sabato 30 dicembre 2023

chi soffre tutto l'anno...

Un paio di settimane fa mi ero preso uno strappo muscolare alla schiena. Pensavo fosse passato poi ieri ho avuto la geniale idea di potare la siepe con mio fratello. È finita che sto peggio di prima, come se avessi una sbarra di ferro che si conficca fra il fianco e l’inguine e poi si torce nella gamba. Adesso sono imbottito di antidolorifici ma stanotte ho sofferto come un cane e non riesco a trovare una posizione comoda perché che stia steso o seduto o in piedi mi fa male sempre. L’anno finisce, insomma, così com’era cominciato, con me che mi lamento di qualcosa che prima o poi passa o se non passa mi uccide (qualcosa mi ucciderà comunque prima o poi, quindi o la va o la spacca). Del resto la massima di ogni bravo poeta è quella: chi soffre tutto l’anno soffre pure a capodanno, e se non soffre si annoia.

venerdì 29 dicembre 2023

Parlo con pregiudizio, ma solo perché di cinema non so quasi nulla. Leggo titoli compiaciuti per il fatto che il film della Cortellesi, C'è ancora domani, abbia superato in incassi Barbie fra i film in cartellone nel 2023 e La vita è bella di Benigni nella classifica dei film italiani più visti di sempre (ma senza arrivare a Tolo Tolo di Checco Zalone che detiene il primo posto: altro che Fellini e Antonioni o Monicelli, ormai i primati al cinema, come in politica, non si conquistano se non passando dalla TV). Ma questo, considerando che sia quello su Barbie che il film di Benigni sono tutto fuorché capolavori, secondo me non depone a favore né del film della Cortellesi, né del pubblico, né dello stato di salute del cinema italiano stesso. Io almeno, salvo pronti scongiuri, mi eviterei certi paragoni che portano male.

giovedì 28 dicembre 2023

non proprio un selfie a locorotondo città dell'eterno natale, ma si avvicina...


 

bellezza

Oggi mentre compravo l’ultimo libro dell’anno, un piccolo saggio su Walter Benjamin e il suo angelo (la cui immagine è ispirata a un acquerello di Paul Klee del 1920), mi è venuto da pensare che in fondo il noto adagio “La bellezza salverà il mondo” è una sana cazzata, e lo dimostra praticamente proprio il fatto che alcune delle opere d’arte più meravigliose del 900, in ogni campo (dalla pittura alla poesia alla filosofia al cinema all’architettura), siano state prodotte in Germania fra le due guerre mondiali, in risposta a un periodo di gravissima crisi economica e sociale, e nonostante questo non solo la bellezza in esse contenuta non ha salvato proprio niente e nessuno, ma tale arte è stata disprezzata come “degenerata”, censurata, bruciata e spazzata via dal male del secolo. Unica consolazione, almeno per noi, questo male chiamato nazismo non era che un marchio copiato e perfezionato industrialmente all’artigianale fascismo italiano. Insomma, ancora una volta il Made in Italy ha dettato lo stile del tempo.

un tempo piccolo

Mi capita spesso di discutere con gli autori in merito alle copie da stampare del loro prossimo libro. Più o meno succede così. Ogni volta che valuto un libro se penso che quel libro non venderà più di 50 copie ne stampo 200. Se penso a 100 copie ne stampo 300, e così via. Ma, salvo rari casi, non vado mai oltre le 400 copie. Loro mi chiedono ogni volta perché non ne stampiamo 1000, il numero perfetto. Perché 1000 non le vende quasi più nessuno, dico io che conosco i numeri, quello è un retaggio del secolo passato, di quando la gente comprava i libri, o i dischi, e andava al cinema e a teatro, perché non aveva ancora i social e le fiction per riempire il tempo. Anche fra chi scrive e legge conosco poche persone che sanno parlarmi con competenza dei nuovi libri in uscita in un mercato definito selvaggio (e per cui non hanno mai abbastanza soldi, infatti non comprano, chiedono i libri in regalo e poi si lamentano che l’editoria non paga), però ne conosco a decine che sanno elencarmi tutte le fiction in abbonamento streaming che divorano a stagioni con annesse e puntuali notazioni critiche, perché se un mondo lo frequenti ti formi un gusto, e ne sai anche parlare. Anche questo è un segno dei tempi. A volte penso che gli autori non si accorgano nemmeno che è cambiato il loro/nostro tempo, sempre più stretto, marginale, e il loro è diventato uno spazio non di nicchia, ma di scarto. Non è nemmeno colpa loro, semplicemente alcuni vini sono per pochi palati, e ad altri piace la birra. Tu sei palato da birra o da vino? chiedo loro per consolarli. In genere si buttano tutti sul vino. Solo uno, una volta, mi disse di essere astemio e si offrì di rollare una canna.


