mercoledì 30 maggio 2018

la sostanza delle cose

Siccome è un po' di giorni che mi capita, andando in giro per il paesino, che qualcuno mi chieda dove si può comprare il mio libro e, soprattutto, se vale la pena comprarlo (giuro che mi è stato chiesto anche questo e non sapevo se mettermi a ridere o meno per non offendere chi me lo ha detto), rispondo in maniera molto franca e democratica che trattandosi di un libro se si va a cercarlo in libreria di sicuro non sbagliate. Se, ovviamente, lo state davvero cercando. Quanto al fatto se valga o meno la pena comprarlo non dovrei essere io a dirlo, perché se dico di sì allora pecco di modestia e se dico no faccio un danno all'editore che ha creduto in me. (Eppure l'omino fetente che mi covo dentro a volte avrebbe tanta voglia di rispondere che se consideriamo la montagna di superfluo in cui spendiamo i nostri soldi giornalmente, il mio libro sarebbe la perfetta ciliegina sulla torta di quella che è la sostanza delle cose: la cacca in cui credo siamo immersi. Intendiamoci, non è un gran male, anzi dicono che fa bene alla pelle. Infatti intorno a me vedo sempre tante persone gggiovani, che non fanno altro che sorridere e fanno anche domande intelligenti del tipo: dove si comprano i libri?)

martedì 29 maggio 2018

poesia con innesto

Il martedì controllo ospedaliero.
Mi salva dalla noia in sala attesa
Alfonso Guida che canta la «polvere
cadere dai muri verde-acqua di ogni
stanza». Non ci sono sedie vuote
in questo carico di morte preannunciata.
Né pace
nell’avvilente brulicare della carne
di vecchio che si affaccia con la lista
delle prescrizioni – l’ago conficcato
nel braccio per l’innesto necessario
di dolore che abbiamo da spartirci
morso a morso, vero corpo e vero sangue
di Cristo. Sfacciata all’improvviso
balugina nel solco d’emergenza
un’infermiera soda e assai bellina
nella divisa ancora immacolata
di neo segnata dalla morte. In lei
si avanza una carica ferina che scoppia
nel suo petto salutare
per noi che stiamo immobili in attesa
che si sprigioni il male. Lei passa e
ci sorride e in quella luce verdolina
richiama la mia carne al suo patire
l’istinto irrimediabile alla vita
che spinge ad obbedire
«senza morte al presente, al suo gioire»
la prepotente smania di ragazzo
 di morderle mai sazio le mele.
Nulla è perduto! – mi dico
se il vecchio puntandole il fianco
mi preme sul gomito e l’ago
mi rincresce nella carne ormai nemico.

l'aria

Una delle gioie più grandi che sto provando in questi giorni mi viene dal fatto che quei pochi avventurosi che hanno comprato il mio libro di racconti, quando ho chiesto loro quale fosse la storia che preferivano, mi hanno risposto tutti in maniera diversa, indicando ora un titolo ora un altro, che per me è la prova più evidente che abbiamo fatto un buon lavoro, creando un’opera minuta ma trasversale che può catturare l’attenzione di più persone. Non è cosa da poco per me. Alla fine, se ci ho messo tanto a pubblicare un libro così è perché ho sempre avuto paura di non essere abbastanza bravo e di non avere nulla di importante da dire. Il fatto di avere scoperto che non fossi il solo a pensarlo un po’ mi conforta, nel senso che mi accorgo di come non fosse una mia paura infondata, ma un pregiudizio reale, di tanti, anche di alcuni miei amici. Credo sia l’ambiente in cui siamo cresciuti che sia, per sua stessa natura, eccessivamente competitivo, ma proteso allo svilimento piuttosto che all’incoraggiamento, qualcosa che tende a schiacciarti col pregiudizio che comunque non sei abbastanza buono per questo o per quello. Io ho cominciato in famiglia e non ho mai finito di sentirmelo dire. Dover ogni volta ricominciare da capo, persino a quarant’anni, per dimostrare di essere in grado di fare qualcosa di buono, è parecchio faticoso, talvolta ti sfianca. Però è anche vero che fa bene alla persona che sono diventato cercando di sopravvivere a tutto questo, uno che prova a dare leggerezza a tutto, persino all’aria che respira.

lunedì 28 maggio 2018

melodramma

Non c’è nulla da fare, l’italiano medio è per sua stessa natura portato al melodramma: non per nulla è nato qui il genere. Forti sentimenti, intrighi, anima e core. C’è tutto quello che ne può catturare l’attenzione, muovere lo spirito ai più alti principi democratici. Verdi lo aveva capito, è da lì che passa l’unico possibile senso dello Stato dei nostri cittadini, da lì e dall’odio per il tiranno di turno. Ecco perché, se si parla di amministrazione spicciola, lotta alla criminalità e corruzione, difesa del paesaggio, integrazione, pari opportunità, rispetto della cosa pubblica, rispetto basilare delle regole (che è pur sempre politica) l’italiano medio se ne sbatte altamente i coglioni, ma basta che gli dai un poco di colore, di romanzo popolare, e subito gli si risveglia il sangue nelle vene, lo spirito di parte e di partecipazione, il fervore nazionale o la tifoseria calcistica su chi ha ragione o torto, su chi è buono e cattivo, bello o brutto, con tanto di scommesse con battutina sconcia su chi si tromberà la Tosca alla fine, e senza che questo incida minimamente sul fatto che domani, indipendentemente dal chilo di stronzate che si è detto oggi e dal disastro che in ogni caso ci aspetta, si torni al bar amici più di prima per prenderci un caffè assieme.

