venerdì 29 marzo 2024

sogno della valigia

Nel sogno devo partire per il prossimo viaggio e per questo tutti i miei amici vengono a trovarmi a casa per salutarmi. Le sedie non bastano per tutti, così le cedo a loro e resto seduto per terra, a gambe incrociate, accanto alla mia valigia che è talmente grande e appariscente da sembrarmi volgare. Parlo con tutti con piacere sincero e dedico a ciascuno un sorriso, persino a chi mi rinfaccia di trovarmi eccessivamente dimagrito e stanco provando a passarmi un piatto di minestra. Soltanto dopo, quando arriva l’ora di andare mi accorgo che le mie gambe non si muovono, si sono addormentate. Così i miei amici che sembrano già sapere tutto mi aiutano. Aprono la valigia, che è vuota, mi prendono con cura per non farmi male e mi depositano al suo interno, accomodandomi gambe e braccia e richiudendola con la sicura. A questo punto non vedo più nulla, sento le scosse e i rumori del trasporto mentre vengo accompagnato verso non so dove, e mi rendo finalmente conto che se è vero che dovevo partire non conoscevo ancora la meta. Sono lucido nella valigia e questo mi spaventa. Sospetto addirittura di essere morto. E se la morte fosse questa perenne vigilanza anche dopo che ti hanno rinchiuso al buio, sarebbe orribile. Per fortuna si sentono molti rumori di strada e questo mi fa compagnia. Ma la valigia viene riaperta e mi ritrovo in una nuova stanza piena di gente che non conosco, seduta o in piedi, che parlotta distratta di fronte a me. Qualcuno mi tira fuori dalla valigia e poiché non ho più forza negli arti, che ricadono giù come se fossero disarticolati, come se io stesso fossi ormai trasformato in un burattino, mi depositano per terra, con le spalle appoggiate contro la valigia, e mi richiedono di descrivere la mia storia e parlare di come sono arrivato fin lì. Io lo faccio al meglio che posso, o perlomeno ci provo, ma la gente non mi ascolta, eppure ogni volta che ho finito qualcuno dal pubblico si volta a guardarmi e mi chiede: Scusa, non abbiamo capito, puoi ripetere? E a me, anche se sono intimidito, per una sorta di meccanismo interno o forse soltanto perché non mi sento pronto a tornare nella valigia, prende la voglia di fare meglio e ricomincio a raccontare da capo.

giovedì 28 marzo 2024

parola e libertà

Oggi parlavo con dei ragazzi del fatto che non è il lavoro a renderti libero, come spesso si dice, ma la parola. Il lavoro è un diritto, è una necessità che serve a soddisfare dei bisogni primari, si lavora per mangiare e avere una casa, quindi è importantissimo, ma nella maggior parte dei casi non ti rende libero e spesso nemmeno felice. L’unica libertà possibile riservata all’uomo è nella parola, nell’espressione incondizionata delle proprie idee, magari è una libertà fugace e senza conseguenze, ma nel momento stesso in cui ti esprimi ciò ti rende libero. Quindi è una cosa che va difesa per sé e per tutti, anche per chi ti dice che non capisci niente. Se poi la parola è scritta, e se è scritta bene, ho aggiunto, è meglio ancora. Ma lì mi sono fregato. Una ragazza infatti mi ha chiesto: scusa Lillo, ma se io scrivo non per dire il mio pensiero agli altri, ma per me stessa, perché se non lo faccio sto male, mi sento di scoppiare dentro se non lo faccio, anche quella è libertà? È stata una bella domanda. Infatti ci sto ancora pensando.

mercoledì 27 marzo 2024

poesia civile oggi

Quando mi dicono che in Italia non c'è più spazio né modi per la poesia civile mi viene da rispondere certo che c'è: Altan, Marco Biani, Maicol&Mirco... fanno loro per tutti. E infatti i primi a condividere sono proprio i poeti. Riconoscono il respiro, anche se gli manca il verso.

martedì 26 marzo 2024

quando sarai libro

"Quando sarai libro" mi scrive un amico per un lapsus. Intendeva "libero", ma essere libro, diventarlo, potrebbe significare anche una certa forma di libertà. Questo pensavo ieri, finché mio cugino non mi ha chiesto di scrivere un libro della sua vita, quello che sognano di fare tutti e che ormai non puoi più negare a nessuno perché gli unici libri di narrativa che vanno sono quelli di autofiction. Se non hai raccontato i fatti tuoi in un libro allora non sei nessuno come narratore, non ti vuole nessuno. Mi diverte perché questa è la cosa che più spesso si rimprovera alla poesia, di essere diventata eccessivamente autoreferenziale. Il romanzo vende qualcosa di più ma non si stacca dall'adagio comune che per "essere libro" bisogna prima di tutto essere libro aperto, e calarsi le mutande con stile. Solo lo stile fa la differenza. Poi qualcuno che sbircia dal buco della serratura lo trovi sempre.

