buono con il ricco
il povero non è buono con il povero.

e ciascuno ha paura.

il sistema educativo c’insegna
che possiamo avere tutti
culo a vincere.

ma non ci ha mai parlato
delle fogne
o dei suicidi.

o del terrore di una persona
che soffre in una stanza
da sola.

incontaminata
inespressa a

dare acqua a una pianta.

la gente non è buona l’un con l’altra.
la gente non è buona l’un con l’altra.
la gente non è buona l’un con l’altra.

e credo che mai lo sarà.
né gli chiedo di esserlo.

ma delle volte ci penso
a.

le perle del rosario oscilleranno
le nuvole adombreranno il cielo
e il killer decapiterà il bambino
come si spicca con un morso il capo ad un gelato.

troppo o
troppo poco

troppo grasso o
troppo scarno
o nessuno

chi t’odia supera chi t’ama.

la gente non è buona l’un con l’altra.
forse se lo fosse
la nostra morte non sarebbe così triste.

intanto guardo le ragazze
i giovani steli
fiori nati da una chance.

dev’esserci un modo.

dev’esserci di sicuro un modo a cui non abbiamo
pensato.

chi mi ha messo in testa questa convinzione?

che piange
e invoca
e dice che abbiamo una chance.

alla quale non dirà mai di
“no.”

(Charles Bukowski, traduzione mia)

la cultura non salverà un bel niente

Inizio a non sopportare più quelli che dicono che la cultura salverà questo paese. Siamo tutti moralmente convinti che la cultura salverà questo paese, ma non si capisce come, forse scendendo dal cielo come una fiammella sulle nostre teste, come fa lo spirito santo. Forse ci crediamo anche, ma è appunto una convinzione ottimistica, un dovere morale più che una gioia del cuore, quasi un impegno, come una volta era un dovere andare a messa la domenica mattina. E gli impegni pesano, tanto più che, fondamentalmente, a noi della cultura non ce ne frega nulla, siamo onesti. Così la deleghiamo ad altri, in modo da sentirci la coscienza a posto perché qualcuno ci deve pensare e ci pensa anche per noi; e ogni tanto ricordandoci, con piglio affaristico, di chiedere un rendiconto dei risultati, anche economici, con tanto di premialità aziendale per i generi più redditizi: la cultura del cibo ad esempio è sul podio, enormemente più prestigiosa di quella del libro, che non è nemmeno l’ultima della lista; il cinema se la passa male, la musica così così, come la poesia, ma sempre meglio del teatro, che è quasi morto; il teatro d’opera è morto del tutto ma resta lì come un santino; quella paesaggistico/architettonica non è più nemmeno considerata cultura: tanto è vero che è soggetta senza vergogna da più di settant’anni a scempi di ogni tipo, dall’abusivismo edilizio delle periferie, alla distruzione di massa di opere già esistenti ma che “non vediamo più” in questo paese che un po’ è un cantiere a cielo aperto e un po’ un porcile senza muri di contenimento. Cantiere e porcile ogni tanto si incontrano e lì periodicamente succede qualche disastro che ci ricorda come l’etica non sia soltanto una parola da cercare sul vocabolario, prima di tornare nel dimenticatoio della cultura. Ma tutto questo succede sempre e soltanto per causa nostra, perché a furia di delegare gli altri di cose che dovrebbero starci a cuore, dimenticandoci di preciso cosa abbiamo intorno, ci siamo fatti tutti ciechi, e allora abbiamo cominciato ad affidarci alla santa provvidenza che prima o poi scenderà dal cielo e risolverà ogni cosa, ogni bruttura. Se questa nostra povera cultura è ridotta ormai a un commercio della fede – una cosa indegna perché la riduce, la depotenzia –, se è ridotta all’osso, all’elemosina, alla pietà dei poveri, è perché a parole sì, ma non l’amiamo, ci sta sul culo più che nel cuore, ci pesa pure il nome. Uno dice cultura e l’altro sbuffa! E non lo dico ai politici, non lo dico ai potenti, lo dico a mio padre, al mio vicino, al mio migliore amico, al mio futuro sindaco, al fruttivendolo, a quello che mi commenterà questo post (se arriverà a leggerlo tutto), perché io la vedo ogni giorno, sulla mia pelle, la differenza che passa fra chi dice di amare i libri e chi li legge davvero. L’amore fatto a parole è tanto bello ma è una finzione. La cultura non salverà un bel niente, fidatevi, è già tanto che si salvi Lei da noi.