pensiero estemporaneo

Faccio un pensiero estemporaneo. Certi giorni di fronte ai mali del mondo mi sento come quando sono a scuola, incapace per natura di farmi considerare dai bambini una figura autoritaria, tanto che quando cominciano a fare casino e grido State buoni mi guardano incuriositi e continuano eccitati e indifferenti a fare chiasso. Si calmano solo quando qualcuno mette loro paura, in genere la maestra o il bidello. Così io vi vedo, voi che vi agitate ogni giorno per le guerre in corso, e penso che siete come me in classe, magari riuscite a farvi guardare, magari riuscite ad alzare la voce fino a farvi sentire, ma poiché non avete l'autorità necessaria a zittire nemmeno il più piccolo di loro, non siete in grado di fermare un bel niente, nemmeno tutti insieme, nemmeno uniti come un corpo solo, a meno che non scendiate in piazza e cominciate a dare fuoco alle auto o pestarvi con la polizia come fanno in altri paesi, creando disordine che coinvolga anche gli altri. E questo perché il paradosso di dire che Io sono contro la guerra si scontra spesso con l'evidenza che una guerra, che è fatta di violenza e di paura, non si ferma col desiderio di pace, ma soltanto con una forza oppositiva soverchiante, con la minaccia di una violenza più forte, o sul piano economico o su quello militare, che ti può schiacciare, proprio come a scuola quando parte il casino incontrollato e tu, volente o no, devi alzare la voce e inchiodarli alle sedie.

mercoledì 27 dicembre 2023

il tavolo

Un esercizio che ho fatto fare ai bambini poco prima delle vacanze: disegna una mappa di casa tua ed evidenzia coi colori l’angolo di casa che preferisci e dimmi perché. Fra gli altri, che in genere hanno scelto la propria stanza, una bambina ha colorato il tavolo della cucina, perché mi spiega che i genitori lavorano entrambi e l’unico momento in cui stanno tutti insieme è quando mangiano. Quello è il suo momento preferito della giornata e per questo ha voluto dargli il colore azzurro del cielo.

martedì 26 dicembre 2023

i sogni son desideri

Siccome siamo romantici, viviamo nella rassicurante convinzione che chi la fa l'aspetti, che se qualcuno ci fa qualcosa di brutto prima o poi la ruota karmica gira e la stessa cosa capiterà anche a lui/lei così che finalmente capisca come siamo stati noi. L'esperienza però insegna che la nostra è una pia illusione e che alcune persone (la maggior parte) sono così ottuse, egoiste o egotiche che non ci arriveranno mai, magari subiranno il danno ma non arriveranno mai a fare due più due perché questo significherebbe mettersi in discussione o, più semplicemente, non gli fregava abbastanza di noi fin dall'inizio per cui nemmeno si ricordano di averci conosciuto e ferito. Pertanto io resto uno della vecchia scuola e ogni volta che mi capita per prima cosa mi auguro sempre che un'auto lo/la metta sotto al primo incrocio o gli/le venga una colica renale. Magari è un po' eccessivo ma di sicuro è più efficace e in ogni caso, si sa, sognare non ha noi ucciso nessuno (purtroppo).

cinema e fascismi

Ieri ho visto due film del regista Georg Pabst, Il vaso di Pandora e Diario di una donna perduta, entrambi del 1929 ed entrambi con protagonista Louise Brooks, e pensavo che Pabst è stato uno dei pochi registi “fortunati” a non essere nato ebreo, per quanto considerato un “bolscevico”, così da non essere costretto ad emigrare in America, ma soltanto a girovagare per l’Europa alla ricerca di lavoro con l’avvento del nazismo, realizzando per sopravvivere molti pessimi film che ne rovinarono in parte la carriera. Buona parte del cinema di Weimar, il cosiddetto cinema espressionista tedesco, durato appena una ventina d’anni, a cui si devono molti dei primi capolavori del Cinema del 900 (da Metropolis a Nosferatu) venne realizzato da artisti confluiti dall’Europa dell’est a Berlino (proprio come il ceco Pabst), i quali poi da Berlino furono costretti a scappare dal nazismo, o perché ebrei (Lang, Wilder, Lubitsch, ecc.) o perché omosessuali (Murnau) o perché comunisti (Brecht). La maggior parte di questi registi, spesso ebrei, si rifugiarono oltreoceano a lavorare per Hollywood, richiamati da produttori ebrei che crearono così un vero e proprio impero basato su uno stile cinematografico che attingeva a piena mani dall’espressionismo tedesco per esplorare una nuova serie di generi (dal noir all’horror, dalla commedia sofisticata alla fantascienza) che modificarono completamente l’immaginario americano, spalancandogli ad esempio gli orizzonti del desiderio e del sesso, lì dove la cultura americana era (e rimane) profondamente bigotta e sessuofobica, tanto che in seguito a tali stimoli si ritenne necessario istituire un codice Hays apposta per censure tutto il censurabile. Cosicché l’America, proprio come la Germania, sviluppò degli anticorpi alle proprie pulsioni sotterranee (quelle che smuovono il pensiero) e cominciò a perseguitare proprio quegli artisti sfuggiti al nazismo, attraverso il Maccartismo, che fu un complesso meccanismo di denuncia in puro stile fascista, basato sul ricatto e sulla delazione, creato apposta dalla lobby WASP per spezzare le gambe alla lobby sionista, colpevole di essere arrivata a controllare la più grande fonte di condizionamento sociale e suggestione delle masse (i pecoroni americani) allora in circolazione: il cinema. Il quale, ancora condizionato da questa ventata di novità portata dai profughi europei, ebbe la forza di reinventarsi e rendersi “indipendente” per una ventina di anni ancora, prima di venire del tutto spazzato via negli anni Ottanta dalla televisione, mentre i registi emigrati o comunque non inquadrati vennero pian piano, con le buone o con le cattive, rispediti al mittente alla fine del conflitto, ovvero esiliati in Europa (vedi, ad esempio, John Huston, Orson Welles e l’inglese Charlie Chaplin).

