venerdì 29 marzo 2024

sogno della valigia

Nel sogno devo partire per il prossimo viaggio e per questo tutti i miei amici vengono a trovarmi a casa per salutarmi. Le sedie non bastano per tutti, così le cedo a loro e resto seduto per terra, a gambe incrociate, accanto alla mia valigia che è talmente grande e appariscente da sembrarmi volgare. Parlo con tutti con piacere sincero e dedico a ciascuno un sorriso, persino a chi mi rinfaccia di trovarmi eccessivamente dimagrito e stanco provando a passarmi un piatto di minestra. Soltanto dopo, quando arriva l’ora di andare mi accorgo che le mie gambe non si muovono, si sono addormentate. Così i miei amici che sembrano già sapere tutto mi aiutano. Aprono la valigia, che è vuota, mi prendono con cura per non farmi male e mi depositano al suo interno, accomodandomi gambe e braccia e richiudendola con la sicura. A questo punto non vedo più nulla, sento le scosse e i rumori del trasporto mentre vengo accompagnato verso non so dove, e mi rendo finalmente conto che se è vero che dovevo partire non conoscevo ancora la meta. Sono lucido nella valigia e questo mi spaventa. Sospetto addirittura di essere morto. E se la morte fosse questa perenne vigilanza anche dopo che ti hanno rinchiuso al buio, sarebbe orribile. Per fortuna si sentono molti rumori di strada e questo mi fa compagnia. Ma la valigia viene riaperta e mi ritrovo in una nuova stanza piena di gente che non conosco, seduta o in piedi, che parlotta distratta di fronte a me. Qualcuno mi tira fuori dalla valigia e poiché non ho più forza negli arti, che ricadono giù come se fossero disarticolati, come se io stesso fossi ormai trasformato in un burattino, mi depositano per terra, con le spalle appoggiate contro la valigia, e mi richiedono di descrivere la mia storia e parlare di come sono arrivato fin lì. Io lo faccio al meglio che posso, o perlomeno ci provo, ma la gente non mi ascolta, eppure ogni volta che ho finito qualcuno dal pubblico si volta a guardarmi e mi chiede: Scusa, non abbiamo capito, puoi ripetere? E a me, anche se sono intimidito, per una sorta di meccanismo interno o forse soltanto perché non mi sento pronto a tornare nella valigia, prende la voglia di fare meglio e ricomincio a raccontare da capo.

giovedì 28 marzo 2024

parola e libertà

Oggi parlavo con dei ragazzi del fatto che non è il lavoro a renderti libero, come spesso si dice, ma la parola. Il lavoro è un diritto, è una necessità che serve a soddisfare dei bisogni primari, si lavora per mangiare e avere una casa, quindi è importantissimo, ma nella maggior parte dei casi non ti rende libero e spesso nemmeno felice. L’unica libertà possibile riservata all’uomo è nella parola, nell’espressione incondizionata delle proprie idee, magari è una libertà fugace e senza conseguenze, ma nel momento stesso in cui ti esprimi ciò ti rende libero. Quindi è una cosa che va difesa per sé e per tutti, anche per chi ti dice che non capisci niente. Se poi la parola è scritta, e se è scritta bene, ho aggiunto, è meglio ancora. Ma lì mi sono fregato. Una ragazza infatti mi ha chiesto: scusa Lillo, ma se io scrivo non per dire il mio pensiero agli altri, ma per me stessa, perché se non lo faccio sto male, mi sento di scoppiare dentro se non lo faccio, anche quella è libertà? È stata una bella domanda. Infatti ci sto ancora pensando.

mercoledì 27 marzo 2024

poesia civile oggi

Quando mi dicono che in Italia non c'è più spazio né modi per la poesia civile mi viene da rispondere certo che c'è: Altan, Marco Biani, Maicol&Mirco... fanno loro per tutti. E infatti i primi a condividere sono proprio i poeti. Riconoscono il respiro, anche se gli manca il verso.

martedì 26 marzo 2024

quando sarai libro

"Quando sarai libro" mi scrive un amico per un lapsus. Intendeva "libero", ma essere libro, diventarlo, potrebbe significare anche una certa forma di libertà. Questo pensavo ieri, finché mio cugino non mi ha chiesto di scrivere un libro della sua vita, quello che sognano di fare tutti e che ormai non puoi più negare a nessuno perché gli unici libri di narrativa che vanno sono quelli di autofiction. Se non hai raccontato i fatti tuoi in un libro allora non sei nessuno come narratore, non ti vuole nessuno. Mi diverte perché questa è la cosa che più spesso si rimprovera alla poesia, di essere diventata eccessivamente autoreferenziale. Il romanzo vende qualcosa di più ma non si stacca dall'adagio comune che per "essere libro" bisogna prima di tutto essere libro aperto, e calarsi le mutande con stile. Solo lo stile fa la differenza. Poi qualcuno che sbircia dal buco della serratura lo trovi sempre.

domenica 24 marzo 2024

dare scandalo

 C’è un momento esilarante e allo stesso tempo tragico nella lunga carriera di Molière di cui parla Cesare Garboli nel suo ultimo libro (Il «dom Juan» di Molière, Adelphi, 2005), ed è quando all’apice del successo come commediografo e impresario teatrale, dopo aver creato una maschera nuova e inaudita, quella di Tartufo, il servo che vuole farsi padrone e che deruba il proprio protettore di ogni suo bene attraverso l’astuzia e l’inganno – perché diversamente dai vari Arlecchino e Pulcinella, servi sciocchi che sanno stare al loro posto, Tartufo è una maschera modernissima, già borghese ed inserita nelle lotte di potere e che per di più indossa la tonaca, si dice in contatto con Dio! – al punto da creare uno scandalo a corte con la censura dell’opera e la richiesta da parte del re in persona, Luigi XIV, di una riscrittura che porta il copione originale da tre a cinque atti dove la nobiltà ingiustamente usurpata riesce a ribaltare la situazione e riprendersi il maltolto, restaurando (ancora per poco) l’antico regime; dopo questo scandalo, cercando di mettere una pezza alla programmazione dissestata della prossima stagione teatrale, Molière scrive in quattro e quattr’otto una nuova commedia in cui non crede molto nemmeno lui, attorno a una maschera spagnola giunta in Francia attraverso l’Italia, quindi per nulla originale, quella del libertino Don Giovanni, dunque non un servo ma un padrone stavolta, riadattandola qui è lì ma in modo tale da farne, quasi inconsapevolmente, lo specchio di una nobiltà orrendamente libera, arrogante, vuota di valori e priva di onore e peggio ancora di religione, più volte apertamente derisa, insomma qualcosa che la nobiltà dell’epoca avrebbe potuto essere se fossero caduti tutti i veli cerimoniali e le imbellettature dietro cui si nascondeva. La commedia è un successo strepitoso di pubblico presso la classe cittadina, ma dà di nuovo scandalo a corte, viene intesa come una satira del potere dunque in piena continuità col Tartufo, al punto che Molière, ormai considerato un sovversivo, ne viene quasi rovinato e addirittura processato. Ed è qui che sta il lato esilarante della faccenda, perché Molière non era un sovversivo, ma un autore di successo strettamente legato agli ambienti di corte da cui dipendevano le sue fortune, non aveva alcun interesse a irriderla e tutto questo, infatti, succede contro la sua volontà, senza che lui ne capisca davvero le ragioni, in quanto personalità come la sua non si inventano a tavolino “lo scandalo”, non ne hanno bisogno, lo danno semplicemente esistendo, respirando, pensando, facendo ciò che vogliono fare senza troppe esitazioni, ma solo perché “funziona in scena” dunque rende più forte lo spettacolo. Ci dice Garboli: “La vera accusa, che precede quella di empietà e di offesa alla religione, è di «dare scandalo», cioè di portare in scena e di mettere davanti agli occhi del pubblico ciò che le regole della decenza vogliono seppellito, sussurrato o taciuto. […] Quando Molière si difende dall’accusa di empietà invocando i diritti della professione, non mente affatto e non fa affatto l’ipocrita. Dice proprio la verità. Solo che, nel medesimo istante, difende il proprio diritto a dare scandalo. Difende il suo diritto di inventore del teatro moderno”. Molière insomma voleva solo fare arte, realizzare un’opera che facesse ridere gli spettatori, ma captando gli umori del tempo e usandoli a vantaggio della propria opera fa molto di più, scuote nel profondo la società dell’epoca punzecchiandola nelle sue ipocrisie. E tale fu l’onda di risentimento che lo sommerse che rimase solo, perse ogni amico, compagno, perse addirittura la moglie, al punto che poi riversò il suo malumore in un’opera dedicata alla falsità e alla volubilità degli affetti, il Misantropo, presentandolo come la fine di un periodo (e forse della vita), e non sapendo che ne avrebbe aperto un altro.