sabato 22 agosto 2020

con che occhi mi guarda: sull'imperfetto di cesare viviani

 

Ora tocca all’imperfetto di Cesare Viviani (Einaudi, 2020) è un’opera di grande sobrietà, quasi scarna dal punto di vista estetico, cosa che farà arricciare il naso ad alcuni, ma dall’indubbia perfezione formale (ogni verso è lavorato di cesello), che riesce nell’impresa di essere a un tempo tanto semplice alla prima lettura, con un vocabolario immediato e componimenti brevi o brevissimi di carattere gnomico, quanto profonda nei contenuti che vanno spingendosi, attraverso le umane esperienze della perdita e della creazione artistica, fino all’esplorazione filosofica del tempo e della presenza del divino (non a caso a nume tutelare della raccolta è chiamato Mario Luzi): ricerca di Dio che altro non è che ricerca intorno alla verità dell’esistenza; così da avere necessità, per essere meglio goduta, di una seconda se non proprio di una terza lettura, e di meditazione.

Riporto qui, come estratto, la parte centrale della terzo capitolo del libro (pag. 48-53), dove ogni frammento vive non in se stesso ma nell’intera sequenza, e acquista sostanza nella sua risonanza con gli altri: se questo è vero per ogni raccolta che si rispetti, qui diventa fondamentale. Così, ad esempio, l’apparentemente prosaico racconto della visita all’editore acquista di peso, implicazioni e ironia se letto tenendo conto del distico nella pagina a fronte (su opera, tempo e creatore), e dei versi successivi sullo sguardo dell’uccello: forse d’uno dei due polli finiti dentro una natura morta?  

 

 

*

È nel buio, a notte fonda,

che devi cercare, perché

la luce del giorno nasconde

quello che cerchi.

 

Ed è con entrambe le mani

che devi afferrare lo spirito.

 

Io mi comporto bene solo sulla pagina.

 

 

*

La vita ti fa una ferita

e tu con le dita

vuoi rimediare cucendo,

attento che i margini

combacino.

 

*

Il tempo sorprende il creatore,

non gli fa finire l’opera.

 

*

(Vado dall’editore a presentargli
il mio nuovo manoscritto,
e nella mano sinistra tengo
due bellissimi polli nostrani,
allevati nel modo giusto, all’aperto.
Le segretarie si mettono a ridere,
ma io non capisco e spiego
che i polli sono un dono
per favorire la disposizione d’animo

dell’editore,
per addolcire la pratica.
Le ragazze non capiscono
e mi dicono «aspetti, vediamo se è libero»).

 

*

Con che occhi mi guarda

quell’uccello,

con che occhi mi vede, non si sa,

forse gli stessi

di un ritratto di ignoto.

 

 

*

Sei rimasta sola

a manovrare in casa

per riempire i vuoti,

ma ne chiudi uno e se ne apre

un altro,

non ci sono così tanti libri

da seppellirti.

 

 

(Nell'immagine: Felice Boselli, Natura morta con polli spennati e appesi, 1700-1705)

 

mercoledì 19 agosto 2020

talk radio

«Ho avuto fortuna ad avere una Bibbia con me.
Quando gli alieni mi hanno rapito…»

America, ho strillato alla radio,
anche alle due del mattino sei una gabbia di matti!

No, mi rimangio tutto!
Sei un angelo di pietra in un cimitero

che ascolta le oche nel cielo
con gli occhi accecati di neve.

(Charles Simic, My Noiseless Entourage, trad. mia)

lunedì 17 agosto 2020

ciò che ti serve

 Stamattina, mentre gettavo un fico inacidito nel cestino dei rifiuti, mi è preso un dolore al cuore, una sofferenza per il fico marcio che ho dovuto recuperarlo dal cestino e andare a gettarlo fuori. Che destino è per un frutto – se ne hanno uno – finire ormai maturo e non mangiato fra i rifiuti, ben separato nello scomparto dell’umido, e non per terra sotto l’albero, al fresco e pronto a sciogliersi in concime naturale per la terra? Giorni così penso che è tutto sbagliato, che la frutta non andrebbe nemmeno raccolta, ma mangiata direttamente dagli alberi, per evitare sprechi inutili. Quando hai fame scendi, scegli e raccogli solo quella che ti serve, il resto la lasci sui rami per gli altri. È vero però che è una visione, che non tutti hanno la mia stessa fortuna di avere un albero sotto casa, e allora penso che l’errore è a monte, nel modo in cui pensiamo una città. Servirebbero meno auto, meno parcheggi e più frutteti pubblici, con tante varietà fra cui scegliere, dove andare a prendersi liberamente la frutta dagli alberi a patto che te la mangi lì, sul momento, ciò che ti serve.