lunedì 25 dicembre 2023

sogno della galleria

Stanotte in sogno ho visitato la galleria dei miei stessi sogni, che stava nascosta su di un’isola rocciosa in un palazzo di roccia custodito da un trafficante di sogni chiamato Romero. La galleria era divisa per sale, c’erano sogni italiani e delle Fiandre, sogni da cucina pieni di nature morte e sogni della scala a chiocciola con predominante di giallo. Sogni antichissimi che, pur essendo miei, stavano lì da molto prima di me. Me ne ricordo uno in particolare, datato intorno al 1100 e poggiato su un leggio, che aveva l’aspetto di una formella di cera dorata e semitrasparente. L’ho preso in mano per osservarlo meglio e il sogno mi si è sciolto fra le dita perché era fatto di miele.

domenica 24 dicembre 2023

una triste canzone di natale (che poteva essere ancora più triste)

Negli ultimi giorni mi sono studiato la storia, assai divertente, di un celebre standard di Natale, Have yourself a Merry Little Christmas, che almeno sul mercato americano è il sesto brano pop-natalizio più inciso di tutti i tempi, e non è poco. Molto del suo fascino agrodolce deriva dalla particolare mistura fra la malinconia della musica e l’ottimismo delle parole, le quali però sono il frutto di diversi compromessi produttivi successivi alla sua composizione. La canzone venne scritta in piena Seconda guerra mondiale, da un giovane compositore di Hollywood, Hugh Martin, che per età avrebbe potuto essere chiamato sotto le armi in qualsiasi momento; venne quindi scritta con l’ansia di dover partir soldato. Gli era stata commissionata per un film innocuo con Judy Garland, Meet me in St. Louise (1944), che parlava di una famiglia che si deve trasferire dal paesino a New York e dove lei è una ragazza che ha paura di perdere i vecchi amici e il fidanzatino (Tom Drake). L’idea della partenza alla base del film stimolò la vena creativa di Martin, ma ne venne fuori una canzone talmente triste (col primo verso che diceva “Cerca di passare un felice Natale, perché potrebbe essere l’ultimo”) che la Garland si rifiutò di cantarla e la canzone rischiò di essere cestinata perché invece l’autore la sentiva così sua che non voleva modificare il testo. A tal proposito ci sono due versioni della stessa storia su come poi vennero apportate le modifiche che ne fecero il successo commerciale che è diventato. In una, raccontata da Tom Drake (il fidanzatino della Garland nel film), Drake prese Martin sottobraccio e gli fece un discorso da adulto: “Senti, questa è una grande canzone ma non fare il testardo, lavoraci ancora, modifica il testo dove serve e vedrai che diventerà un successo”. Nella seconda, riferita da Hugh Martin, c’è Drake che lo afferra per il collo della camicia e gli sbraita contro: “Brutto figlio di zoccola, chi ti credi di essere? O aggiusti quella stronza canzone o giuro che ti appendo al muro!”. Non si sa di preciso come sia andata, fatto sta che Martin ci lavorò ancora, venendo incontro alle esigenze di produzione (col testo che da pessimista diventò speranzoso: “Datti la possibilità di passare un felice semplice Natale, lascia che il tuo cuore sia leggero, l’anno prossimo tutti i nostri problemi saranno finiti”) e la canzone rimaneggiata divenne in breve tempo così famosa, catturando evidentemente lo spirito del suo tempo, che lo stesso Martin, quando poi partì soldato per davvero e si scoprì che ne era l’autore, finì nel reparto musicale della sua compagnia, e non si fece un solo giorno di combattimento: quindi, possiamo dire, che la musica gli salvò la vita. A questo punto ci sarebbe da chiedersi se la sua canzone avrebbe avuto lo stesso successo se fosse rimasta fedele alle sue intenzioni esplicitamente malinconiche. Avrebbe toccato le stesse corde del pubblico? Chissà. Fatto sta che dieci anni dopo Frank Sinatra lo ricontattò perché voleva incidere una sua versione della stessa canzone, ma ritenendola ancora troppo triste, gli chiese di addolcirla ancora un poco, e Martin che aveva capito la lezione, seppur a malincuore rimise mano al testo. Così, coi diritti d’autore derivatigli da tutto questo lavoro che ha trasformato la sua canzone di Natale in un successo internazionale, ci ha campato il resto della sua vita.