domenica 24 marzo 2024

dare scandalo

 C’è un momento esilarante e allo stesso tempo tragico nella lunga carriera di Molière di cui parla Cesare Garboli nel suo ultimo libro (Il «dom Juan» di Molière, Adelphi, 2005), ed è quando all’apice del successo come commediografo e impresario teatrale, dopo aver creato una maschera nuova e inaudita, quella di Tartufo, il servo che vuole farsi padrone e che deruba il proprio protettore di ogni suo bene attraverso l’astuzia e l’inganno – perché diversamente dai vari Arlecchino e Pulcinella, servi sciocchi che sanno stare al loro posto, Tartufo è una maschera modernissima, già borghese ed inserita nelle lotte di potere e che per di più indossa la tonaca, si dice in contatto con Dio! – al punto da creare uno scandalo a corte con la censura dell’opera e la richiesta da parte del re in persona, Luigi XIV, di una riscrittura che porta il copione originale da tre a cinque atti dove la nobiltà ingiustamente usurpata riesce a ribaltare la situazione e riprendersi il maltolto, restaurando (ancora per poco) l’antico regime; dopo questo scandalo, cercando di mettere una pezza alla programmazione dissestata della prossima stagione teatrale, Molière scrive in quattro e quattr’otto una nuova commedia in cui non crede molto nemmeno lui, attorno a una maschera spagnola giunta in Francia attraverso l’Italia, quindi per nulla originale, quella del libertino Don Giovanni, dunque non un servo ma un padrone stavolta, riadattandola qui è lì ma in modo tale da farne, quasi inconsapevolmente, lo specchio di una nobiltà orrendamente libera, arrogante, vuota di valori e priva di onore e peggio ancora di religione, più volte apertamente derisa, insomma qualcosa che la nobiltà dell’epoca avrebbe potuto essere se fossero caduti tutti i veli cerimoniali e le imbellettature dietro cui si nascondeva. La commedia è un successo strepitoso di pubblico presso la classe cittadina, ma dà di nuovo scandalo a corte, viene intesa come una satira del potere dunque in piena continuità col Tartufo, al punto che Molière, ormai considerato un sovversivo, ne viene quasi rovinato e addirittura processato. Ed è qui che sta il lato esilarante della faccenda, perché Molière non era un sovversivo, ma un autore di successo strettamente legato agli ambienti di corte da cui dipendevano le sue fortune, non aveva alcun interesse a irriderla e tutto questo, infatti, succede contro la sua volontà, senza che lui ne capisca davvero le ragioni, in quanto personalità come la sua non si inventano a tavolino “lo scandalo”, non ne hanno bisogno, lo danno semplicemente esistendo, respirando, pensando, facendo ciò che vogliono fare senza troppe esitazioni, ma solo perché “funziona in scena” dunque rende più forte lo spettacolo. Ci dice Garboli: “La vera accusa, che precede quella di empietà e di offesa alla religione, è di «dare scandalo», cioè di portare in scena e di mettere davanti agli occhi del pubblico ciò che le regole della decenza vogliono seppellito, sussurrato o taciuto. […] Quando Molière si difende dall’accusa di empietà invocando i diritti della professione, non mente affatto e non fa affatto l’ipocrita. Dice proprio la verità. Solo che, nel medesimo istante, difende il proprio diritto a dare scandalo. Difende il suo diritto di inventore del teatro moderno”. Molière insomma voleva solo fare arte, realizzare un’opera che facesse ridere gli spettatori, ma captando gli umori del tempo e usandoli a vantaggio della propria opera fa molto di più, scuote nel profondo la società dell’epoca punzecchiandola nelle sue ipocrisie. E tale fu l’onda di risentimento che lo sommerse che rimase solo, perse ogni amico, compagno, perse addirittura la moglie, al punto che poi riversò il suo malumore in un’opera dedicata alla falsità e alla volubilità degli affetti, il Misantropo, presentandolo come la fine di un periodo (e forse della vita), e non sapendo che ne avrebbe aperto un altro.

sabato 23 marzo 2024

parallelo

Film commovente, di grandissima bellezza visiva, La viaccia (1961) di Mauro Bolognini, con Jean Paul Belmondo, Pietro Germi e una Claudia Cardinale al culmine della sua bellezza, segna il passaggio dalla sua prima fase artistica, più originale sul piano dei contenuti attraverso le sceneggiature, spesso di Pasolini, alla seconda, dove si attiene a realizzare raffinate trasposizioni di opere letterarie, spostando il contenuto sullo stile, dove insomma il contenuto è lo stile. Non a caso il confronto con Visconti. Qui però le atmosfere rimandano ancora alla prima fase più nichilista e pregna di mal di vivere delle sue più recenti pellicole con Pasolini (non a caso torna la Cardinale come nel Bell’Antonio a dare volto a un amore tanto necessario quanto impossibile da trattenere). E infatti, lancio un parallelo, secondo me il finale con Jean Paul Belmondo che dopo aver dichiarato a sua madre che non può vivere senza di lei, attraversa correndo Firenze per rivederla sulle note della “Rapsodia per sassofono e orchestra” di Debussy ha secondo me una eco nel successivo Manhattan (1979) di Woody Allen, dove l’identica scena si ripete a New York sulla “Rapsodia in blue” di Gerswhin. Nel film di Bolognini questo amore è già segnato e infatti Ghigo (Belmondo) riuscirà a rivedere Bianca (Cardinale) scomparire dietro un vetro prima di allontanarsi per sempre, nel film di Allen, pur nell’imminente separazione, Allen offre una speranza a questo amore nell’ultima battuta di Tracy (Mariel Hemingway), “bisogna avere un po’ fiducia nella gente” e nel mezzo sorriso di Allen, uno dei suoi pochissimi su pellicola, che sembra quasi fare il verso a quelli così vulnerabili del giovane Belmondo.

post strega

Stamattina volevo scrivere un post sul Premio Strega Poesia. Questo perché una ragazza mi ha scritto di aver letto uno dei libri proposti e avendolo trovato brutto e insignificante non si capacitava della cosa, com’è possibile che un libro così brutto sia finito allo Strega? Mi piaceva l’idea di spiegarglielo per bene, perché non pensasse che anche gli altri libri potessero essere altrettanto brutti e insignificanti, alimentando un’idea fin troppo diffusa che non ci sono più buoni libri di poesia in Italia, cosa ASSOLUTAMENTE NON VERA anche se i primi detrattori del genere sono proprio i poeti che comprano poco, leggono meno ma parlano male di tutti; poi mi è passata la voglia di giustificare meccanismi che nemmeno io capisco, né approvo, non il premio in sé che è un premio come tutti gli altri per quanto imbellettato, ma più vicino alla patacca che al prezioso, ma proprio per come viene fatto, con una serie di difetti alla base che non sto a elencare perché tanto è inutile, nel mondo della poesia tutti sanno tutto ma fanno finta di niente come la folla che applaude il re nudo, poi ogni tanto qualcuno dice qualcosa di un poco scomodo e tutti esultano “oh finalmente qualcuno lo ha detto!”, e tu mio caro esultante non lo sapevi già che avevi bisogno di qualcuno che facesse la voce per te? Quindi preso dallo sconforto, tanto più che ero in fila in farmacia, le ho detto per sommi capi la verità, che per me il Premio Strega Poesia è un premio di serie B al punto che non ha nemmeno amici della domenica bensì editori della domenica che presentano i libri al ribasso, tanto per dire che ci siamo, e l’ho chiusa lì con un lieve senso di colpa perché le cose andrebbero spiegate meglio di come ho fatto io, altrimenti diventano lamentazioni e giudizi sommari, ovvero “chiacchiere e distintivi” da poeti della domenica come ce ne sono anche troppi in giro.