sabato 15 agosto 2020

karma

Quest’estate ho fatto un esperimento. Volevo provare questa cosa dell’editoria a pagamento, così ho trascurato per alcune settimane la marea di manoscritti che mi arrivano in attesa di lettura e mi sono dato a quelli che in genere si chiamano poeti amatoriali; e ho passato gli ultimi mesi a fornire “servizi editoriali” (leggere, correggere, impaginare, fare la copertina e le note di copertina) ai loro libri che, sinceramente, non avrei mai pubblicato sotto il mio marchio; ma che gli stessi nemmeno volevano, infatti si sono autopubblicati in tipografia o con Amazon. Ecco, posso dire a conti fatti che non è proprio “avventuroso” come lavorare a un nuovo libro che ti ha entusiasmato e immaginare la forma che prenderà nel tempo, ma ha i suoi indubbi vantaggi, ad esempio quello di non dover inseguire i librai al telefono per farsi rendicontare le vendite, o sbattersi per ore a una fiera per convincere un passante a prendere una copia del libro fino a crederti un adepto della Torre di Guardia. Fatto sta che per la priva volta da che faccio l’editore – sette anni giusti – questo è il primo ferragosto che ho il portafogli pieno. E infatti sono chiuso in casa, acciaccato. La legge del Karma, ho pensato, è una cosa tremenda!

venerdì 14 agosto 2020

ultime storie di mao

 Stamattina mi ha lasciato davanti a casa un bel topo grigio cacciato di fresco, stasera l'ho visto aggirarsi in giardino con un pipistrello in bocca e in mezzo ha trovato anche il tempo per un passerotto, una lucertola e per menarsi con un gatto di strada che ronza qui intorno. Dopo tutto questo Mao, ribattezzato il selvaggio, entra in casa, si lascia cadere per terra e, con la bocca che ha toccato tutta questa natura (topi, pipistrelli, lucertole, pennuti) comincia a leccarmi i piedi...

che succede?

Questi ultimi giorni, confesso, sono stato maluccio, con mal di gola, tosse ecc. ma senza certezze che fosse un male di stagione o altro, e nel giro di pochissimo sono passato per tutti gli stadi sociali possibili, dal mio vicino che vedendomi arrivare mi ha “circumnavigato” per non avere contatti diretti con me a mio fratello che mi ha minacciato (come fa di solito): “Se mi attacchi qualcosa ti uccido prima del COVID!”, agli amici che mi chiamavano al telefono preoccupati: “Che succede? Come stai? Ti hanno già ricoverato?” o più convintamente: “Non voglio tirarti i piedi, ma secondo me è proprio COVID!” Non ho il COVID, non mi ha ricoverato nessuno, ma fra gli altri c’è stata anche moltissima gente che ha minimizzato con grande tranquillità: “Ma va che non è nulla!” oppure “Scià che il raffreddore ce l’ho avuto anch’io!” Il che è certamente possibile, anzi si spera che sia sempre raffreddore. Il punto secondo me è un altro: è che tutti questi amici minimizzavano non perché sapevano – ché nessuno sa nulla di certo a questo punto e tutti schizziamo impazziti da una teoria del complotto all’altra – ma perché semplicemente non potevano e non possono pensare che toccasse a me e di conseguenza a loro. E ho pensato che, al di là delle polemiche sulla strumentalizzazione del virus, è questo che, a un certo punto, ci ha fregati tutti: non il nostro innato ottimismo, ma questa idea che non può mai toccare a me, non può semplicemente MAI toccare a me, perché tocca prima sempre agli altri e gli altri NON siamo NOI. Tutto questo pensiero si è sposato oggi a una dichiarazione di Pier Luigi Lopalco che ho letto poco fa e che in un certo senso mi ha aperto gli occhi, perché sinceramente non l’avevo capita fino in fondo (con tutto che con le parole ci lavoro): cioè che chi prende il virus ma non si ammala e viene chiamato “asintomatico”, termine pulito e quasi asettico che serve a non creare il panico, ci viene quasi presentato dall’informazione come uno che l’ha passata liscia ed è ormai esentato dal danno. Ma questa è una verità parziale che riguarda il danno personale, non quello comunitario (vedi sopra). Un asintomatico, dice Lopalco, altri non è che un “portatore” sano, uno che porta il virus senza conseguenze per sé ma con possibilità di trasmetterlo. E ho pensato che forse, se invece di chiamarli “asintomatici” cominciassimo a chiamarli “sieropositivi” come si usava quanto ero ragazzo io per spaventarci da un altro terribile virus, con l’idea che eri comunque “positivo” a qualcosa e non negativo, ovvero emendato dal male e da responsabilità, qualcosa nella comunicazione cambierebbe.