sabato 23 dicembre 2023

reputazione

Guardate che la distribuzione – che certe volte pare la sola cosa che interessi agli autori che mi chiamano per avere informazioni sulla casa editrice – è importante, ma non è che Magrelli o De Angelis vendano più copie perché pubblicano con Einaudi o Mondadori, casomai è il contrario, sono Einaudi e Mondadori che vendono più copie perché pubblicano Magrelli o De Angelis. Poi certo, se hai Messaggerie dietro, è più facile trovare i volumi in giro e acquistarli. Ma se ti chiami Gigetto Strabuzzi e ti pubblica Mondadori e ti distribuisce Messaggerie, non credo proprio che tu possa vendere chissà quante più copie di prima. Anzi, se arrivi lì e non vendi a un certo standard, le prime che ti bruciano sono proprio loro, le case editrici diranno che sei un investimento a perdere e non ti pubblicherà più nessuno a quel livello. Certe volte, allora, quando mi chiedono questa cosa della distribuzione, soprattutto gli esordienti, mi verrebbe da rispondere, come fece una volta Patti Smith a chi le chiedeva come si fa a diventare un’artista: “fatevi una reputazione, lavorate alla vostra opera, crescete come persone, non venite a compromessi che vi possono svilire, e allora, se avete qualcosa di serio da dire, a un certo punto saranno gli altri a cercarvi”, cioè con un po’ di fortuna – che serve almeno quanto il talento – sarà Mondadori a venire da voi e non il contrario. Ma prima di tutto la reputazione, quella e il lavoro che siete disposti a fare. Persino il tanto criticato Arminio, per arrivare lì dove sta, si è costruito una reputazione, si è fatto un mazzo tanto come tutti e molto più di altri. Non sta lì per i suoi versi che possono piacere o no, sta lì perché sta sempre in giro da anni, a promuoversi, non snobba nessuno, nemmeno l’ultima libreria del paesino più infimo. Mentre ci sono persone che ancora non hanno pubblicato un libro e già si lamentano che gli editori non coprono loro le spese del prossimo tour di presentazioni in giro per l’Italia. Ma va.

regalo

Gentile editore, le scrivo per farle i miei auguri di Buon Natale e Buon Anno e visto che ci sono ne approfitto per inviarle il mio ultimo lavoro che spero sia per lei un regalo gradito. Buone feste!

natale 2023

Per questo Natale mi piacerebbe condividere quella che secondo me, se la poesia ha ancora una possibilità di fare da collante sociale, unire i cuori e dare coraggio a chi le si avvicina, è la più bella poesia del 900. È una preghiera scritta da un pastore protestante americano, Reinhold Niebuhr, negli anni 30 di questo secolo e venne adottata pochi anni dopo dagli A.A. nel loro programma dei dodici passi per il recupero dalla dipendenza. C’è una bellissima scena, in un film di Abel Ferrara, Tommaso (2019), ambientato a Roma con Daniel Dafoe che recita in italiano, in cui i primi passi della preghiera vengono recitati da un gruppo di recupero romano. Sono tutti in cerchio per mano, e Ferrara entra nel cerchio e li segue con la telecamera a spalla riprendendoli in viso uno per uno mentre recitano. È una scena di grande intimità e comunione, in cui ciascuno cerca di perdonare se stesso e si scopre più forte nello sguardo e nell’abbraccio finale degli altri. Migliore poesia per Natale mi pare che non ci possa essere.

Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare le cose che posso,
e la saggezza per conoscerne la differenza.
 
Vivendo un giorno per volta;
assaporando un momento per volta;
accettando la difficoltà come sentiero per la pace.
Prendendo, come Lui ha fatto, questo mondo peccaminoso così com’è,
non come io vorrei che fosse.
 
Confidando che Egli metterà a posto tutte le cose, se io mi arrendo al Suo volere.
Che io possa essere ragionevolmente felice in questa vita,
e infinitamente felice con Lui, per sempre, nella prossima.

giovedì 21 dicembre 2023

il tempo dell'amore

Time to love (1965) di Metin Erksan, film turco di sapore fortemente antonioniano, nelle atmosfere umide e sospese, nell'uso dei silenzi e del rumore in chiave espressiva, nell'uso di un bianco e nero che grida i colori, nel taglio di alcune scene e dialoghi, nella storia di un amore irrisolvibile espresso attraverso un simbolismo che è già pura poesia. Un uomo si innamora della fotografia di una donna, la quale a sua volta si innamora di lui che la respinge in carne ed ossa, creando una sorta di contesa sentimentale fra lei e la propria immagine. Il tempo dell'amore è tutto lì, in questo prendersi e lasciarsi, rincorrersi, trovarsi e poi perdersi di nuovo fino a domani.

la conta dei saluti mancati

La vita di paese ha senso anche per tutti i saluti che mi mancano quando vado in giro, i cosiddetti vuoti a perdere. Così esco di casa e faccio la conta di chi non mi saluta. Uno non mi saluta perché nel 2003 dissi una cosa contro di lui e non me l'ha più perdonata. Una non mi saluta perché le sto simpatico ma il marito è geloso (intellettuale del cazzo, mi ha definito una volta). Uno mi saluta ma sbaglia sempre il mio nome e forse persona, perché ha la demenza senile ma la famiglia lo lascia andare da solo per strada. Uno non mi saluta perché sta al comune e io faccio solo post, mi dicono, dove mi lamento del comune. Uno non mi saluta più perché nel frattempo è morto e così mi resta soltanto da guardare il suo posto vuoto sulla panchina quando passo. Lilletto, mi diceva, statte bbune.