giovedì 21 marzo 2024

dalla cina

Giornata mondiale della poesia. Mi scrivono sulla chat della casa editrice per segnalarmi il profilo della loro azienda cinese che produce zappe da giardino e dicono: Questo può certo interessarvi!

partecipazione

Sullo schermo Jorge Riechmann un poeta spagnolo che sceglie di non usare più l'automobile né I'aereo per non partecipare nel suo piccolo all'inquinamento del pianeta, non essere complice. Un poeta italiano, lo so già, di fronte a tale decisione, lo definirebbe un coglione e/o illuso e aggiungerebbe che con una simile coerenza non salvi nessuno e ti complichi la vita, serve una rivoluzione, abbattere i padroni, che sono i veri colpevoli, ma nel frattempo non farsi riempire la testa di cazzate ambientaliste e vivere con ciò che si ha, senza rinunciare a nulla. Non potendo partecipare alla salvezza collettiva del mondo, che è una utopia, il poeta sceglie di partecipare alla sua distruzione, nel suo piccolo, come può.

mercoledì 20 marzo 2024

l'odore della poesia

«Poesia viene da pus» scrive Magrelli in Exfanzia, «poetare-suppurare-suppoetare», e a me viene da pensare, per associazione, a Filottete, l’arciere greco protagonista di una tragedia di Sofocle che viene abbandonato su un’isola deserta da Ulisse, mentre sono diretti a Troia, perché ha una gamba in cancrena che emana dalla ferita purulenta un odore orribile, un odore di morte in vita insopportabile; e che poi dieci anni dopo Ulisse stesso andrà a recuperare perché una profezia rivela che senza di lui e senza il suo arco infallibile la guerra di Troia non potrà essere vinta. Facile immaginarsi, a questo punto, come Ulisse, l’astuto Ulisse, sia il mercato editoriale teso alla conquista della città nemica (la letteratura) in cui è custodita la bellezza (Elena), e Filottete malmesso e zoppicante, ma pur sempre quello con la mira più lunga, sia la poesia abbandonata al suo destino mortale perché considerata inutile alla guerra. Eppure i presagi sono chiari, non c’è vittoria senza poesia, e allora bisogna tornare indietro, riprendere i rapporti, scusarsi, patteggiare, lusingarlo, ingannare se occorre l’orgoglio offeso del ferito, almeno stando a Sofocle. E sopportarne soprattutto l’odore mefitico, l'odore della poesia.

due bacheche

Quando nella stessa giornata leggi prima uno scrittore piuttosto seguito che sulla sua bacheca nomina Lorenzo Calogero descrivendolo per ciò che era, un grande poeta ammirato da Ungaretti e Montale ma dimenticato dai più, tanto che sotto c'è chi osserva stupito "non lo conoscevo" e tu pensi (mordendoti pure la lingua): "Per forza, era calabrese", però non è colpa loro, alla fine nemmeno i meridionali lo sanno cosa c'è in Calabria, e allora come fai a incolpare gli altri? E poi un altro che giustamente si lamenta che quando chiede ai suoi contatti di indicargli quali sono i capolavori letterari dell'anno ognuno gli propina una lista di venti trenta titoli, come se i capolavori li potessi cogliere dall'albero come le mele. Ecco lo iato che fa la differenza, quello per cui gattopardescamente 2+2 non fa mai 4 ma tutto sempre torna, a fare i conti, in quell’atomo opaco del male per cui tutto è capolavoro, per chi ne capisce, e nessuno è genio, e si merita per questo di morire solo.

un buon sceneggiatore

Ci sono incontri che ti cambiano la vita anche sotto il profilo artistico. A volte preso in giro come un Visconti minore, Mauro Bolognini fa parte di quella schiera di registi tecnicamente molto dotati ma che hanno bisogno di un buon sceneggiatore per risplendere. Nel suo caso il personaggio chiave della sua filmografia è stato Pier Paolo Pasolini che prima ancora di fare egli stesso del cinema aveva lavorato come comparsa e sceneggiatore con Mario Soldati e Federico Fellini. Con la collaborazione di Pasolini, che per lui scrisse e adattò alcuni soggetti assai innovativi per l’epoca, Bolognini ha dato vita al periodo artisticamente più rilevante della sua carriera, quello fra la fine degli anni ’50 e i primi ‘60, con titoli come Giovani mariti (che fa il verso a I vitelloni), La notte brava, Il bell’Antonio e il più volte censurato La giornata balorda. Dei quattro i più belli sono probabilmente i due centrali, con La notte brava, interamente scritto da Pasolini, che è un film straordinario, dal ritmo forsennato, che attinge tanto al noir americano quanto alle atmosfere borgatare e al mal di vivere tipici di Pasolini, e Il Bell’Antonio che riprende la trama di Brancati ma la rielabora e trasforma per renderne più forti le atmosfere nichiliste e mortifere, il senso di vuoto che lo pervade. Dopo questi Bolognini farà ancora degli ottimi film (La viaccia, Senilità), ma tenderà ad adeguarsi nei ‘70, anche su suggerimento proprio di Pasolini che gli diceva “tutto ciò che ti serve è nel libro stesso” (il problema, aggiungo io, è come lo leggi) su un cinema di trasposizione letteraria eccelso sotto il profilo formale ma forse privo di guizzi (con delle palesi eccezioni, come ad esempio il truculento e sardonico Gran bollito). Oggi Pasolini è più famoso, ma il loro fu un rapporto di vera amicizia, di scambio alla pari, tanto che lo stesso Pasolini, che molto aveva imparato da Bolognini in ambito di ripresa e montaggio, quando decise che era venuto per lui il momento di girare il suo primo film, dopo un bidone ricevuto da Fellini, venne aiutato proprio da Bolognini che si era innamorato del suo progetto e gli trovò nel giro di un pomeriggio un produttore, Alfredo Bini, non solo restituendogli il favore, ma contribuendo effettivamente alla creazione di Accattone.