sabato 23 marzo 2024

parallelo

Film commovente, di grandissima bellezza visiva, La viaccia (1961) di Mauro Bolognini, con Jean Paul Belmondo, Pietro Germi e una Claudia Cardinale al culmine della sua bellezza, segna il passaggio dalla sua prima fase artistica, più originale sul piano dei contenuti attraverso le sceneggiature, spesso di Pasolini, alla seconda, dove si attiene a realizzare raffinate trasposizioni di opere letterarie, spostando il contenuto sullo stile, dove insomma il contenuto è lo stile. Non a caso il confronto con Visconti. Qui però le atmosfere rimandano ancora alla prima fase più nichilista e pregna di mal di vivere delle sue più recenti pellicole con Pasolini (non a caso torna la Cardinale come nel Bell’Antonio a dare volto a un amore tanto necessario quanto impossibile da trattenere). E infatti, lancio un parallelo, secondo me il finale con Jean Paul Belmondo che dopo aver dichiarato a sua madre che non può vivere senza di lei, attraversa correndo Firenze per rivederla sulle note della “Rapsodia per sassofono e orchestra” di Debussy ha secondo me una eco nel successivo Manhattan (1979) di Woody Allen, dove l’identica scena si ripete a New York sulla “Rapsodia in blue” di Gerswhin. Nel film di Bolognini questo amore è già segnato e infatti Ghigo (Belmondo) riuscirà a rivedere Bianca (Cardinale) scomparire dietro un vetro prima di allontanarsi per sempre, nel film di Allen, pur nell’imminente separazione, Allen offre una speranza a questo amore nell’ultima battuta di Tracy (Mariel Hemingway), “bisogna avere un po’ fiducia nella gente” e nel mezzo sorriso di Allen, uno dei suoi pochissimi su pellicola, che sembra quasi fare il verso a quelli così vulnerabili del giovane Belmondo.

post strega

Stamattina volevo scrivere un post sul Premio Strega Poesia. Questo perché una ragazza mi ha scritto di aver letto uno dei libri proposti e avendolo trovato brutto e insignificante non si capacitava della cosa, com’è possibile che un libro così brutto sia finito allo Strega? Mi piaceva l’idea di spiegarglielo per bene, perché non pensasse che anche gli altri libri potessero essere altrettanto brutti e insignificanti, alimentando un’idea fin troppo diffusa che non ci sono più buoni libri di poesia in Italia, cosa ASSOLUTAMENTE NON VERA anche se i primi detrattori del genere sono proprio i poeti che comprano poco, leggono meno ma parlano male di tutti; poi mi è passata la voglia di giustificare meccanismi che nemmeno io capisco, né approvo, non il premio in sé che è un premio come tutti gli altri per quanto imbellettato, ma più vicino alla patacca che al prezioso, ma proprio per come viene fatto, con una serie di difetti alla base che non sto a elencare perché tanto è inutile, nel mondo della poesia tutti sanno tutto ma fanno finta di niente come la folla che applaude il re nudo, poi ogni tanto qualcuno dice qualcosa di un poco scomodo e tutti esultano “oh finalmente qualcuno lo ha detto!”, e tu mio caro esultante non lo sapevi già che avevi bisogno di qualcuno che facesse la voce per te? Quindi preso dallo sconforto, tanto più che ero in fila in farmacia, le ho detto per sommi capi la verità, che per me il Premio Strega Poesia è un premio di serie B al punto che non ha nemmeno amici della domenica bensì editori della domenica che presentano i libri al ribasso, tanto per dire che ci siamo, e l’ho chiusa lì con un lieve senso di colpa perché le cose andrebbero spiegate meglio di come ho fatto io, altrimenti diventano lamentazioni e giudizi sommari, ovvero “chiacchiere e distintivi” da poeti della domenica come ce ne sono anche troppi in giro.

giovedì 21 marzo 2024

dalla cina

Giornata mondiale della poesia. Mi scrivono sulla chat della casa editrice per segnalarmi il profilo della loro azienda cinese che produce zappe da giardino e dicono: Questo può certo interessarvi!

partecipazione

Sullo schermo Jorge Riechmann un poeta spagnolo che sceglie di non usare più l'automobile né I'aereo per non partecipare nel suo piccolo all'inquinamento del pianeta, non essere complice. Un poeta italiano, lo so già, di fronte a tale decisione, lo definirebbe un coglione e/o illuso e aggiungerebbe che con una simile coerenza non salvi nessuno e ti complichi la vita, serve una rivoluzione, abbattere i padroni, che sono i veri colpevoli, ma nel frattempo non farsi riempire la testa di cazzate ambientaliste e vivere con ciò che si ha, senza rinunciare a nulla. Non potendo partecipare alla salvezza collettiva del mondo, che è una utopia, il poeta sceglie di partecipare alla sua distruzione, nel suo piccolo, come può.

mercoledì 20 marzo 2024

l'odore della poesia

«Poesia viene da pus» scrive Magrelli in Exfanzia, «poetare-suppurare-suppoetare», e a me viene da pensare, per associazione, a Filottete, l’arciere greco protagonista di una tragedia di Sofocle che viene abbandonato su un’isola deserta da Ulisse, mentre sono diretti a Troia, perché ha una gamba in cancrena che emana dalla ferita purulenta un odore orribile, un odore di morte in vita insopportabile; e che poi dieci anni dopo Ulisse stesso andrà a recuperare perché una profezia rivela che senza di lui e senza il suo arco infallibile la guerra di Troia non potrà essere vinta. Facile immaginarsi, a questo punto, come Ulisse, l’astuto Ulisse, sia il mercato editoriale teso alla conquista della città nemica (la letteratura) in cui è custodita la bellezza (Elena), e Filottete malmesso e zoppicante, ma pur sempre quello con la mira più lunga, sia la poesia abbandonata al suo destino mortale perché considerata inutile alla guerra. Eppure i presagi sono chiari, non c’è vittoria senza poesia, e allora bisogna tornare indietro, riprendere i rapporti, scusarsi, patteggiare, lusingarlo, ingannare se occorre l’orgoglio offeso del ferito, almeno stando a Sofocle. E sopportarne soprattutto l’odore mefitico, l'odore della poesia.

due bacheche

Quando nella stessa giornata leggi prima uno scrittore piuttosto seguito che sulla sua bacheca nomina Lorenzo Calogero descrivendolo per ciò che era, un grande poeta ammirato da Ungaretti e Montale ma dimenticato dai più, tanto che sotto c'è chi osserva stupito "non lo conoscevo" e tu pensi (mordendoti pure la lingua): "Per forza, era calabrese", però non è colpa loro, alla fine nemmeno i meridionali lo sanno cosa c'è in Calabria, e allora come fai a incolpare gli altri? E poi un altro che giustamente si lamenta che quando chiede ai suoi contatti di indicargli quali sono i capolavori letterari dell'anno ognuno gli propina una lista di venti trenta titoli, come se i capolavori li potessi cogliere dall'albero come le mele. Ecco lo iato che fa la differenza, quello per cui gattopardescamente 2+2 non fa mai 4 ma tutto sempre torna, a fare i conti, in quell’atomo opaco del male per cui tutto è capolavoro, per chi ne capisce, e nessuno è genio, e si merita per questo di morire solo.

un buon sceneggiatore

Ci sono incontri che ti cambiano la vita anche sotto il profilo artistico. A volte preso in giro come un Visconti minore, Mauro Bolognini fa parte di quella schiera di registi tecnicamente molto dotati ma che hanno bisogno di un buon sceneggiatore per risplendere. Nel suo caso il personaggio chiave della sua filmografia è stato Pier Paolo Pasolini che prima ancora di fare egli stesso del cinema aveva lavorato come comparsa e sceneggiatore con Mario Soldati e Federico Fellini. Con la collaborazione di Pasolini, che per lui scrisse e adattò alcuni soggetti assai innovativi per l’epoca, Bolognini ha dato vita al periodo artisticamente più rilevante della sua carriera, quello fra la fine degli anni ’50 e i primi ‘60, con titoli come Giovani mariti (che fa il verso a I vitelloni), La notte brava, Il bell’Antonio e il più volte censurato La giornata balorda. Dei quattro i più belli sono probabilmente i due centrali, con La notte brava, interamente scritto da Pasolini, che è un film straordinario, dal ritmo forsennato, che attinge tanto al noir americano quanto alle atmosfere borgatare e al mal di vivere tipici di Pasolini, e Il Bell’Antonio che riprende la trama di Brancati ma la rielabora e trasforma per renderne più forti le atmosfere nichiliste e mortifere, il senso di vuoto che lo pervade. Dopo questi Bolognini farà ancora degli ottimi film (La viaccia, Senilità), ma tenderà ad adeguarsi nei ‘70, anche su suggerimento proprio di Pasolini che gli diceva “tutto ciò che ti serve è nel libro stesso” (il problema, aggiungo io, è come lo leggi) su un cinema di trasposizione letteraria eccelso sotto il profilo formale ma forse privo di guizzi (con delle palesi eccezioni, come ad esempio il truculento e sardonico Gran bollito). Oggi Pasolini è più famoso, ma il loro fu un rapporto di vera amicizia, di scambio alla pari, tanto che lo stesso Pasolini, che molto aveva imparato da Bolognini in ambito di ripresa e montaggio, quando decise che era venuto per lui il momento di girare il suo primo film, dopo un bidone ricevuto da Fellini, venne aiutato proprio da Bolognini che si era innamorato del suo progetto e gli trovò nel giro di un pomeriggio un produttore, Alfredo Bini, non solo restituendogli il favore, ma contribuendo effettivamente alla creazione di Accattone.