mercoledì 20 dicembre 2023

lista

Guardando la lista dei libri letti nel 2023 dal poeta Andrea Temporelli mi sono messo a ripensare a cosa ho letto io nell’ultimo anno e mi sono accorto che, almeno a memoria, da un bel po' non ci sono (quasi) più romanzi sulla mia scrivania: i romanzi non riesco più a leggerli, mi creano una fatica immensa solo a pensarli e quelli che ho comprato e cominciato li ho abbandonati quasi tutti ai primi capitoli, o li ho letti con una lentezza estrema, estenuante (alcuni ci ho messo anche due anni per finirli). Insomma, mi sono ridotto sempre più e sempre peggio alla poesia e al racconto più o meno lungo, o più o meno breve (quelli che posso iniziare e finire in un giorno o due), e alla saggistica cinematografica, col cinema che ormai mi piace quasi più della poesia: soprattutto quello straordinario della prima metà del 900 (appena un secolo di vita hanno i primi capolavori del cinema muto e siccome vivono in un periodo circoscritto a circa una decina d’anni sono quasi perfetti come fenomeno artistico da osservare). Nello sconfinato mondo del romanzo, invece, si salva ancora qualche voce, qualche classico, ma il resto mi annoia tantissimo. Una cosa però gliela devo riconoscere al romanzo. Nella mia vita ho conosciuto una marea di cretini che scrivono poesie pensando che sia una cosa facile, e sono una tale massa che alla fine, in uno spazio così stretto, la loro onda è quasi uno tsunami, quando passa spazza via tutto; invece ho conosciuto molti meno cretini che scrivono romanzi, perché secondo me molti ci provano – con l’identica convinzione della facilità del mezzo – ma cadono sulla distanza, si arrendono prima di arrivare alla fine, insomma fanno la stessa fatica che faccio io a immaginarli. Ecco, io al romanzo riconosco questo spazio più ampio, dove magari c’è lo stesso numero di cretini della poesia, però appunto è più ampio e bene o male ci respirano tutti, cretini e non, e quei pochi che arrivano alla fine del libro sono talmente macroscopici che tu li riconosci a colpo d’occhio e così puoi subito scansarli.

martedì 19 dicembre 2023

louise prima di lulù

Mi è capitato ieri di vedere due film, entrambi girati nel 1928, in cui emerge per la prima volta sullo schermo la figura di Louise Brooks, icona del cinema muto che divenne un modello di stile e di sensualità moderna, anticonformista, incestuosa e androgina insieme, stregando almeno due generazioni di spettatori, non ultimo Guido Crepax che a lei si ispirò per la sua Valentina. Il primo di questi film è A Girl in Every Port, commedia di Howard Hawks in cui la Brooks è già femme fatale, ma terza incomoda (e infedele) fra due amici che se la contendono nel classico triangolo amoroso; il secondo è l’assai più bello e interessante Beggars of Life, di William A. Wellman, che crea una strana mistura fra il Chaplin di The Kid e L’opera da tre soldi di Brecht. Nel film una ragazza ricercata dalla polizia per l’omicidio del suo stupratore (la Brooks, qui coprotagonista) si traveste da uomo (sembra un ragazzo in realtà, con tutte le ambiguità del caso), e si unisce a un hobo (Richard Arlen) che la adotta e se la porta dietro in viaggio sui treni merci o nei campi notturni improvvisati dai barboni intorno a un fuoco. Il film, considerati anche il genere e l’epoca, è abbastanza realistico, crudo e diretto, per quanto non scada mai nel dramma: comincia, ad esempio, mostrando un uomo a cui hanno sparato alla testa; in un flashback si allude allo stupro subito dalla ragazza; ancora, uno dei barboni si accorge che “il ragazzo” è una ragazza quando lei si piega in avanti e lui le guarda il culo; in un’altra scena i vari barboni la fissano immaginando di farle violenza di gruppo e organizzano un processo fittizio per decretare chi debba averla per primo; e fra gli altri c’è persino un nero! La pellicola ha buon ritmo e scorre con molto piacere perdendo qualcosa nel finale. Restano bellissime, in un bianco e nero pieno di luce, le scene di vagabondaggio o in corsa intorno ai treni, che rimandano tutte a una tradizione letteraria che va da John Steinbeck fino a Woody Guthrie. La Brooks, che per essere stata una vera star della sua epoca, ha girato pochissimi film, sbagliando clamorosamente quasi tutte le sue scelte artistiche (ad esempio rifiutando qualsiasi partecipazione all’avvento del cinema sonoro e così bruciandosi la carriera in patria), dopo questo girerà un altro film negli Usa, il noir La canarina assassinata del 1929 (ancora un ruolo minore in cui fa l’assassinata), poi volerà in Germania per legare il suo nome al regista George W. Pabst che le cucirà addosso il conturbante personaggio di Lulù in tre film splendidi su cui è stata costruita tutta la sua gloria postuma: Il vaso di Pandora e Diario di una donna perduta, entrambi girati da Pabst nel 1929; e Prix de beauté, produzione francese del 1930, scritto da Pabst con René Clair e diretto da Augusto Genina, in una vera e propria lavorazione internazionale che avrebbe dovuto spalancarle ogni porta del successo. Eppure nel 1931 la carriera della Brooks era già finita.