martedì 19 marzo 2024

sgangarèd

Adesso che ha vinto la pigrizia non ne faccio quasi più, ma anche prima, quando partecipavo ai reading, preferivo sempre leggere, rispetto alle mie, le poesie degli altri, perché alla fine la poesia è condivisione di qualcosa che ti piace e sinceramente io non mi piaccio un granché. La poesia mi piace ancora, invece, anche se mi stanca parecchio. Ma prendendo insieme le volte che ho letto, posso dire che almeno fra le mie scelte le due poesie che in assoluto piacevano di più al pubblico, avevano in comune una cosa: il dialetto di Santarcangelo di Romagna, un luogo bellissimo che ho visitato anni fa con Clery Celeste. Delle due, una poesia d'amore delicatissima era di Raffaello Baldini e si chiamava IN DEU (In due) e l'altra, di Nino Pedretti, era E’ MI BA (Il mio babbo), che penso sempre contenga i versi più belli in assoluto mai scritti su questo argomento, e quella parola "sgangarèd" (sgangherato) che ti balla sulle ossa come un vestito troppo grande e tenuto stretto dalla cinta, l'odore buono della povertà e della terra, tanto che ogni volta che leggo i tre versi finali di quella poesia me li sento cuciti addosso come fossero miei in un'altra lingua. E sono versi, aggiungo, scritti in dialetto perché la lingua dei padri, o meglio ancora la nostra lingua affettiva è nel dialetto, cioè dentro la pancia, o meglio fra la pancia e la gola, non nell'italiano, che sta sopra, nella testa. L'italiano viene dopo, già traduce. E la poesia di Pedretti, bellissima, finisce così:

 
...e’ mi ba, fra i ba e’ piò sgangarèd,
l’a scrétt dréinta ad mè
tott al mi poeséi.
 
...mio padre, fra i padri il più sgangherato
ha scritto dentro di me
tutte le mie poesie.

lunedì 18 marzo 2024

autoscatti

Autrice che mi manda in visione una raccolta di poesie erotiche puntualmente illustrate da autoscatti col telefono in cui fa (o rifà) le stesse cose di cui scrive (ma sempre in reggiseno, perché c'è un significato). Io sfoglio l'opera e penso che forse preferisco le foto alle poesie, e credo anche che dovrebbero fare tutti così.

sabato 16 marzo 2024

la felicità è un grappino sincero per rompere le corna ai sogni

 

caso

Il caso letterario del giorno fra due amici che di sabato sera fanno discorsi noiosi. Io: Ma che Philip Roth lo pubblichi Adelphi invece di Einaudi di preciso cosa modifica nel nostro universo? Tanto per noi o che lo stampa uno o che lo stampa l'altro sempre davanti alle palle ce lo troveremo, e in tutte le librerie. E poi, va bene che è il colpaccio di Adelphi, ma a noi che non lavoriamo né per Adelphi né per Einuadi, fondamentalmente, che ci frega? Risposta del mio amico: A te non cambia nulla, a me rovina l'estetica dello scaffale che gli ho dedicato, vuoi mettere l'algila eleganza dei volumi Einuadi con pastelloni di Adelphi? Bleah!

venerdì 15 marzo 2024

margherita

Che ci vuole a fotografare una margherita? Niente. Ma pensa sempre che ogni singola margherita è unica e diversa da tutte le altre. Siamo noi che le consideriamo tutte uguali per il semplice motivo che la nostra vista è limitata da un pregiudizio e non siamo capaci di vedere le differenze.

puposkij

Dopo Jorit, ecco Pupo che "ispirato da un sogno" fa un concerto per la pace al Cremlino, tutto spesato per una settimana, dicendo che quella sarà la sua "trincea"... Povera pace, mi viene da dire. E povera gente in trincea. Leggendolo, mi è tornato alla mente uno sketch di Checco Zalone che una volta a Zelig con Stefano Bollani improvvisò un duetto basato sulla storia di un pianista romantico "russo meridionale" chiamato Gigi van Dalenskij, il quale aveva scritto i famosi "Notturni per la sola mano sinistra" ispirati al suo amore non corrisposto per Anna Tatanjalov, la quale gli aveva invece preferito Puposkij... Tutto torna, allora, in Russia, alla barzelletta, ai notturni per mano sola. Alla maschera di Pupo ovvero Puposkij. È inutile, Ruzante ce lo insegna, forse per la loro stessa storia gli italiani quando parlano di pace riescono solo a fare la commedia all'italiana. Fanno ridere con l'amaro in bocca.