martedì 19 marzo 2024

sgangarèd

Adesso che ha vinto la pigrizia non ne faccio quasi più, ma anche prima, quando partecipavo ai reading, preferivo sempre leggere, rispetto alle mie, le poesie degli altri, perché alla fine la poesia è condivisione di qualcosa che ti piace e sinceramente io non mi piaccio un granché. La poesia mi piace ancora, invece, anche se mi stanca parecchio. Ma prendendo insieme le volte che ho letto, posso dire che almeno fra le mie scelte le due poesie che in assoluto piacevano di più al pubblico, avevano in comune una cosa: il dialetto di Santarcangelo di Romagna, un luogo bellissimo che ho visitato anni fa con Clery Celeste. Delle due, una poesia d'amore delicatissima era di Raffaello Baldini e si chiamava IN DEU (In due) e l'altra, di Nino Pedretti, era E’ MI BA (Il mio babbo), che penso sempre contenga i versi più belli in assoluto mai scritti su questo argomento, e quella parola "sgangarèd" (sgangherato) che ti balla sulle ossa come un vestito troppo grande e tenuto stretto dalla cinta, l'odore buono della povertà e della terra, tanto che ogni volta che leggo i tre versi finali di quella poesia me li sento cuciti addosso come fossero miei in un'altra lingua. E sono versi, aggiungo, scritti in dialetto perché la lingua dei padri, o meglio ancora la nostra lingua affettiva è nel dialetto, cioè dentro la pancia, o meglio fra la pancia e la gola, non nell'italiano, che sta sopra, nella testa. L'italiano viene dopo, già traduce. E la poesia di Pedretti, bellissima, finisce così:

 
...e’ mi ba, fra i ba e’ piò sgangarèd,
l’a scrétt dréinta ad mè
tott al mi poeséi.
 
...mio padre, fra i padri il più sgangherato
ha scritto dentro di me
tutte le mie poesie.

lunedì 18 marzo 2024

autoscatti

Autrice che mi manda in visione una raccolta di poesie erotiche puntualmente illustrate da autoscatti col telefono in cui fa (o rifà) le stesse cose di cui scrive (ma sempre in reggiseno, perché c'è un significato). Io sfoglio l'opera e penso che forse preferisco le foto alle poesie, e credo anche che dovrebbero fare tutti così.

sabato 16 marzo 2024

la felicità è un grappino sincero per rompere le corna ai sogni

 

caso

Il caso letterario del giorno fra due amici che di sabato sera fanno discorsi noiosi. Io: Ma che Philip Roth lo pubblichi Adelphi invece di Einaudi di preciso cosa modifica nel nostro universo? Tanto per noi o che lo stampa uno o che lo stampa l'altro sempre davanti alle palle ce lo troveremo, e in tutte le librerie. E poi, va bene che è il colpaccio di Adelphi, ma a noi che non lavoriamo né per Adelphi né per Einuadi, fondamentalmente, che ci frega? Risposta del mio amico: A te non cambia nulla, a me rovina l'estetica dello scaffale che gli ho dedicato, vuoi mettere l'algila eleganza dei volumi Einuadi con pastelloni di Adelphi? Bleah!

venerdì 15 marzo 2024

margherita

Che ci vuole a fotografare una margherita? Niente. Ma pensa sempre che ogni singola margherita è unica e diversa da tutte le altre. Siamo noi che le consideriamo tutte uguali per il semplice motivo che la nostra vista è limitata da un pregiudizio e non siamo capaci di vedere le differenze.

puposkij

Dopo Jorit, ecco Pupo che "ispirato da un sogno" fa un concerto per la pace al Cremlino, tutto spesato per una settimana, dicendo che quella sarà la sua "trincea"... Povera pace, mi viene da dire. E povera gente in trincea. Leggendolo, mi è tornato alla mente uno sketch di Checco Zalone che una volta a Zelig con Stefano Bollani improvvisò un duetto basato sulla storia di un pianista romantico "russo meridionale" chiamato Gigi van Dalenskij, il quale aveva scritto i famosi "Notturni per la sola mano sinistra" ispirati al suo amore non corrisposto per Anna Tatanjalov, la quale gli aveva invece preferito Puposkij... Tutto torna, allora, in Russia, alla barzelletta, ai notturni per mano sola. Alla maschera di Pupo ovvero Puposkij. È inutile, Ruzante ce lo insegna, forse per la loro stessa storia gli italiani quando parlano di pace riescono solo a fare la commedia all'italiana. Fanno ridere con l'amaro in bocca.

stupidità politica

Sempre dal libro in traduzione a cui stiamo lavorando in questi mesi, si riporta il verbale di un accorato consiglio comunale avvenuto nel 1827, due secoli fa, in cui il sindaco di allora, Aprile, fece un discorso applaudito all’unanimità dall’intera giunta in cui si proponeva di riportare entro i confini del paese tutti i contadini di Locorotondo (che già all’epoca aveva il territorio rurale più densamente popolato della Puglia subito dopo Bari), motivando la sua decisione con l’idea che una vita in campagna, esposta completamente alla natura come quella che facevano i contadini di allora, tirava fuori le abitudini più "bestiali" e allontanava gli uomini dall’ordine e dalla legge. Scrisse quindi all’intendente provinciale perché mobilitasse le forze dell’ordine per uno spostamento coatto dei contadini verso il paese. Ma l’intendente, stupito dalla richiesta, rispose al sindaco che oltre a spostarli poi questi contadini dovevano anche mangiare e se li toglievi alla loro terra che cosa gli restava? Ma considerando con preoccupazione il decadimento morale degli stessi scrisse anche all’Arcivescovo perché si costruisse in campagna una nuova chiesa con tanto di casa per il prete. All’anima dei contadini, insomma, ci avrebbe pensato lui.

amica al telefono

 Amica che non si fa sentire mai, se non quando si lascia con qualcuno per farsi consolare, mi chiama all’improvviso dopo mesi. – Oddio, ti sei lasciata! – Ma perché pensi sempre questo di me, sempre questi luoghi comuni! Siamo amici o no? E se una persona è tua amica non può volerti chiamare solo per salutarti e sapere come stai? Basta Lì, sempre con questo tono giudicante, mi offendi! – Ok. Scusami, scusami… Allora va bene, come stai? Come va? – Oddio Lì, va tutto male, mi sto lasciando! E io vengo da te perché ho bisogno delle parole di un amico, e tu mi fai capire che sono prevedibile e scontata! Invece di consolarmi peggiori la situazione! – Adesso non esageriamo, non ho mai usato la parola “scontata”. Va be’, c’è qualcosa che posso fare per non peggiorare la situazione? – Basta che adesso non mi fai una battuta sulle tette o mi chiedi se ho il ciclo, non lo sopporterei! – Ma perché, ce l’hai? – Oddio, Lì. Sbuffa. Chiude il telefono.

giovedì 14 marzo 2024

annacquare la crisi climatica

Pare che a differenza di ciò che si crede, o addirittura si stigmatizza dicendo che ci vogliono solo terrorizzare con la paura di una crisi climatica per meglio controllarci, fatte le debite analisi negli ultimi due anni si parli molto meno di ambiente e clima, o meglio ancora si adotta una strategia di disinformazione per cui se ne parla tanto ma in maniera molto più superficiale e diluita, o annacquata, e spesso assai rassicurante – secondo la nota formula del bastone e la carota: il problema c’è ma si può curare – e limitando o addirittura censurando gli approfondimenti più seri, e questo perché la nostra stampa è sponsorizzata per la maggior parte da aziende legate alla produzione di combustibili fossili. In Italia, sostiene Greenpeace, l’unica testata di informazione che supera la sufficienza quanto a libertà di informazione è Avvenire, ed è tutto dire che il più libero dei giornali sia anche il meno laico. Non so bene che significhi, ma sono sicuro che qualcosa c’entri.

lunedì 11 marzo 2024

anatomia tito fall of rome

 