Fine modul

lunedì 18 dicembre 2023

il minchiamorta

 Un amico che sa quanto amo questi pezzi di colore, mi ha appena segnalato un gustoso post di Antonio D’Orrico in cui D’Orrico prende a prestito la stroncatura di una sua amica all’ultimo libro di Trevi e lei, parlando dell’irresolutezza irritante dell’autore/personaggio Trevi nel romanzo, lo definisce, con un termine inelegante e credo desunto dal siciliano, un “minchiamorta”. Qui, confesso, ho cominciato a perdermi, perché io sono di formazione un postnovecentesco e quindi stando alla descrizione della ragazza Trevi l’avrei definivano semplicemente “inetto”. “Minchiamorta” però, è vero, è più colorito e D’Orrico prende a prestito la definizione per dire che ci sono in giro altri autori “minchiamorta” e così cita molti romani (quelli che sbavano sullo Strega), torinesi (quelli che sbavano per Einaudi, ad es. Paolo Giordano) e milanesi (quelli che sbavano su tutto il resto, ad es. Paolo Cognetti). E qui ho fatto ancora più confusione, perché non ho capito se D’Orrico usa la parola “minchiamorta” per definire quegli autori stanziali che gravitano parassitariamente intorno ai luoghi di potere editoriale, oppure quelli che a tali luoghi fanno il piedino in maniera finto disinteressata, come se fosse la versione maschile di “gattamorta”. Già quest’ultima definizione, però, non c’entra nulla con la stroncatura a Trevi. Insomma, detta così, se vivi fra Roma e Torino e sei uno scrittore di successo sei condannato di default a essere una “minchiamorta”, o mi sbaglio? Non ne parliamo se nel frattempo hai pure vinto lo Strega! Ma di “minchiamorta”, aggiunge D’Orrico, ce ne sono tante anche in provincia, mica solo in città, vedi ad esempio Franco Arminio… E qui però io mi sono perso definitivamente sul significato autentico della parola, perché che io sappia Arminio si lamenta tanto ma sta sempre in giro, come una trottola lanciata, il suo mi sembra il Neverending tour di Bob Dylan, altro che irresoluto! Ma anche Cognetti, gli puoi dire tante cose sui suoi libri, ma è uno che fa le escursioni in alta montagna, è stato in Tibet come Brad Pitt, e si beve da solo una bottiglia di whisky per fare a gara col fantasma di Hemingway! Io che a malapena esco di casa la domenica sono certo più “minchiamorta” di loro. Eppure, mi dico, visto che sto molto lontano dal potere editoriale, ignorato dallo stesso potere come l’ultimo scartino, potrei anche definirmi un “minchiaviva”, che ne so, o un “minchiatanta” per citare Frank Zappa. Ma poi, mi chiedo, e se fosse una donna l’oggetto del contendere, si può dire che quella scrittrice è una “minchiaviva” pure lei? O suona maschilista e inelegante? E se ci mettiamo la schwa? Insomma, cari amici siciliani, me la sapete dare voi una spiegazione? Che caspita significa “minchiamorta” in letteratura?

barba

Sto in fila davanti al caseificio. Forse per ammazzare il tempo, la signora che sta davanti a me si gira per attaccare bottone, e gesticolando per farsi capire mi dice a voce alta: Tu, stai qui da tanto? – Io penso che sia sorda e le rispondo a voce altrettanto alta: No, signora, solo cinque minuti, sto dopo di lei! – La signora, allora, a sentirmi parlare italiano, scoppia a ridere e si fa tutta rossa: M'à scusè, belle giovene, pe tutte chera varve mbacce me credève ca jère une de fuore.