stupidità politica

Sempre dal libro in traduzione a cui stiamo lavorando in questi mesi, si riporta il verbale di un accorato consiglio comunale avvenuto nel 1827, due secoli fa, in cui il sindaco di allora, Aprile, fece un discorso applaudito all’unanimità dall’intera giunta in cui si proponeva di riportare entro i confini del paese tutti i contadini di Locorotondo (che già all’epoca aveva il territorio rurale più densamente popolato della Puglia subito dopo Bari), motivando la sua decisione con l’idea che una vita in campagna, esposta completamente alla natura come quella che facevano i contadini di allora, tirava fuori le abitudini più "bestiali" e allontanava gli uomini dall’ordine e dalla legge. Scrisse quindi all’intendente provinciale perché mobilitasse le forze dell’ordine per uno spostamento coatto dei contadini verso il paese. Ma l’intendente, stupito dalla richiesta, rispose al sindaco che oltre a spostarli poi questi contadini dovevano anche mangiare e se li toglievi alla loro terra che cosa gli restava? Ma considerando con preoccupazione il decadimento morale degli stessi scrisse anche all’Arcivescovo perché si costruisse in campagna una nuova chiesa con tanto di casa per il prete. All’anima dei contadini, insomma, ci avrebbe pensato lui.

amica al telefono

 Amica che non si fa sentire mai, se non quando si lascia con qualcuno per farsi consolare, mi chiama all’improvviso dopo mesi. – Oddio, ti sei lasciata! – Ma perché pensi sempre questo di me, sempre questi luoghi comuni! Siamo amici o no? E se una persona è tua amica non può volerti chiamare solo per salutarti e sapere come stai? Basta Lì, sempre con questo tono giudicante, mi offendi! – Ok. Scusami, scusami… Allora va bene, come stai? Come va? – Oddio Lì, va tutto male, mi sto lasciando! E io vengo da te perché ho bisogno delle parole di un amico, e tu mi fai capire che sono prevedibile e scontata! Invece di consolarmi peggiori la situazione! – Adesso non esageriamo, non ho mai usato la parola “scontata”. Va be’, c’è qualcosa che posso fare per non peggiorare la situazione? – Basta che adesso non mi fai una battuta sulle tette o mi chiedi se ho il ciclo, non lo sopporterei! – Ma perché, ce l’hai? – Oddio, Lì. Sbuffa. Chiude il telefono.

giovedì 14 marzo 2024

annacquare la crisi climatica

Pare che a differenza di ciò che si crede, o addirittura si stigmatizza dicendo che ci vogliono solo terrorizzare con la paura di una crisi climatica per meglio controllarci, fatte le debite analisi negli ultimi due anni si parli molto meno di ambiente e clima, o meglio ancora si adotta una strategia di disinformazione per cui se ne parla tanto ma in maniera molto più superficiale e diluita, o annacquata, e spesso assai rassicurante – secondo la nota formula del bastone e la carota: il problema c’è ma si può curare – e limitando o addirittura censurando gli approfondimenti più seri, e questo perché la nostra stampa è sponsorizzata per la maggior parte da aziende legate alla produzione di combustibili fossili. In Italia, sostiene Greenpeace, l’unica testata di informazione che supera la sufficienza quanto a libertà di informazione è Avvenire, ed è tutto dire che il più libero dei giornali sia anche il meno laico. Non so bene che significhi, ma sono sicuro che qualcosa c’entri.

lunedì 11 marzo 2024

anatomia tito fall of rome

 

Libro sul senso ultimo di tutte le guerre, da leggere e rileggere, ANATOMIA TITO FALL OF ROME (L'Orma ed., 2017), riscrittura del Tito Andronico di Shakespeare a opera di Heiner Müller, contrappone due diverse idee di guerra, una “affaristica”, portata avanti dall’antica Roma che rappresenta qualsiasi potenza coloniale della storia e una più emotiva, bestiale, etnica o religiosa, portata avanti dai Goti assediati, che rappresentano “l’irruzione del terzo mondo nel primo mondo”. Divisi fra queste due concezioni della guerra, si salva nessuno in questo dramma? No. Sono tutti orrendi assassini, traditori, gente o pieno d’odio oppure calcolatrice. Così il generale Tito, “eroe” di Roma è in realtà un freddo calcolatore che prova a usurpare il potere imperiale con l’astuzia, prima favorendo come imperatore il candidato più debole e offrendogli in sposa sua figlia per meglio controllarlo per poi, quando da questi tradito, allearsi coi Goti contro Roma, per mettere suo figlio Lucio al posto dell’imperatore con la violenza. Lucio che prima si allea coi Goti poi una volta preso il potere li scaccia dalla capitale rinfacciandogli che “il Goto è un negro è un ebreo”, smascherando in questo modo l’evidente razzismo che si cela dietro ogni conquistatore. Né i Goti, d’altronde, sono da meno, se mossi da un odio atavico perpetrano stupri di gruppo e mutilazioni sulle donne, ammazzano bambini senza colpa perché meticci, godono dell’umiliazione del nemico. Lì dove ciascuno rimprovera all’altro le sue colpe senza mai ammettere le proprie e il tutto viene suggellato dalla battuta “Fate che il vostro dolore non muoia come sono morto io”, ovvero non smettere di soffrire, di ricordare come sono morto ingiustamente e di trasformare il vostro ricordo in odio. In tal senso la figura chiave della vicenda è proprio quella del generale Tito, che è un uomo di potere, mosso esclusivamente dalla ragion di stato e dal calcolo, che diventa pazzo quando la vendetta dei Goti lo smuove e lo fa entrare nell’altra dimensione della guerra, quella delle vittime, motivata esclusivamente dall’odio e dalla brutale vendetta. In questo senso Müller parla di “irruzione”, nel senso di assimilazione di una mentalità ferina, viscerale, in una affaristica della guerra, e dove, per vincere, il gerarca non può che abbandonarsi ai propri istinti esattamente come i suoi nemici. Müller diceva con amore che di Shakespeare “odiava” la perenne attualità. A me è capitato di leggere questo testo mentre il papa chiedeva di trovare il coraggio per arrendersi e trattare. Probabilmente lo chiedeva alla classe politica. Ma mi sono chiesto, per noi che siamo abituati a considerare la guerra solo in questa chiave “affaristica” (si fa la guerra per soldi, per interesse, quindi soddisfatto l’interesse la guerra può finire e chi è stato stuprato sia silenziato per il bene di tutti), come si fa a chiedere di concludere una guerra motivata dall’odio etnico o religioso che sia (e parlo di una qualsiasi guerra africana o mediorientale)? Con quali parole? Se io ti voglio morto per nessun’altro motivo che ti odio, al punto da considerarti meno di una mosca da stritolare sul tavolo (per usare un’immagine di Müller), come farò mai a venire a patti ragionevoli con te? Come faccio a trovare un accordo sul piano “economico” se tutto ciò che mi interessa è vederti annientato come uomo? Serve molto più che un bravo mediatore per questo. E infatti nell’opera di Müller, così come in quella di Shakespeare, perché ci sia finalmente la pace devono morire tutti, in una sorta di massacro corale che cancellerà ogni memoria o rancore, meno che Lucio, il futuro imperatore, che avendo combattuto su entrambi i fronti ha assimilato i linguaggi di entrambi.