Libro sul senso ultimo di tutte le guerre, da leggere e rileggere, ANATOMIA TITO FALL OF ROME (L'Orma ed., 2017), riscrittura del Tito Andronico di Shakespeare a opera di Heiner Müller, contrappone due diverse idee di guerra, una “affaristica”, portata avanti dall’antica Roma che rappresenta qualsiasi potenza coloniale della storia e una più emotiva, bestiale, etnica o religiosa, portata avanti dai Goti assediati, che rappresentano “l’irruzione del terzo mondo nel primo mondo”. Divisi fra queste due concezioni della guerra, si salva nessuno in questo dramma? No. Sono tutti orrendi assassini, traditori, gente o pieno d’odio oppure calcolatrice. Così il generale Tito, “eroe” di Roma è in realtà un freddo calcolatore che prova a usurpare il potere imperiale con l’astuzia, prima favorendo come imperatore il candidato più debole e offrendogli in sposa sua figlia per meglio controllarlo per poi, quando da questi tradito, allearsi coi Goti contro Roma, per mettere suo figlio Lucio al posto dell’imperatore con la violenza. Lucio che prima si allea coi Goti poi una volta preso il potere li scaccia dalla capitale rinfacciandogli che “il Goto è un negro è un ebreo”, smascherando in questo modo l’evidente razzismo che si cela dietro ogni conquistatore. Né i Goti, d’altronde, sono da meno, se mossi da un odio atavico perpetrano stupri di gruppo e mutilazioni sulle donne, ammazzano bambini senza colpa perché meticci, godono dell’umiliazione del nemico. Lì dove ciascuno rimprovera all’altro le sue colpe senza mai ammettere le proprie e il tutto viene suggellato dalla battuta “Fate che il vostro dolore non muoia come sono morto io”, ovvero non smettere di soffrire, di ricordare come sono morto ingiustamente e di trasformare il vostro ricordo in odio. In tal senso la figura chiave della vicenda è proprio quella del generale Tito, che è un uomo di potere, mosso esclusivamente dalla ragion di stato e dal calcolo, che diventa pazzo quando la vendetta dei Goti lo smuove e lo fa entrare nell’altra dimensione della guerra, quella delle vittime, motivata esclusivamente dall’odio e dalla brutale vendetta. In questo senso Müller parla di “irruzione”, nel senso di assimilazione di una mentalità ferina, viscerale, in una affaristica della guerra, e dove, per vincere, il gerarca non può che abbandonarsi ai propri istinti esattamente come i suoi nemici. Müller diceva con amore che di Shakespeare “odiava” la perenne attualità. A me è capitato di leggere questo testo mentre il papa chiedeva di trovare il coraggio per arrendersi e trattare. Probabilmente lo chiedeva alla classe politica. Ma mi sono chiesto, per noi che siamo abituati a considerare la guerra solo in questa chiave “affaristica” (si fa la guerra per soldi, per interesse, quindi soddisfatto l’interesse la guerra può finire e chi è stato stuprato sia silenziato per il bene di tutti), come si fa a chiedere di concludere una guerra motivata dall’odio etnico o religioso che sia (e parlo di una qualsiasi guerra africana o mediorientale)? Con quali parole? Se io ti voglio morto per nessun’altro motivo che ti odio, al punto da considerarti meno di una mosca da stritolare sul tavolo (per usare un’immagine di Müller), come farò mai a venire a patti ragionevoli con te? Come faccio a trovare un accordo sul piano “economico” se tutto ciò che mi interessa è vederti annientato come uomo? Serve molto più che un bravo mediatore per questo. E infatti nell’opera di Müller, così come in quella di Shakespeare, perché ci sia finalmente la pace devono morire tutti, in una sorta di massacro corale che cancellerà ogni memoria o rancore, meno che Lucio, il futuro imperatore, che avendo combattuto su entrambi i fronti ha assimilato i linguaggi di entrambi.

domenica 10 marzo 2024

l'ultimo uscito

Ci pensavo ieri, dopo un post in cui parlavo del regista Antonio Pietrangeli. Quasi nessuno fra quelli hanno letto il post conosceva il regista. Ho pensato che nel cinema funziona esattamente all’opposto che in letteratura, dove si conoscono e leggono più facilmente autori e opere di sessant’anni fa che non i contemporanei. Nel cinema spesso si conosce l’ultimo uscito, ma non è detto che si sia mai visto un classico.

sabato 9 marzo 2024

vera gloria

Premio Mia Martini 2006. Fra gli ospiti c’è Franco Califano a cui chiedono di recitare uno dei suoi monologhi. Califano all’inizio sembra un po’ imbarazzato, dice che hanno un linguaggio poco “vaticanesco”, però cede e recita il meno spinto, «un monologo sul dubbio di una paternità che si chiama Pasquale l’infermiere». Prima di recitarlo lo introduce così: «ho scritto questi monologhi tantissimi anni fa, e perché io ero “poco” si chiamavano “le storielle di Califano”, e qualche moralista, finto moralista naturalmente, storceva il naso; poi, dopo, con l’aumentare del successo hanno cominciato a chiamarsi “monologhi”; quando sarò scomparso si chiameranno “sonetti”, perché in questo paese muori e sarà vera gloria». E qui, sulla parola “sonetti” ti rendi conto di quanto ci fosse alla base dei “monologhi” di Califano, che sono anche triviali, ma attingono a una tradizione colta e popolare insieme, in primis alle poesie in romanesco di Giuseppe Gioacchino Belli (che insieme al milanese Carlo Porta è stato forse il più grande poeta dell’Ottocento italiano), e sarebbe bello che i suoi tanti ascoltatori non solo lo riconoscessero a Califano, ma lo avessero letto insieme a lui.

venerdì 8 marzo 2024

meno di nulla

Non l'ho letto ma a una prima occhiata dell'indice questo libro pubblicato nel 2023 (che pure ha intuizioni interessanti come dedicare un capitolo al confronto di due autori romani come Zeichen e Bordini) mi dice che nella poesia del Novecento i meridionali hanno contato meno di un cazzo di nulla. Infatti rispetto ai pur pochi che aveva messo Mengaldo nella sua antologia, qui Berardinelli li elimina tutti, o meglio non li ha mai considerati (visto che mi pare di capire che il lavoro prende spunto da una serie di saggi). È vero che ne mancano tanti all'appello, ad esempio Magrelli o un qualsiasi dialettale, ed è vero che la storia poetica italiana (che è pure storia di potere editoriale) l'hanno fatta gli altri. Però in tutto il 900 nemmeno un nome nato a sud di Roma con esempio di tutto ciò che il nostro Meridione si porta dietro in termini di differenze e specificità culturali sociali e linguistiche, è come affermare che in Italia tutto è paese, tutto uguale, tutto omologato, e non è vero. Non lo è stato nell'intero 900 e non lo è nemmeno adesso.

lacrime di rimmel

Parlando di giornata internazionale della donna, ho visto ieri sera Sick of Myself (2022) di Kristoffer Borgli e al di là dell’estremizzazione di alcune situazioni (col volto deformato di lei che in fondo è un’attualizzazione “social” del ritratto di Dorian Gray, con la ragazza che, come in una sorta di patto insano, più degrada nella morale e di contro aumenta nella fama, più si fa orrenda in viso, lì dove il suo viso e la sua immagine coincidono, sono la stessa cosa), devo dire che il film mi ha fatto soprattutto pensare al cinema di Antonio Pietrangeli, uno dei nostri registi meno conosciuti eppure uno dei più lungimiranti, che alle donne ha dedicato i suoi film più belli. Proprio come le varie eroine di Pietrangeli (in particolare quelle di Nata di marzo, La parmigiana e Io la conoscevo bene), che sono donne immerse nel tumulto dei primi anni Sessanta, quando il primo boom economico stava sconvolgendo ogni rapporto sociale e famigliare, Signe, l’eroina di Borgli, è una donna incapace di “accontentarsi” di ciò che ha fino al punto da inventarsi delle strategie di “guerriglia” basate sull’inganno per far emergere la propria personalità sulle altre in una sorta di gara col proprio compagno, ma sempre tendendo a un nuovo squilibrio che rilanci la partita in avanti. Anche il compagno di Signe, Thomas, come tutti gli eroi di Pietrangeli è inadeguato alla situazione che vive e pertanto si ritrova a mostrarsi per quello che è, un uomo debole, profittatore, furbo, vanitoso, vittimista, continuamente in gara col proprio ego come i vari Nino, Piero o Roberto di Pietrangeli, o l’Adolfo di La visita che nella sua abiezione è l’unico a mostrare un po’ di luce nel momento stesso in cui si scopre, di fronte ai rimproveri di Pina, e ammette di essere un mostro. Signe invece, come le varie Francesca, Dora, Adriana, è patologicamente bugiarda, egoista, pronta a tutto per ottenere qualcosa che nemmeno lei sa definire, e soprattutto per niente simpatica, tanto che lo spettatore può anche capirla, provarne pietà, ma non riesce a empatizzare con lei, allo stesso modo in cui lei non riesce a empatizzare con gli altri, se ne sente di continuo distaccata e tutto si riduce a una osservazione più o meno coinvolta di se stessa nell’altro. Due squilibri, quelli di Signe e Thomas, che proprio come nei film in bianco e nero di Pietrangeli, non si riassestano appoggiandosi sull’altro, ma anzi raddoppiano la propria carica autodistruttiva e portano così all’infelicità o a una posticcia felicità di entrambi. Meglio allora la solitudine. Aggiungo come nota di colore che il viso della Ferragni truccata come Joker uscita sull’Espresso, mi ha fatto pensare soprattutto a un incrocio fra la Signe di Borgli e l’Adriana di Io la conoscevo bene di Pietrangeli (interpretata da Stefania Sandrelli) che piange lacrime di rimmel .

giovedì 7 marzo 2024

basta che non si paga...

Gentilissimi, vi ho trovati nell’elenco degli editori gratuiti e vorrei pubblicare una raccolta con voi. – Buonasera, ha avuto almeno modo di dare un’occhiata alla nostra linea editoriale? – Veramente non ci ho fatto caso, ma non preoccupatevi, non mi importa molto dell’estetica, basta che non mi chiediate il contributo.

mercoledì 6 marzo 2024

il capolavoro

“PLAY SOMETHING WE KNOW!" suonaci qualcosa che conosciamo, grida una ragazza dal pubblico (in una sorta di remake di quella volta in cui 60 anni fa qualcuno dal pubblico lo chiamò Judas perché aveva stravolto il suo suono elettrificandolo) ripresentando l'annoso problema di ogni artista, se ripetersi all'infinito per assecondare il pubblico o "tradirlo" e andare avanti per la sua strada in nome di quella cosa chiamata ricerca artistica. Dylan potrebbe mandarla a fanculo come aveva già fatto 60 anni fa, invece ci pensa su e risponde suonando, in una versione rigorosamente riarrangiata, "When I paint my masterpiece", quando dipingerò il mio capolavoro. Genio.

