«Poesia viene da pus» scrive Magrelli in Exfanzia,
«poetare-suppurare-suppoetare», e a me viene da pensare, per
associazione, a Filottete, l’arciere greco protagonista di una tragedia
di Sofocle che viene abbandonato su un’isola deserta da Ulisse, mentre
sono diretti a Troia, perché ha una gamba in cancrena che emana dalla
ferita purulenta un odore orribile, un odore di morte in vita
insopportabile; e che poi dieci anni dopo Ulisse stesso andrà a recuperare
perché una profezia rivela che senza di lui e senza il suo arco
infallibile la guerra di Troia non potrà essere vinta. Facile
immaginarsi, a questo punto, come Ulisse, l’astuto Ulisse, sia il
mercato editoriale teso alla conquista della città nemica (la
letteratura) in cui è custodita la bellezza (Elena), e Filottete
malmesso e zoppicante, ma pur sempre quello con la mira più lunga, sia
la poesia abbandonata al suo destino mortale perché considerata inutile
alla guerra. Eppure i presagi sono chiari, non c’è vittoria senza
poesia, e allora bisogna tornare indietro, riprendere i rapporti,
scusarsi, patteggiare, lusingarlo, ingannare se occorre l’orgoglio
offeso del ferito, almeno stando a Sofocle. E sopportarne soprattutto
l’odore mefitico, l'odore della poesia.
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