domenica 10 marzo 2024

l'ultimo uscito

Ci pensavo ieri, dopo un post in cui parlavo del regista Antonio Pietrangeli. Quasi nessuno fra quelli hanno letto il post conosceva il regista. Ho pensato che nel cinema funziona esattamente all’opposto che in letteratura, dove si conoscono e leggono più facilmente autori e opere di sessant’anni fa che non i contemporanei. Nel cinema spesso si conosce l’ultimo uscito, ma non è detto che si sia mai visto un classico.

sabato 9 marzo 2024

vera gloria

Premio Mia Martini 2006. Fra gli ospiti c’è Franco Califano a cui chiedono di recitare uno dei suoi monologhi. Califano all’inizio sembra un po’ imbarazzato, dice che hanno un linguaggio poco “vaticanesco”, però cede e recita il meno spinto, «un monologo sul dubbio di una paternità che si chiama Pasquale l’infermiere». Prima di recitarlo lo introduce così: «ho scritto questi monologhi tantissimi anni fa, e perché io ero “poco” si chiamavano “le storielle di Califano”, e qualche moralista, finto moralista naturalmente, storceva il naso; poi, dopo, con l’aumentare del successo hanno cominciato a chiamarsi “monologhi”; quando sarò scomparso si chiameranno “sonetti”, perché in questo paese muori e sarà vera gloria». E qui, sulla parola “sonetti” ti rendi conto di quanto ci fosse alla base dei “monologhi” di Califano, che sono anche triviali, ma attingono a una tradizione colta e popolare insieme, in primis alle poesie in romanesco di Giuseppe Gioacchino Belli (che insieme al milanese Carlo Porta è stato forse il più grande poeta dell’Ottocento italiano), e sarebbe bello che i suoi tanti ascoltatori non solo lo riconoscessero a Califano, ma lo avessero letto insieme a lui.

venerdì 8 marzo 2024

meno di nulla

Non l'ho letto ma a una prima occhiata dell'indice questo libro pubblicato nel 2023 (che pure ha intuizioni interessanti come dedicare un capitolo al confronto di due autori romani come Zeichen e Bordini) mi dice che nella poesia del Novecento i meridionali hanno contato meno di un cazzo di nulla. Infatti rispetto ai pur pochi che aveva messo Mengaldo nella sua antologia, qui Berardinelli li elimina tutti, o meglio non li ha mai considerati (visto che mi pare di capire che il lavoro prende spunto da una serie di saggi). È vero che ne mancano tanti all'appello, ad esempio Magrelli o un qualsiasi dialettale, ed è vero che la storia poetica italiana (che è pure storia di potere editoriale) l'hanno fatta gli altri. Però in tutto il 900 nemmeno un nome nato a sud di Roma con esempio di tutto ciò che il nostro Meridione si porta dietro in termini di differenze e specificità culturali sociali e linguistiche, è come affermare che in Italia tutto è paese, tutto uguale, tutto omologato, e non è vero. Non lo è stato nell'intero 900 e non lo è nemmeno adesso.

lacrime di rimmel

Parlando di giornata internazionale della donna, ho visto ieri sera Sick of Myself (2022) di Kristoffer Borgli e al di là dell’estremizzazione di alcune situazioni (col volto deformato di lei che in fondo è un’attualizzazione “social” del ritratto di Dorian Gray, con la ragazza che, come in una sorta di patto insano, più degrada nella morale e di contro aumenta nella fama, più si fa orrenda in viso, lì dove il suo viso e la sua immagine coincidono, sono la stessa cosa), devo dire che il film mi ha fatto soprattutto pensare al cinema di Antonio Pietrangeli, uno dei nostri registi meno conosciuti eppure uno dei più lungimiranti, che alle donne ha dedicato i suoi film più belli. Proprio come le varie eroine di Pietrangeli (in particolare quelle di Nata di marzo, La parmigiana e Io la conoscevo bene), che sono donne immerse nel tumulto dei primi anni Sessanta, quando il primo boom economico stava sconvolgendo ogni rapporto sociale e famigliare, Signe, l’eroina di Borgli, è una donna incapace di “accontentarsi” di ciò che ha fino al punto da inventarsi delle strategie di “guerriglia” basate sull’inganno per far emergere la propria personalità sulle altre in una sorta di gara col proprio compagno, ma sempre tendendo a un nuovo squilibrio che rilanci la partita in avanti. Anche il compagno di Signe, Thomas, come tutti gli eroi di Pietrangeli è inadeguato alla situazione che vive e pertanto si ritrova a mostrarsi per quello che è, un uomo debole, profittatore, furbo, vanitoso, vittimista, continuamente in gara col proprio ego come i vari Nino, Piero o Roberto di Pietrangeli, o l’Adolfo di La visita che nella sua abiezione è l’unico a mostrare un po’ di luce nel momento stesso in cui si scopre, di fronte ai rimproveri di Pina, e ammette di essere un mostro. Signe invece, come le varie Francesca, Dora, Adriana, è patologicamente bugiarda, egoista, pronta a tutto per ottenere qualcosa che nemmeno lei sa definire, e soprattutto per niente simpatica, tanto che lo spettatore può anche capirla, provarne pietà, ma non riesce a empatizzare con lei, allo stesso modo in cui lei non riesce a empatizzare con gli altri, se ne sente di continuo distaccata e tutto si riduce a una osservazione più o meno coinvolta di se stessa nell’altro. Due squilibri, quelli di Signe e Thomas, che proprio come nei film in bianco e nero di Pietrangeli, non si riassestano appoggiandosi sull’altro, ma anzi raddoppiano la propria carica autodistruttiva e portano così all’infelicità o a una posticcia felicità di entrambi. Meglio allora la solitudine. Aggiungo come nota di colore che il viso della Ferragni truccata come Joker uscita sull’Espresso, mi ha fatto pensare soprattutto a un incrocio fra la Signe di Borgli e l’Adriana di Io la conoscevo bene di Pietrangeli (interpretata da Stefania Sandrelli) che piange lacrime di rimmel .