 

martedì 5 marzo 2024

un quarto di un martello

Mentre sto lavorando alla traduzione di un libro, mi capita sotto gli occhi l'inventario dei beni di un bracciante del sud che muore improvvisamente ai primi del '700 lasciando alla moglie e ai suoi tre figli piccoli quanto segue: "una sottana rossa, un lenzuolo di tela, una coperta di lana verde sfilacciata, una sciarpa rossa, un tavolo di pino, due sedie usate, una piccola zappa da giardino, una vecchia zappa di medie dimensioni, una quota di un quarto di un martello da muratore, una cassapanca di pino, una scala di legno, cinque brocche di creta, quattro piatti e una coppa grande di creta." Più il trullo in cui vivevano in cinque e una piccola vigna. È una storia di povertà estrema, tanto che alla sua morte la moglie è costretta a ipotecare il trullo e la vigna per sfamare i figli, ma così restano senza casa. Chissà cosa è successo loro, come se la sono cavata. I documenti non lo dicono e così ci resta solo questa traccia e la forza e la caparbietà della donna che fa mettere per iscritto questo elenco per i figli. Fra le altre, la voce più commovente di tutte è quella quota di "un quarto" del martello da muratore, che non era tutto del contadino ma ne divideva il possesso e l'uso con altri tre e l'inventario lo metteva per iscritto così che i figli dell'uomo, ancora piccoli, non perdessero quel diritto nel tempo.

distributori (ancora)

Autore che dopo il post dell’altro giorno sui distributori continua a farmi domande per capire qualcosa che non afferra. – Ma se prendono loro (cioè i distributori) il 60% del prezzo del libro, non è come se guadagnano loro più di te che hai messo la materia prima? E se finiscono le copie dei libri, chi le ristampa, le ristampi tu? E se devi ristampare anche le copie con quello che ti rimane, dov’è esattamente che ci guadagni qualcosa? Non capisco, non mi piace. – Lo ripete tre-quattro volte di seguito, e in effetti non lo capisco nemmeno io, ma a forza di sentirglielo dire, non capisco non mi piace, non capisco non mi piace, non capisco non mi piace, mi viene da ridere e smetto di preoccuparmi. – Tanto a breve, ma questo non glielo dico, si farà tutto col print on demand e non solo tutta questa storia sarà passato, ma io stesso come editore sarò sorpassato e gli autori si autoprodurranno i libri online. Già succede, del resto. Smetteranno, insomma, di lottare per non pagare gli editori per finire tutti quanti a pagare le piattaforme digitali dei distributori. E quelli vintage torneranno in tipografia.

lunedì 4 marzo 2024

vincere (cosa?)

Quel momento in cui realizzi che sì siamo sull’orlo di una guerra mondiale e non perché lo dice Putin ma perché lo dice la Von Der Leyen, e che l’unica speranza rimasta al mondo per evitarla non è la diplomazia europea ma l’elezione di Trump negli USA, ovvero di un pazzoide fascista che ieri ha irriso pubblicamente la donna che lo ha battuto a Washington dicendo che è “una pezzente col cervello di gallina” e pensa che il posto giusto per le donne nel mondo non sia a fare politica ma stare piegate sotto le scrivanie a sollazzare il presidente di turno. Perché questo è Trump, uno che se fosse italiano vincerebbe a mani basse le elezioni per i prossimi vent’anni.

poesie

Mia madre che mi chiama per dirmi che mentre metteva ordine in un cassetto ha trovato due poesie di mio padre, una d'amore dedicata a lei e una invece indirizzata a Giuseppe Conte. Perlomeno papà pensava in grande.

sottotazze

Ci sono delle volte che mi chiedo, e non solo io, che fine fanno tutte le copie omaggio che si spediscono in giro all’attenzione di gente che non saprà mai che farsene e non ne farà niente. Perché è vero che i libri dovrebbero vendersi, ma è più vero che nella maggior parte dei casi, e soprattutto fra gli addetti ai lavori che sono i più poveri ma per questo anche i più taccagni, vanno regalati. Alcuni li abbandoneranno negli angoli, altri proveranno a donarli alla biblioteca di quartiere, altri ancora finiranno al riciclo, qualcuno ammuffirà in cantina mai nemmeno aperto, nemmeno per farne una foto sui social. Il mio amico Bogdan, che era un creativo e apprezzava le copertine, usava i miei libri per farne degli orologi da muro, non potevi leggerli ma ti davano conto del tempo che passava. Mentre ieri mi è arrivata una foto di una giornalista a cui ne avevo spediti alcuni, che non è riuscita a scriverci nulla (figurati, mancando una trama di che vuoi scrivere?), ma visto che le piacciono, li tiene sulla scrivania e li usa come sottotazza per il caffè. Siccome la carta che uso è riciclata le mezzelune lasciate dalle tazzine ci stanno anche bene. Ma quando l’ho vista ho pensato menomale che non li tiene in bagno.

domenica 3 marzo 2024

alberi

Oggi a rimonnare gli alberi da frutto. Io sono in ritardo, è vero, ma pure gli alberi sono in anticipo se alcuni stanno già fiorendo. Mio zio li guarda e mi dice questo sì e quello no, indicando quelli che è già tardi per toccarli. Ce ne avete di alberi aggiunge, sottintendendo che sarà un lavoraccio. Merito e colpa di mio padre. Pensare che fino a tre anni fa queste erano tutte cose che si vedeva lui. Non ti preoccupare mi dice mio zio, a furia di farle le impari anche tu.

sabato 2 marzo 2024

tenerezza

La tenerezza è sentirsi chiamare dall'altra parte della piazza da un bambino che ti saluta e poi si gira orgoglioso verso suo padre e gli dice: Quello è il maestro mio!

il distributore

Parlando di problemi editoriali, negli ultimi quattro anni ho lavorato con un distributore che ora sto lasciando perché è più di un anno che non mi paga una fattura. I primi due anni tutto è andato bene, il terzo ho cominciato ad avere problemi, il quarto anno è stato un disastro. A questo distributore sono arrivato dopo aver chiesto referenze ad altri editori che mi hanno assicurato che con loro si era comportato benissimo e quindi mi ci sono avvicinato con fiducia. Né sono stato l’unico, se tale distributore si pregia di avere un quantitativo di clienti, fra piccoli editori indipendenti, molto alto. Quindi non so a da cosa derivi questo comportamento, se sia stato un problema solamente mio o riscontrato anche da altri, fatto sta che – parlo per me – è da dicembre 2022 che tale distributore continua a rendicontarmi (con rendiconti a mio avviso poco chiari specie sulle voci di sovrasconto) libri venduti che io puntualmente fatturo, ma quando invio la fattura non mi viene bonificata. All’inizio mi sono lamentato, poi ho cominciato a innervosirmi. Ma ogni volta che sollecito il pagamento o non mi rispondono affatto, o se n’escono con qualche giustificazione (dove alla fine pare quasi sempre essere colpa mia per un motivo o per l’altro), oppure se m’incazzo se n’escono con la solita frase lapidaria “giriamo in amministrazione” con l'amministrazione che non mi ricontatta mai, nemmeno alle PEC, e così rimpallano di mese in mese i miei solleciti. Insomma, per ogni libro di Pietre Vive che siete andati a ordinare in una libreria di catena o avete acquistato su IBS negli ultimi mesi io ad oggi non ho recuperato nemmeno le spese di spedizione. È come aver preso decine di libri stampati a tue spese e averli regalati a uno più ricco di te, la sensazione è quella. In particolare questo mi è capitato con un titolo, “Agostino” di Michele Paoletti, dove a me risultavano vendute in libreria, durante una presentazione dell’autore (estate 2022), un’ottantina di copie che il distributore non mi aveva mai rendicontato. Quando l’ho redarguito, quasi otto mesi dopo la presentazione il distributore ha fatto un controllo, mi ha detto che avevo ragione (guarda un po’), mi ha fatto fatturare le copie vendute (nel 2023!) e non me le hai mai pagate. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per cui sto chiudendo il rapporto, con tutte le lentezze del caso sui resi, ma ancora non so quando, come e se recupererò le cifre che loro stessi definiscono “non elevate” (anche perché ricordiamoci che io vendo libri di poesia, mica bestsellers da migliaia di euro). E la fregatura è proprio questa, che per cifre simili non vale nemmeno la pena fargli causa. Né il danno è tale che possa rovinarmi, però brucia, quello sì. Ora il problema, si dice da più parti, è che serve spezzare il monopolio della grande distribuzione, perché la loro mission è monopolizzare il mercato strozzando i piccoli editori (lo ha spiegato benissimo Giulio Mozzi in un suo post), ma se cerchi di venire fuori dalle pastoie della grande distribuzione (in un mondo che ti chiede di continuo di essere distribuito) andando in direzione “ostinata e contraria”, ovvero attraverso canali laterali che sono più vicini alla tua visione delle cose, ti imbatti spesso in realtà che si dicono “alternative” ma che poi di alternativo non hanno proprio niente. E a questo punto mi tocca ammettere che ha ragione chi sostiene che per fortuna c’è Amazon. Sarà a suo modo disumana, ma forse proprio per questo ad oggi è l’unica che non mi ha dato grosse fregature e paga puntualmente ogni mese.

mercoledì 28 febbraio 2024

dove vivi?