domenica 17 dicembre 2023

leave her to heaven

 Visto ieri per la prima volta Leave Her to Heaven (1945) di John M. Stahl. Mea culpa, considerato che è in realtà un classico del melodramma noir, anche se nel particolare clima degli ultimi dibattiti italiani sul “patriarcato sì, patriarcato no” acquista delle sfumature particolari. Tutto il film, che ha il sapore di una tragedia greca in salsa hollywoodiana, è costruito sul complesso di Elettra di cui soffre la protagonista, la bellissima amazzone Gene Tierney, al punto da ribaltare completamente tutte le regole del noir classico secondo cui l’antieroe di turno (il duro dal cuore tenero) deve sì difendersi dall’infida dark lady, ma solo perché lui è innamorato di lei che il più delle volte – perché le dark lady nei noir sono donne sentimentalmente emancipate e per questo fanno paura – non lo ricambia o lo usa soltanto per raggiungere i propri scopi. In questo caso, invece, lui (Cornel Wilde) che è tutto fuorché un antieroe si fa accalappiare da lei che non solo lo ama, ma lo ama alla follia, di un amore possessivo e geloso, quindi del tutto disinteressato ma allo stesso tempo disturbato. Così che il romanticismo tipico di ogni amore patinato viene qui gonfiato fino a diventare paradossale e soffocante. Questo perché la protagonista è mossa da una passione incestuosa per il padre – morto non si capisce bene come, ma si insinua il dubbio del suicidio – e sceglie quindi di sedurre e sposare un uomo appena conosciuto (Cornel Wilde appunto) perché assomiglia al padre morto. Da ciò scaturiranno una serie di tragedie dove lui, vittima di cotanto ingombrante amore in cui fa da controfigura, subirà, da brava controfigura, il suo fato senza opporsi, rovinandosi la vita; e dove altri perderanno la vita, compreso il loro stesso figlio per cui lei non prova nessun affetto: perché lei vuole restare figlia, non diventare madre. Tutto ciò viene intinto in un technicolor luminosissimo che fa molto Peyton Place e avvolge di una luminosità tanto ipocrita quanto bigottamente americana ogni possibile ombra. E anche in ciò vi è qualcosa di sovversivo rispetto al canone solito del noir, che si rifaceva invece a stilemi desunti dall’espressionismo tedesco: tutto in bianco e nero e pieno di chiaroscuri d’ambiente che riflettevano quelli interiori, con violenti contrasti di luce che spesso annullavano prospettiva e profondità di campo per proiettare l’azione in uno spazio angusto, indeterminato e onirico. Qui tutto è (apparentemente) chiaro e spazioso, addirittura ambientato in angoli di paradiso terrestre incontaminati e separati dal resto mondo. Troppo bello per essere vero, al punto da suonare falso e creare un sottile e continuo stato di inquietudine. David Lynch, immagino, lo avrà sicuramente tenuto a mente pensando al suo Twin Peaks.



 

lavoro duro

Ogni tanto qualcuno, parlando del suo libro o manoscritto, mi dice “eh, ci ho lavorato tanto” come se fosse un titolo di merito o una giustificazione ai suoi possibili difetti. Ma questo, sinceramente, non significa granché. Se si potesse quantificare la qualità di un’opera in tempo dedicato alla scrittura, basterebbe timbrare il cartellino per 8 ore al giorno per un certo numero di anni e ciascuno di noi porterebbe a casa due o tre divine commedie prima di andare soddisfatti in pensione. Purtroppo non funziona così, la cura che ci metti può essere ammirevole da un punto di vista umano e professionale, ma la qualità di un’opera si regge su altri presupposti: sul labor limae in alcuni casi, certo; ma sull’istintiva illuminazione in molti altri; sulla capacità di visione che ci permette di osservare, come da un satellite, il nostro tempo o addirittura intuire quello futuro (ma sempre col senno di poi); ma anche su una genuina e brutale ineleganza, scaturita dall’emergenza di dire tutto e subito, che spesso sbaglia completamente il tiro ma vince in espressione; e anche sul coraggio, se occorre, di buttare nel cesso ore e ore di lavoro, di scrittura a cui ci siamo affezionati, in cui ci siamo esposti in prima persona, per assecondare l’opera che cresce e ci domanda di farci un po’ da parte per mettersi in luce e respirare da sola.

sabato 16 dicembre 2023

l'arte della sopravvivenza

Apro a caso questo libro strano, Artisti della sopravvivenza (Einaudi, 2022) di Hans Magnus Enzensberger, che è una serie di caustici ritrattini di 60 scrittori del 900, molti dei quali assurti a miti con o loro malgrado, a cui Enzensberger spezza le gambe senza pietà. Prima ancora che scrittori, dice lui, sono stati uomini e donne, e in quanto uomini e donne soggetti alle leggi della sopravvivenza, e a volte della vanità, spesso e volentieri sono venuti a compromessi col potere, lo stesso potere a cui poi nei loro libri si opponevano. Apro a caso e trovo due ritrattini uno accanto all'altro, quello di Curzio Malaparte e quello di Bertolt Brecht. E mi fa sorridere leggere cosa ne scrive: che tanto ha imparato da Brecht di cui rispetta immensamente il talento, il genio poetico, la lungimiranza politica, per quanto fosse un uomo infame, uno sfruttatore sul lavoro, uno a cui il comunismo aveva messo i paraocchi verso lo stalinismo, e per di più uno che puzzava; quanto ritiene Malaparte uno scrittore sopravvalutato e politicamente senza capo né coda, un bugiardo senza vergogna e senza paura, un voltagabbana da romanzo d'appendice, eppure proprio per questo suo non appartenere ad altri che a se stesso, si vede (e si vede bene) che a Enzensberger Malaparte, il fascistissimo Malaparte, stava simpatico, assai più simpatico del maestro Brecht. Dove non arriva il genio artistico, arriva sempre l'arte della sopravvivenza.