giovedì 7 marzo 2024

basta che non si paga...

Gentilissimi, vi ho trovati nell’elenco degli editori gratuiti e vorrei pubblicare una raccolta con voi. – Buonasera, ha avuto almeno modo di dare un’occhiata alla nostra linea editoriale? – Veramente non ci ho fatto caso, ma non preoccupatevi, non mi importa molto dell’estetica, basta che non mi chiediate il contributo.

mercoledì 6 marzo 2024

il capolavoro

“PLAY SOMETHING WE KNOW!" suonaci qualcosa che conosciamo, grida una ragazza dal pubblico (in una sorta di remake di quella volta in cui 60 anni fa qualcuno dal pubblico lo chiamò Judas perché aveva stravolto il suo suono elettrificandolo) ripresentando l'annoso problema di ogni artista, se ripetersi all'infinito per assecondare il pubblico o "tradirlo" e andare avanti per la sua strada in nome di quella cosa chiamata ricerca artistica. Dylan potrebbe mandarla a fanculo come aveva già fatto 60 anni fa, invece ci pensa su e risponde suonando, in una versione rigorosamente riarrangiata, "When I paint my masterpiece", quando dipingerò il mio capolavoro. Genio.

 

martedì 5 marzo 2024

un quarto di un martello

Mentre sto lavorando alla traduzione di un libro, mi capita sotto gli occhi l'inventario dei beni di un bracciante del sud che muore improvvisamente ai primi del '700 lasciando alla moglie e ai suoi tre figli piccoli quanto segue: "una sottana rossa, un lenzuolo di tela, una coperta di lana verde sfilacciata, una sciarpa rossa, un tavolo di pino, due sedie usate, una piccola zappa da giardino, una vecchia zappa di medie dimensioni, una quota di un quarto di un martello da muratore, una cassapanca di pino, una scala di legno, cinque brocche di creta, quattro piatti e una coppa grande di creta." Più il trullo in cui vivevano in cinque e una piccola vigna. È una storia di povertà estrema, tanto che alla sua morte la moglie è costretta a ipotecare il trullo e la vigna per sfamare i figli, ma così restano senza casa. Chissà cosa è successo loro, come se la sono cavata. I documenti non lo dicono e così ci resta solo questa traccia e la forza e la caparbietà della donna che fa mettere per iscritto questo elenco per i figli. Fra le altre, la voce più commovente di tutte è quella quota di "un quarto" del martello da muratore, che non era tutto del contadino ma ne divideva il possesso e l'uso con altri tre e l'inventario lo metteva per iscritto così che i figli dell'uomo, ancora piccoli, non perdessero quel diritto nel tempo.

distributori (ancora)

Autore che dopo il post dell’altro giorno sui distributori continua a farmi domande per capire qualcosa che non afferra. – Ma se prendono loro (cioè i distributori) il 60% del prezzo del libro, non è come se guadagnano loro più di te che hai messo la materia prima? E se finiscono le copie dei libri, chi le ristampa, le ristampi tu? E se devi ristampare anche le copie con quello che ti rimane, dov’è esattamente che ci guadagni qualcosa? Non capisco, non mi piace. – Lo ripete tre-quattro volte di seguito, e in effetti non lo capisco nemmeno io, ma a forza di sentirglielo dire, non capisco non mi piace, non capisco non mi piace, non capisco non mi piace, mi viene da ridere e smetto di preoccuparmi. – Tanto a breve, ma questo non glielo dico, si farà tutto col print on demand e non solo tutta questa storia sarà passato, ma io stesso come editore sarò sorpassato e gli autori si autoprodurranno i libri online. Già succede, del resto. Smetteranno, insomma, di lottare per non pagare gli editori per finire tutti quanti a pagare le piattaforme digitali dei distributori. E quelli vintage torneranno in tipografia.

lunedì 4 marzo 2024

vincere (cosa?)