La Russia di Putin è fascista. Lo dice Oleg Orlov, due anni di carcere per averlo detto. L’Ucraina anche. Lo hanno detto Putin e anche molti italiani, così come lo dicono degli USA, dove sta per tornare presidente Trump, il quale lo dice dell’America di Biden che lo dice dell’America Trump, mostrando così che gli USA non sono un mostro solo e monolitico, ma due mostri molto fragili, e sempre più schizofrenici. Se l’America è fascista, si dice, lo è pure la Nato. Noi volenti o no siamo Nato, ma dovremmo uscirne si dice. Per andare dove? Anche tutti gli ex paesi sovietici sono un po’ fascisti, per educazione e cultura, vedi l’Ungheria che usa ancora le catene. Loro vogliono essere Nato. Ma allargando il tiro i fascisti li trovi un po’ dovunque. In Brasile, dove fanno le proteste in piazza per riavere Bolsonaro al potere, in Ecuador dove a fare la rivoluzione sono i narcotrafficanti, nell’Israele della strage a Gaza (che certi giorni mi pare sia l’unica cosa che ci passano in TV, insieme all’Ucraina, per non farci vedere tutto il resto), e i fascisti sono in Iran dove la rivoluzione è rientrata e oggi si fanno esecuzioni sommarie per strada, fino a tre impiccati al giorno, mischiando oppositori politici a comuni delinquenti, in Arabia Saudita dove invitano Renzi a parlare di Rinascimento, nella Turchia di Erdogan che mette i giornalisti in galera e poi fa da paciere per gli alleati in guerra, nell’Afghanistan dei Talebani che negano alle donne il diritto di restare umane, in Cina che mischiando comunismo e capitalismo è diventata un mostro a due teste pari agli USA ma molto molto più sano, nella Corea del Nord che pare avere un fascismo giocattolo ma pur sempre armato, e ultimi ma solo perché sono più poveri in più della metà degli stati africani, dalla Libia al Sudan, passando per il Congo che da oggi venderà gas all’Italia, a maggior vantaggio di chi? E l’Italia in tutto questo, mi chiedo, è fascista o no? C’è chi dice che il diavolo non è mai così brutto come lo si dipinge, e anche se abbiamo la Meloni al governo, i saluti fascisti ai raduni dei nostalgici, i pestaggi a morte nelle prigioni, Vannacci che rivendica un best seller, i poliziotti che caricano i ragazzini per strada, oltre a una storia che lasciando anche perdere i Novax può tornare gloriosamente indietro fino alla scuola Diaz, e prima ancora in Val di Susa dove nel silenzio generale dello Stato trattavano i comuni cittadini come terroristi, nonostante tutto questo il fascismo in Italia si dice è “sopravvalutato”, l’Italia nonostante qualche intemperanza col bastone è un paese sano. Sarà pure, io non sono Pasolini, io non so nulla, ma ti chiedo E tu, che ti dici antifascista e poi stai a questo mondo convinto che non serve guardare la trave nel tuo occhio quando puoi fissare la pagliuzza nell’occhio del tuo vicino fascista, e intanto paghi le tasse allo stato fascista in questa Europa serva e fascista, in un sistema economico fascista mentre fai la spesa nella catena sotto casa, e vai al lavoro, voti, viaggi, e se ti riesce fai dei figli, un mutuo, fai dei progetti per il futuro in questo mondo così tanto fascista da farti schifo, tu di preciso che non lo sei, non ti ci senti, non ci stai, tu per sentirti così innocente e puro, così fuori dal sistema-trappola, mi sai dire di preciso dove vivi?

piccole bugie

Certe volte mi accorgo di essere anche io affetto dalle piccole vanità comuni che mi portano a raccontare piccole bugie per tirarmela, come quando racconto che riesco persino a guadagnare qualcosa dal mio lavoro di editore, mentre in realtà non guadagno praticamente nulla. Vivo in assoluto pareggio, come un monaco zen. Dio però, quando c’è, punisce la menzogna e come al solito se la prende coi più piccoli. Oggi ad esempio, subito dopo aver detto una di queste bugie, mi sono accorto che si è rotta la caldaia, e mentre me ne accorgevo mi sono ricordato di chi sono e mi sono detto: Azzo, e adesso questa chi la paga?

martedì 27 febbraio 2024

sogno della scritta sul muro

Stanotte ho sognato che un tipo mi scriveva sul muro di casa INTELLETTUALI E LETTERATI / ANDATE A CACARE SOPRA I PRATI. La gente, passando davanti a casa mia ne era deliziata, al punto che mi sono detto perché no? Ho preso la frase e l’ho usata come titolo di un libro. Il qualche ha avuto un tale successo che è schizzato ai primi posti in classifica. La gente non si capacitava che riuscivo a dire così tanta verità intorno alle persone di cultura, un musicista addirittura ci metteva la musica e ne faceva una canzone sul cui testo percepivo i diritti. Insomma, con questa storia dei prati ero diventato ricco. Poi, come in ogni noir che si rispetti, il tipo che aveva scritto la frase ricompariva per chiedermi la sua parte. Io gli avevo rubato l’idea. A quel punto preso dal dubbio contattavo gli unici due avvocati che conosco, Giuseppe Quaranta e Fabio Macaluso. Giuseppe mi diceva con la sua voce calda “io capisco come ti senti, però eticamente, e anche artisticamente, non sarebbe giusto approfittarsi così della creazione di un altro, senza nemmeno riconoscergli qualcosa, io sarei per patteggiare una piccola percentuale in nome della verità e dell’arte”. Fabio invece in siciliano mi diceva “Antonio, quello è un cretino, qua ci penso io”. Finiva che Fabio denunciava il tipo per avermi scritto la frase sul muro, e poi facendo un giro assurdo nei suoi ragionamenti avvocatizi diceva che quel graffito era la prova che i versi li avevo scritti io mentre il tipo mi aveva copiato per diffamarmi, perché solo un cretino scrive una frase offensiva sopra il muro di casa e visto che io non ero un cretino e la frase l’avevo pensata io era ovvio che a scriverla era stato un altro che proprio perché scriveva certe frasi si rivelava molto pericoloso. E concludeva l’arringa con quest’altra rima: CONTRO IL POTERE DELLA SCRITTURA / QUI SERVE MAGGIORE CENSURA, al che tutti in tribunale si alzavano per applaudire. Finiva che il tipo che aveva inventato la frase andava in galera e io mi tenevo i soldi con qualche perplessità.

domenica 25 febbraio 2024

cattivo seme

Mauvaise Graine (1934) di Billy Wilder è il primo film da lui diretto, girato in Francia prima di trasferirsi negli Stati Uniti per dare avvio a una carriera di grandissimo prestigio. Il titolo italiano della pellicola, Amore che redime, non rende giustizia all'originale che sta per Cattivo seme. Senza fare troppo spoiler, l'opera è incentrata sulle avventure di un ladro d'auto ed è piena di inseguimenti su strada con la polizia. Insomma, dove finisce questo film comincia À bout de souffle di Godard che lo avrà visto e certamente amato.

le mani sporche

Di Esterno Notte (2022) di Marco Bellocchio, qualcuno ha già evidenziato il paragone messo in scena sull’ossessione per le mani di Moro e Cossiga, con la figura di Aldo Moro (Gifuni) che è ossessionata dall’igiene sua e della famiglia, e lava le mani puntigliosamente, e Francesco Cossiga (Alesi) che matura una forma di disturbo delirante per cui continua a vedersele macchiate sul dorso, anche se non c’è nulla, interpretando le macchie come segno di malattia e di prossima morte. Non è però, come qualcuno ha detto, il confronto fra una figura “ripulita” dallo sporco del potere contro una che ha le mani insanguinate, perché in entrambi i casi si può rasentare una forma di ossessione patologica. Entrambe le figure patiscono interiormente lo “sporco” senza riuscire a liberarsene. E Cossiga, psicologicamente più debole, lo interpreta come presagio di morte perché nelle ore del rapimento tende a identificarsi con Moro: lo sporco sulle mani crea una sorta di correlativo oggettivo fra i due. Nessuno invece mi pare abbia segnalato come, in un ulteriore possibile paragone, l’unica figura a sporcarsi realmente è quella di Andreotti (Contri) che alla notizia del rapimento di Moro è colto da violenta emozione, corre in bagno dove ha un attacco di vomito e si sporca i vestiti. È una scena molto forte, uno perché mette in scena un Andreotti (che generalmente è visto come un animale a sangue freddo, vedi Il divo di Sorrentino) per la prima e unica volta emotivamente scosso, e due perché lordandosi è come se assumesse su di sé, sul proprio corpo, con la sua reazione viscerale, tutto lo sporco che ne verrà sulla DC. Andreotti si lorda per tutti e ne esce, col solito aplomb, chiedendo al suo assistente di procurargli un vestito pulito. Il resto è storia. È curioso ancora constatare come una decina di anni dopo i fatti da cui è tratta l’opera, tale ossessione per le mani (per altro documentata) avrebbe trovato un riscontro, più o meno ironico, nell’operazione Mani pulite.