come finiscono le storie

 Siccome adorano le storie, racconto una storia ai bambini. Nella storia, un uomo molto povero decide di cambiare il suo destino, così sale a cavallo e si mette in viaggio per fare fortuna. – Un bambino subito mi riprende: Maestro, così non va, si deve impegnare di più! – In che senso? – Se l’uomo è molto povero, cosa gli fa mangiare al cavallo? – Hai ragione! Voi come fareste? – Io venderei il cavallo e mi comprerei la macchina! – Ma anche la macchina ha bisogno di benzina per muoversi! – Ma la macchina è più veloce del cavallo, ride un altro, arriva prima che finisce la benzina! – Io con papà andiamo a 300 km orari e siamo velocissimi! Vrooommmm! – Io, dice un altro bambino, se avevo tanta tanta fame come quell’uomo, non lo vendevo, mi mangiavo il cavallo. – Povero cavallino, però! Te lo mangiavi davvero? – Sì, però lo facevo ammazzare a nonno.

venerdì 15 dicembre 2023

epidemia

Varie fonti mi dicono che PLPL è stato più ancora che un contenitore sano di cultura un contenitore a basso dosaggio di Covid. Che non ha ucciso nessuno ma ha contagiato un'intera generazione di appassionati di libri. Fosse successo un paio di anni fa probabilmente avrebbero dato fuoco con i lanciafiamme ai libri, come in Fahrenheit 451, agli editori, scrittori e lettori tutti. Oggi per fortuna chiunque può tornare a casa ad infettare i propri cari.

il mondo al contrario

Il guaio degli zainetti di oggi, mi diceva ieri un bambino, è che sono impermeabili da dentro come da fuori, e così, quando ci versi dentro una bottiglietta d’acqua, l’acqua non può scivolare fuori. È per questo che i libri dentro si rovinano, è per colpa dei materiali con cui fanno le cose. Se facevano i libri di stoffa impermeabile e gli zaini di carta, il mondo andrebbe certamente meglio.

giovedì 14 dicembre 2023

Ecco i libri che ho fatto uscire quest’anno, 9 titoli da editore + 1 che non abbiamo pubblicato noi, ma ho scritto su commissione. A rivederli ora non so nemmeno come ho fatto a trovare la forza o la concentrazione per finirli. Per quanto mi riguarda, il 2023 è stato e resterà l’anno della SLA, che è una malattia terribile perché oltre a toglierti tutto ciò che può, ti toglie anche il respiro e col respiro il sonno. Ho perso il conto delle notti di sonno perdute accanto a mio padre che non poteva dormire privato del respiro, solo per arrivare al giorno dopo, stremato, con la voglia che il giorno finisse il prima possibile. Questi libri sono stati scritti o immaginati o realizzati ai margini di quel sonno rubato alla malattia, mentre mio padre riusciva per poco a dormire e io a trovare un po’ di pace nel terrore della sua prossima morte. Ora potrei dire, molto romanticamente, che questi libri sono stati un’ancora di salvezza, ma non è vero, più di una volta mi sono sentito affondare così tanto nello sconforto della mia impotenza che mi sono detto: Adesso basta, io chiudo, io non ce la faccio più. Invece andavo ostinatamente avanti. Poi è morto mio padre e, anche se mi sento ancora così stanco da non saperlo dire, ho ripreso a respirare. Nonostante l’orribile annata che sta per chiudersi, vado molto fiero di questi libri. Sia per la mia storia personale, in quanto sono stati il mio atto di fede nell’arte, la mia personale resistenza al male; sia come editore, perché indipendentemente dalla mia piccola storia, sono tutti ottimi libri, meritevoli di attenzione. Il meglio che potessi fare e ho fatto.

come fate?

Ho appena finito due ore di lezione con una classe elementare di bambini peraltro adorabili e ora che mi sono fermato mi fanno male le ossa. Ma voi che lo fate per lavoro e ci passate la vita, come fate? Basta il pilates? O sulla lunga distanza serve un chiropratico?

mani

Un paio di anni fa Valerio Magrelli mi scrisse per dirmi che dei libri miei che aveva letto il suo preferito era uno intitolato Rivelazione, una raccolta di prosette famigliari tutte incentrate sulla vita nel mio paese. Di tutti i testi del libro il suo preferito era questo qui sotto, Brace. Oggi mi sono ricordato che era anche il preferito di don Franco, il vecchio parroco, uno di quei parroci che sta nella chiesa per stare dalla parte degli ultimi. Me lo ripeteva ogni volta che mi incontrava e ogni volta che lo diceva, senza nemmeno accorgersene, portava in avanti le mani verso lo stesso vaso.

BRACE. Sono due badanti e ogni sera, all’angolo fra la bottega del fruttivendolo e la vecchia pescheria, si incontrano per fumare insieme l’ultima sigaretta della giornata e scambiarsi poche parole di conforto nella loro lingua madre. Hanno meno di trent’anni e stanno lì in tuta e pantofole, riparate dal vento, ridono piano, e quei suoni indecifrabili sono pronunciati a fil di labbra, con tatto e cautela estremi, quasi fossero preziosi vasi di terracotta pieni di brace, che si passano a turno per riscaldarsi.