Quel momento in cui realizzi che sì siamo sull’orlo di una guerra mondiale e non perché lo dice Putin ma perché lo dice la Von Der Leyen, e che l’unica speranza rimasta al mondo per evitarla non è la diplomazia europea ma l’elezione di Trump negli USA, ovvero di un pazzoide fascista che ieri ha irriso pubblicamente la donna che lo ha battuto a Washington dicendo che è “una pezzente col cervello di gallina” e pensa che il posto giusto per le donne nel mondo non sia a fare politica ma stare piegate sotto le scrivanie a sollazzare il presidente di turno. Perché questo è Trump, uno che se fosse italiano vincerebbe a mani basse le elezioni per i prossimi vent’anni.

poesie

Mia madre che mi chiama per dirmi che mentre metteva ordine in un cassetto ha trovato due poesie di mio padre, una d'amore dedicata a lei e una invece indirizzata a Giuseppe Conte. Perlomeno papà pensava in grande.

sottotazze

Ci sono delle volte che mi chiedo, e non solo io, che fine fanno tutte le copie omaggio che si spediscono in giro all’attenzione di gente che non saprà mai che farsene e non ne farà niente. Perché è vero che i libri dovrebbero vendersi, ma è più vero che nella maggior parte dei casi, e soprattutto fra gli addetti ai lavori che sono i più poveri ma per questo anche i più taccagni, vanno regalati. Alcuni li abbandoneranno negli angoli, altri proveranno a donarli alla biblioteca di quartiere, altri ancora finiranno al riciclo, qualcuno ammuffirà in cantina mai nemmeno aperto, nemmeno per farne una foto sui social. Il mio amico Bogdan, che era un creativo e apprezzava le copertine, usava i miei libri per farne degli orologi da muro, non potevi leggerli ma ti davano conto del tempo che passava. Mentre ieri mi è arrivata una foto di una giornalista a cui ne avevo spediti alcuni, che non è riuscita a scriverci nulla (figurati, mancando una trama di che vuoi scrivere?), ma visto che le piacciono, li tiene sulla scrivania e li usa come sottotazza per il caffè. Siccome la carta che uso è riciclata le mezzelune lasciate dalle tazzine ci stanno anche bene. Ma quando l’ho vista ho pensato menomale che non li tiene in bagno.

domenica 3 marzo 2024

alberi

Oggi a rimonnare gli alberi da frutto. Io sono in ritardo, è vero, ma pure gli alberi sono in anticipo se alcuni stanno già fiorendo. Mio zio li guarda e mi dice questo sì e quello no, indicando quelli che è già tardi per toccarli. Ce ne avete di alberi aggiunge, sottintendendo che sarà un lavoraccio. Merito e colpa di mio padre. Pensare che fino a tre anni fa queste erano tutte cose che si vedeva lui. Non ti preoccupare mi dice mio zio, a furia di farle le impari anche tu.

sabato 2 marzo 2024

tenerezza

La tenerezza è sentirsi chiamare dall'altra parte della piazza da un bambino che ti saluta e poi si gira orgoglioso verso suo padre e gli dice: Quello è il maestro mio!

il distributore

Parlando di problemi editoriali, negli ultimi quattro anni ho lavorato con un distributore che ora sto lasciando perché è più di un anno che non mi paga una fattura. I primi due anni tutto è andato bene, il terzo ho cominciato ad avere problemi, il quarto anno è stato un disastro. A questo distributore sono arrivato dopo aver chiesto referenze ad altri editori che mi hanno assicurato che con loro si era comportato benissimo e quindi mi ci sono avvicinato con fiducia. Né sono stato l’unico, se tale distributore si pregia di avere un quantitativo di clienti, fra piccoli editori indipendenti, molto alto. Quindi non so a da cosa derivi questo comportamento, se sia stato un problema solamente mio o riscontrato anche da altri, fatto sta che – parlo per me – è da dicembre 2022 che tale distributore continua a rendicontarmi (con rendiconti a mio avviso poco chiari specie sulle voci di sovrasconto) libri venduti che io puntualmente fatturo, ma quando invio la fattura non mi viene bonificata. All’inizio mi sono lamentato, poi ho cominciato a innervosirmi. Ma ogni volta che sollecito il pagamento o non mi rispondono affatto, o se n’escono con qualche giustificazione (dove alla fine pare quasi sempre essere colpa mia per un motivo o per l’altro), oppure se m’incazzo se n’escono con la solita frase lapidaria “giriamo in amministrazione” con l'amministrazione che non mi ricontatta mai, nemmeno alle PEC, e così rimpallano di mese in mese i miei solleciti. Insomma, per ogni libro di Pietre Vive che siete andati a ordinare in una libreria di catena o avete acquistato su IBS negli ultimi mesi io ad oggi non ho recuperato nemmeno le spese di spedizione. È come aver preso decine di libri stampati a tue spese e averli regalati a uno più ricco di te, la sensazione è quella. In particolare questo mi è capitato con un titolo, “Agostino” di Michele Paoletti, dove a me risultavano vendute in libreria, durante una presentazione dell’autore (estate 2022), un’ottantina di copie che il distributore non mi aveva mai rendicontato. Quando l’ho redarguito, quasi otto mesi dopo la presentazione il distributore ha fatto un controllo, mi ha detto che avevo ragione (guarda un po’), mi ha fatto fatturare le copie vendute (nel 2023!) e non me le hai mai pagate. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per cui sto chiudendo il rapporto, con tutte le lentezze del caso sui resi, ma ancora non so quando, come e se recupererò le cifre che loro stessi definiscono “non elevate” (anche perché ricordiamoci che io vendo libri di poesia, mica bestsellers da migliaia di euro). E la fregatura è proprio questa, che per cifre simili non vale nemmeno la pena fargli causa. Né il danno è tale che possa rovinarmi, però brucia, quello sì. Ora il problema, si dice da più parti, è che serve spezzare il monopolio della grande distribuzione, perché la loro mission è monopolizzare il mercato strozzando i piccoli editori (lo ha spiegato benissimo Giulio Mozzi in un suo post), ma se cerchi di venire fuori dalle pastoie della grande distribuzione (in un mondo che ti chiede di continuo di essere distribuito) andando in direzione “ostinata e contraria”, ovvero attraverso canali laterali che sono più vicini alla tua visione delle cose, ti imbatti spesso in realtà che si dicono “alternative” ma che poi di alternativo non hanno proprio niente. E a questo punto mi tocca ammettere che ha ragione chi sostiene che per fortuna c’è Amazon. Sarà a suo modo disumana, ma forse proprio per questo ad oggi è l’unica che non mi ha dato grosse fregature e paga puntualmente ogni mese.