garboli e il potere

Nel settembre 1972 Cesare Garboli risponde a un articolo di Natalia Ginzburg sul massacro di Monaco, quando dei terroristi palestinesi durante le Olimpiadi assaltarono gli alloggi della squadra israeliana e uccisero tutti gli atleti. La Ginzburg, in quanto ebrea, è combattuta fra le due posizioni, se schierarsi con le vittime dell’attentato o con le motivazioni che hanno mosso i palestinesi, e si pone una serie di questioni – purtroppo mai risolte – su cosa avrebbe fatto lei al posto delle forze potere per trovare una soluzione al conflitto fra i due popoli, concludendo che l’unica scelta di campo che può fare, mancandole il potere di cambiare le cose, è stare dalla parte delle vittime. Garboli, prendendo spunto dalla fine del suo articolo, le risponde che le sue conclusioni sono giuste, ma per le premesse sbagliate: “oggi non si può stare dalla parte di chi fa la storia, ma solo dalla parte di chi la subisce. Un tempo, fino a ieri, si apriva alla coscienza di ciascuno uno spiraglio di speranza: la speranza di collaborare alla storia stando dalla parte giusta. In modo particolare, questa speranza ha celebrato il suo grande momento, si sa, all’indomani del crollo del fascismo, una festa sulla quale il cielo si è rapidamente richiuso. Tutte le generazioni che hanno preceduto la nostra, sia pure confusamente, hanno sempre vissuto nell’illusione, o comunque nell’idea che il mondo potesse cambiare, e che la storia dell’uomo fosse in lento, ma costante progresso. […] Se oggi abbiamo una certezza, è appunto che il mondo non cambierà mai […] che le vittime della storia non potranno mai diventare protagoniste della storia, non potranno mai conquistare e detenere il potere”. E se anche lo conquistassero non cambierebbe nulla, perché l’idea di poter gestire il potere è una semplice illusione. Perché il potere è un male, e praticarlo significa ammalarsene e praticare la volontà del male, non la propria. Essere al potere significa assecondare il potere, quindi non ha senso chiedersi cosa si farebbe avendo il potere in mano, si farebbe esattamente quello che il potere vuole. “Finché si è vittime, si è nel giusto, e si è nel giusto finché si è vittime. Tertium non datur… […] È stato Manzoni il primo, limpido assertore che agire la storia, fare la storia e non subirla, è comunque rendersi complici di un male, diventare corresponsabili di un orrore.” È una visione molto pessimistica la sua, anche influenzata dal periodo storico in cui l’ha scritta, nel pieno degli anni di piombo. E, infatti, rendendosene conto, chiude così: “Qualche volta, se si parte da certe premesse, e si arriva a certe conclusioni, bisogna avere il coraggio del proprio pessimismo fino in fondo”. Cinque anni dopo, alla notizia del rapimento Moro, Garboli d’impulso salì in auto e abbandonò definitivamente Roma, andando a rinchiudersi nella cascina di campagna della sua famiglia in Toscana, dove rimase per il resto dei suoi giorni dedicandosi esclusivamente allo studio e alla scrittura. A pensarci adesso, ricorda un po’ la scelta del poeta latino Orazio.

venerdì 23 febbraio 2024

e se pago?

Signora mi chiama per annunciarmi che vuole pubblicare un libro di poesie. Mi dice che ci ha scelto dopo una lunga selezione, ma il suo precedente editore le ha spillato un mucchio di soldi per cui ha deciso che da adesso in poi non vuole più dare contributi, spera che questo non sia un problema. – Signora, per me non c’è problema, solo tenga conto noi non pubblichiamo tutto ciò che ci arriva, ma solo ciò che ci piace dopo attenta selezione. Quindi lei ci ha scelto e io la ringrazio, ma non è detto che il suo libro ci interessi e che vogliamo pubblicarlo. Prima dobbiamo leggerlo e poi le facciamo sapere. – Nel senso che prima vi devo mandare le poesie? – Sì. – E che se non vi interessa non lo pubblicate? – No. – Ah… E se vi pago?

le presentazioni

Parlo della mia esperienza che quindi è molto relativa. Partecipo a sempre meno presentazioni di libri ma quelle che vedo nella maggior parte dei casi sono frequentate da persone più anziane di me. I giovani mancano. Quelle poche volte che ho visto presentazioni con persone più giovani di me, in maggioranza era quasi sempre nell'ambito della poesia e quasi sempre in ambiti circoscritti alla cerchia che aveva organizzato l'evento, come se facessero gruppo a sé rispetto agli altri. Ogni volta che ci penso mi vengono in mente i laboratori che si fanno a scuola dove quando liberi gli alunni dalla costrizione dei banchi i bambini vanno da una parte della stanza e le bambine dall'altra, coi bambini che in genere fanno più chiasso ma hanno anche più timore di interagire con le bambine.

giovedì 22 febbraio 2024

dalla voce

Giovane autrice con cui avevo parlato l'altro giorno al telefono perché voleva informazioni sulla casa editrice, oggi mi manda la sua proposta editoriale e mi scrive: "...dalla voce al telefono mi sembravi molto giovane, poi ho cercato la tua foto e confesso che sono rimasta un po' delusa, si vede che sei grande!" (Io mi sono immaginato quanto tempo avrà perso per cercare di dirmi che le sembro vecchio senza usare quella parola lì).

mercoledì 21 febbraio 2024

merdacce

Poco fa sono usciti i finalisti di un premio di poesia. Come quasi ogni anno da più o meno dieci anni che esiste quel premio ho partecipato con alcuni titoli della casa editrice e come ogni anno nessuno ha passato la prima selezione. Mi pare ovvio che se per dieci anni nemmeno uno dei vari titoli proposti da vari autori passa le finali non è colpa degli autori ma mia, come editore, perché quella che non piace è evidentemente la mia linea editoriale. Fosse solo questo andrebbe anche bene, magari devo solo ripensare qualcosa, ma se cominci a sommare tutti i premi dove non passi, i giornali o le rassegne che non ti cacano nemmeno di striscio, la gente che non ti paga, tutto ciò che non riesci a dare o perché non ci arrivi col fisico o perché non ce la fai con lo spirito, oltre al fatto che stando dall’altra parte della barricata ciò che altri immaginano soltanto del maleodorante mondo della letteratura io lo vedo coi miei occhi, tutto questo mi toglie ogni entusiasmo e ogni voglia di esserci e di fare. Certi giorni mi manca il passato, quando ero un semplice autore che non sapeva nulla di tutto questo e si faceva bastare di scrivere qualcosa di buono per essere contento di sé. Diventare editore in questo senso è stato il più grosso errore della mia vita, e non perché non mi piaccia fare libri, ma perché fare libri non basta a farmi passare il disgusto per tutto il resto che c'è dietro, tutti che si smerdano addosso e intanto spingono per entrare. Io li osservo e mi chiedo come fanno a non sentirsi stanchi. Prima ho mandato un messaggio ai miei autori per dire che col premio era andata male. Come i tre porcellini delle fiabe, mi hanno risposto uno dietro l’altro. Il primo ha detto: Mafia. Il secondo ha detto: Pace. Il terzo ha detto: Antonio mi raccomando non ti arrendere, tu sei speciale. Sarà. Ma io più che speciale mi sento uno molto normale in un mondo di merdacce.

farsi male

Negli ultimi giorni, sicuramente per farmi molto male, ho visto in loop “Il caso Moro” (Ferrara), “Interno Notte” e “Buongiorno Notte” (Bellocchio) e “Romanzo di una strage” (Giordana). Così stanotte, era quasi inevitabile, ho sognato di vivere in un paese pieno zeppo di vecchi, fra democristiani ed ex-fascisti, assetati di potere che vanno in giro a braccetto con giovani esaltati pronti a “scatenare l’inferno” perché si vedono come proiettati in un film con Russel Crowe ingrassato come si è visto a Sanremo, e che non riescono a costruire un discorso sensato perché non leggono libri ma parlano per frasi fatte e imparate a memoria e se gli rispondi male ti fanno il saluto nazista come per sfotterti e dire che quello sbagliato qui sei tu; e soprattutto con il cadavere di Aldo Moro (ma con la faccia di Gifuni) che spunta da ogni dove dando le mani a chiunque come se fosse sotto elezioni, ma poi passandole con l’amuchina, e annunciando che presto vedrete morirà di nuovo per tutti noi, per salvarci dalla nostra presunzione di crederci migliori o peggiori degli altri, e regalava a tutti la sua foto ricordo da tenere sul comodino.

lunedì 19 febbraio 2024

vita da chi-te-lo-fa-fare

Vita da chi-te-lo-fa-fare. Oggi avrei dovuto lavorare a un libro, ma ho finito per passare il pomeriggio a insultarmi con uno che non mi vuole pagare un mazzo di fatture alto così per dei libri venduti ma mai saldati e continuava a rigirare la frittata da ogni dove, col volto gesuitico di chi sa tutto ma pur sapendo tutto non sa niente, fino al punto di insinuare che se non mi vuole pagare è colpa mia che non insisto abbastanza. – E che dovrei fare? Venire a cercarti con una pistola? Rapinarti? – Magari, mi faceva, almeno posso intascare l'assicurazione.

da zia

Giardini pubblici. Entra una ragazza assai avvenente coi jeans attillatissimi. Quando gli passa accanto, un ragazzo seduto alla panchina con una bambina vicino si piega in avanti, facendo finta di sistemare il laccio delle scarpe, per guardarle meglio il culo. La bambina allora si allunga verso di lui e gli mena uno schiaffo a dita aperte nell'occhio. Il ragazzo si tira indietro lamentandosi a voce alta e chiede che c'è. – Da zia! – risponde la bambina. Si vede che il ragazzo è recidivo.