giovedì 13 agosto 2020

auguri professore

Stasera ho rivisto Auguri professore, un film che quando uscì mi piacque un sacco, mi piace ancora (anche se non sono professore) e anche se a rivederlo mi sono sentito come il Silvio Orlando vecchio e inaridito dopo essere stato il Silvio Orlando giovane e appassionato ma talmente scemo da lasciarsi sfuggire Claudia Pandolfi. Insomma, un disastro di vita spesa per gli altri con una vocazione al fallimento eroico che mi ha commosso e fatto sentire meno solo (anche se non sono Silvio Orlando e anche se la Pandolfi non mi si è mai filata manco di striscio).

nuccio

 

dice arminio

Dice Arminio: "I miei libri hanno vendite fuori quota rispetto alla poesia la cui tiratura media in Italia è sulle mille copie. 'Cedi la strada agli alberi' del 2017 ha venduto 40 mila copie e continua a vendere. 'L'infinito senza farci caso' del 2019 è oltre le 10 mila copie. E 'La cura dello sguardo' il giorno dopo l'uscita ha avuto la prima ristampa". 

Non so quanto siano attendibili i dati, ma io leggo e mi chiedo chi è che stampa più di mille copie di un libro oggi in Italia, escluse Mondadori o Einaudi? Io non lo faccio, non avrei nemmeno dove metterle, ditemi chi lo fa. E mi ricordo lo stesso Arminio che 10 anni fa a una presentazione, quando andai a farmi autografare la mia copia di Cartoline dai morti, quando gli dissi che mi interessavo di poesie mi disse: sei coraggioso, la poesia non vende nulla. Lo disse lui, per esperienza. Quindi non so come abbia fatto, non so cosa sia successo e non credo basti solo un buon ufficio stampa per arrivare a tutto questo, ma sono casomai tante circostanze che si assommano insieme e che secondo me andrebbero studiate, su di lui ma anche sulle esigenze del suo numeroso pubblico. Esigenze che come si è visto a volte lo ingabbiano. Spero sempre in una bella tesi di laurea a tema. Oppure niente, continueremo a dire che se Arminio vende è perché si è venduto e chi lo compra è un idiota, felici dei nostri 25 lettori blasonati ma chiedendo poi all'editore di fare i miracoli per vendere libri che non si vendono.

mercoledì 12 agosto 2020

pubblico una poesia d'amore

Pubblico una poesia d'amore.
Una ragazza mi scrive: Sono io?
R: No, è una vecchia poesia, l'avevo scritta per una mia ex.
E tu esci con me e pubblichi ancora le poesie per le tue ex? Che schifo! Non voglio vederti mai più.
Pubblico una poesia d'amore.
Una ragazza mi scrive: Sono io?
R: In alcuni versi c'è qualcosa di te...
Come sarebbe a dire c'è qualcosa di me? O sono io oppure no! Mica ci sono le vie di mezzo in amore...
Pubblico una poesia d'amore.
Una ragazza mi scrive: Sono io?
R: Sì, sei proprio tu.
Però non mi riconosco mica tanto. È una poesia triste. Mica sono triste io. Perché mi hai descritto male?
Pubblico una poesia d'amore.
Un ragazzo mi scrive: Sono io?
R: No che non sei tu, è per una ragazza...
Peccato, volevo che qualcuno mi scrivesse una poesia. Ci ho sperato fino all'ultimo...
Pubblico una poesia d'amore.
Una ragazza mi scrive: Sono io?
R: Sì, sei tu.
Ah menomale, perché leggendo non ci ho capito nulla...