domenica 18 febbraio 2024

gratitudine

Sono molto grato all'uomo che è in me perché stanotte mi ha fatto sognare di incontrare mio padre. Un po' meno all'editor che è in me perché mentre lo facevo continuava a correggermi i refusi.

la pungitura

Ogni tanto mi capita di sentirmi dare dell’arrogante (o dello stronzo) per i post in cui sfotto alcuni autori che si propongono. Così volevo dire che a parte il fatto che non è un genere che ho inventato io e nemmeno altri editori, anzi era già praticato prima ancora che nascesse l’editoria (se qualcuno se la ricorda, la satira 9 di Orazio è già un buon esempio); a parte il fatto che quasi mai mi permetto di giudicare o dileggiare pubblicamente il contenuto dei manoscritti proposti, proprio perché so quanto lavoro e coinvolgimento emotivo c’è dietro persino l’opera più modesta, quindi se mi esprimo è soltanto su metodi di approccio più o meno molesti o rivelatori, mai sulle opere in sé (e in questo se permettete mi sento più signore di altri che stanno sempre a cacare veleno sui testi di chi non gli piace come persona); ma delle volte ho proprio l’impressione che quelli che più si irritano per certi miei post siano coloro che nella sostanza hanno uno stile di approccio molto simile a ciò di cui scrivo, per cui magari non gli frega nulla dell’onore offeso dell’autore o autrice di turno, ma si sentono toccati in quel qualcosa che li riguarda loro malgrado. Quella che il mio amico Nannino il brasiliano chiamava “la pungitura”.

sabato 17 febbraio 2024

appunti sulla solitudine del satiro - 2

Le ultime pagine della "Solitudine del Satiro", scritte fra settembre e novembre 1972 per il Corriere della Sera, sono fra le più politiche, personali e malinconiche di Flaiano e meritano uno scritto a sé. Il primo di questi quattro articoli, 3 settembre, è anche (nella prima parte) fra i più citati dai suoi estimatori. Comincia così: “Appartengo alla minoranza silenziosa” e prosegue con la descrizione di uno stato in cui la chiarezza non esiste, la verità non esiste, “la linea più breve fra due punti è l’arabesco” e prosegue col dialogo con Maccari in cui divide l’Italia fra fascisti e antifascisti, dove per ciascuna delle due categorie la causa è soltanto una scusa per esprimere la propria intima violenza: “Ossia ognuno vuole la sua versione della libertà, che consiste nel sopprimere quella dell’altro. La libertà comunemente intesa, quella per esempio di esprimere le proprie opinioni, è una cosa da disprezzare perché bene o male l’abbiamo.” Il pezzo termina con un commento amaro a un film di Ferreri appena uscito, “La cagna”, tratto da un suo racconto, "Melampus", in cui Flaiano (che avrebbe voluto farne un film diretto da lui, senza riuscirci) diceva di non riconoscersi: “Eccomi dunque decaduto dalla mia qualità di autore”. L’articolo del 10 settembre è scritto dal festival del cinema di Venezia ed è una fantasia che parte (dice) da una lettera anonima: Chaplin, ospite del festival, viene omaggiato dai tanti registi italiani (De Sica, Antonioni, Zavattini, Fellini, Ferreri, “unico assente giustificato Visconti”) che da lui hanno attinto per il proprio cinema. In realtà non ci andò nessuno a omaggiarlo il “vecchiaccio”, ma leggendo, a parte l’ovvia espressione d’amore per uno dei padri del cinema, c’è il sospetto è che nelle sue parole Flaiano, che tanto al cinema sentiva di aver dato come sceneggiatore, si stia riferendo anche un po’ a se stesso: malato e prossimo alla morte, non si fece vedere nessuno. L’articolo del 28 ottobre comincia con un viaggio a Napoli (“Vi interessa un po’ di contrabbando?” chiede un giovanotto accostandosi alla macchina di Flaiano, a cui invece serve un’informazione stradale; “Sigarette o droga?” chiede Flaiano incuriosito, “No. Orologi svizzeri”, che costano un milione ma ci può accordare per ventimila lire) e prosegue con una presa per il culo di una famiglia di contestatori che non sa che mettersi per andare a una manifestazione per rifare la società, che è in tutto e per tutto una anticipazione di “Quando è moda è moda” di Gaber. Chiude il pezzo del 5 novembre, in cui Flaiano ricorda il suo arrivo a Roma da bambino, cinquant’anni prima, per andare in collegio. Era la Roma del 1922, la Roma della gran festa fascista dove qualcuno aveva danneggiato la statua della Giustizia, manomessa della bilancia sostituita da una spada, evidente simbolo fallico, si vendevano in farmacia i preservativi marca Fascio e Ardito, i bordelli erano all’apice della loro fortuna e anche se nelle scuole i ragazzini facevano la caricatura di Mussolini, la città conquistata era pervasa da un’euforia sessuale che metteva da parte ogni razionalità in vista della grande orgia che si annunciava. È uno scritto acuto e malinconico l’ultimo pubblicato da Flaiano, che un pochino anticipa (ma senza nessuna carica necrofila) alcuni temi del prossimo “Salò” di Pasolini nell’indicare il preciso connubio fra potere e liberazione sessuale che si fa caricatura grottesca e spesso si esprime in violenza (per tornare al dialogo con Maccari), e soprattutto sembra riflettere e agganciarsi all’ultimo film di Fellini, chiamato appunto “Roma”, un film che probabilmente Flaiano sentiva anche suo, in cui in parte si riconosceva pur non avendovi partecipato e a cui forse avrebbe voluto partecipare, ricucendo magari un’amicizia rovinata dal successo, prima dell’ultimo saluto.

venerdì 16 febbraio 2024

appunti sulla solitudine del satiro - 1

 Per molto tempo hanno definito “La solitudine del Satiro” di Ennio Flaiano un libro inclassificabile. Lui lo costruì mettendo insieme una serie di articoli scritti per vari giornali (da Il Mondo al Corriere della Sera) con cui collaborò a uscite settimanali o bisettimanali e quasi ininterrottamente dal 1956 al 1972. Ogni articolo è costituito da una serie di frammenti di carattere personale – fra apologhi, sogni, ricordi, battute, malumori, opinioni su libri o film visti o realizzati, considerazioni sul mondo della scrittura e dell’arte, del costume, sulla società che cambia, sulla vita in genere o attraverso alcuni ritratti particolari – che formano nel loro insieme (conta più l’atmosfera generale che la singola battuta per cui Flaiano resta famoso) una sorta di immenso diario di viaggio, dove la differenza la fa il “tu” a cui vengono indirizzati. Perché i diari si scrivono quasi sempre per se stessi o per un “tu” ipotetico che sono la storia e i posteri; mentre i testi contenuti in questo libro sono stati scritti per un pubblico anche molto vasto, per un “tu” che sta dall’altra parte del giornale, da qualcuno che rimane al di qua della pagina. Un pubblico di cui non conosce il volto, le abitudini, che lo legge, ride con lui, ma non lo vede per com’è davvero, parla con lui ma senza guardarlo negli occhi, da cui “la solitudine” di chi si racconta. Alla fine viene da pensare che “La solitudine del Satiro” fosse inclassificabile soltanto perché venne pubblicato quando ancora non esistevano i social. Se faceste una raccolta di post dalla bacheca di un uomo interessante, con punte di cupezza ma pieno di humor, settimana dono settimana per circa quindici anni, post che raccontano la sua vita e i suoi pensieri sull’arte e sul mondo, credo non si avrebbe qualcosa di molto diverso da questo libro. Ed è un motivo per cui pur affrontando fatti così lontani nel tempo appare ancora oggi così moderno, così fresco e incisivo. L’altro motivo è lo stile della sua scrittura. C’è una pagina molto bella in cui Flaiano racconta della discussione con un amico che lo rimprovera di usare uno stile troppo nitido, poco avventuroso ed elaborato, poco sperimentale. Flaiano risponde che lo stile sperimentale che cerca l’amico è già nelle parlate quotidiane di ogni italiano, nelle cui bocche si rimpastano dialettismi e termini colti ripescati dalla memoria, dalla pubblicità o dalle canzoni, regionalismi, tic e gergalità varie, fino a creare una lingua unica e irripetibile per ciascuno. Tutto questo se portato sulla pagina spesso suona falso, goffo, ma è semplicemente un’imitazione, mentre la pura chiarezza del testo, che non esiste in natura, quella sì che è veramente sperimentale, perché nella sua ricercata chiarità è già astratta. Non databile. A proposito di tempo, c’è un piccolo non detto che chiude questo libro, che si muove a cadenze ben definite fino a gennaio 1972, poi c’è un vuoto di circa sette mesi, e riprende coi suoi ultimi quattro articoli fra settembre e novembre 1972, quando Flaiano già malato muore. Tutto è immaginabile di quel vuoto, eppure, dopo aver famigliarizzato con lui così a lungo, non si può fare a meno di chiederselo (ed è ancora, mi accorgo, una curiosità molto social, che rifugge il pudore, ma vive di picchi emotivi): dov’è finito, che avrà visto e pensato Flaiano in quel buco di sette mesi in cui si preparava morire? O meglio ancora, cosa avrebbe scritto Flaiano nella sua ultima estate?