domenica 27 maggio 2018

utopia

Ieri sera a Disimpegno. appunti intorno all'abitare Pierangelo Caramia, architetto, ha detto cose assai illuminanti sul proprio mestiere. Fra le altre, questa mi ha particolarmente colpito, perché parlando di architettura ha riassunto un concetto applicabile credo all’arte in tutte le sue forme. L’architettura, ha detto Caramia, si divide sostanzialmente in due tipi: c’è l’architettura fatta per conoscere e l’architettura fatta per riconoscere. Quest’ultima si muove su schemi già esistenti, già provati, che siano facilmente identificabili, ed è fatta per rassicurare l’uomo rispetto all’ignoto, all’infinito che ci si para innanzi; la prima, sperimentale, è un salto nel buio, proteso all’utopia, che è per se stessa necessaria ma destinata al fallimento. L’architettura pura tende sempre all’utopia.

sabato 26 maggio 2018

estinzione

Confesso di essere sempre più sfiduciato sul senso “politico” di ciò che faccio. Anche io, come tanti, sono convinto che le grandi rivoluzioni del genere umano siano frutto della cultura e non della politica. E anche io ho sposato a lungo la teoria del complotto, l’idea che la cultura venisse di continuo vessata e avvilita dalla politica perché togliendo la cultura alle masse era più facile controllarle. Invece, più vado avanti in questo mio lavoro “culturale”, più ne faccio esperienza concreta, e più mi convinco che non c'è nessun complotto. Semplicemente il nostro popolo ha avviato una rapida e irreversibile metamorfosi che lo sta trasformando in un branco di capre governate da altre capre. Il riferimento alla capra non viene da Sgarbi, ma a Landolfi e Saba. Questo mi addolorava, perché una capra è sempre una creatura di pena, destinata al macello. Eppure ieri Francesco Santoro ha detto una cosa assai acuta, che va preso atto che l’estinzione è parte integrante della natura, che anche noi ci estingueremo, e assumere questa verità è un gesto di maturità verso la vita.

venerdì 25 maggio 2018

felicità

Una mia amica scrittrice oggi mi ha detto: Ho letto il tuo libro di racconti e mi è piaciuto tantissimo. Sono troppo felice per aver scoperto che scrivi così bene.
Io scherzando le ho detto: Perché, non ti fidavi?
Lei scherzando mi ha risposto: No.

pensiero sulla privacy

Sono a favore della privacy e tutto, ma bisogna essere pratici, se vuoi mantenere la tua privacy intatta e virginale, allora fai come mio cugino e ritirati in campagna senza computer e con un vecchio telefono. Limitati a fare acquisti nel negozio dietro casa. Paga in contanti. Evita le banche. Non prenotare voli. Non andare all'estero. Insomma, sforzati di vivere con la discrezione che aveva tuo nonno invece di scassare le palle a me con tutta questa caterva di adempimenti che non ci salveranno dal fatto che se entri nella rete ci resti intrappolato per sempre, nell'attimo stesso in cui ti fai un account di posta elettronica, altro che diritto all'oblio. Che, per la cronaca, è un diritto non più riservato manco ai morti.

giovedì 24 maggio 2018

snob

Stamattina, in libreria, con un atteggiamento in cui non mi riconosco e di cui un poco mi sono vergognato, mi sono ritrovato davanti allo scaffale di poesia, per la maggior parte occupato dalla bianca di Einaudi. Così, per abitudine, ho dato una scorsa ai titoli, ne ho aperti un paio a caso e poi, quasi scocciato, ho rimesso tutto a posto mentre pronunciavo la parola: “Cacatine”. E mi sono sentito in colpa per averlo detto a voce alta.

mercoledì 23 maggio 2018

senza infamia

Stamattina il mondo social che mi si è costruito intorni negli ultimi anni è diviso fra chi piange Roth, chi ricorda Falcone e chi beatamente non sa né del primo né del secondo. E, almeno per il primo, non è detto che sia poi una tale infamia.

domenica 20 maggio 2018

egregio

Un amico qualche giorno fa mi ricordava – perché spesso tendiamo a scordarcelo fino al punto di averne ridotto il senso all’ossequio scherzoso – che uno dei massimi elogi per i latini era “egregio”, la cui etimologia spicciola intende: “che sta fuori dal gregge”. È una cosa che non tutti possono permettersi di dire, anche se in troppi sono convinti di essere unici e speciali. Ciò che li distingue, però, è soltanto il colore della lana.

parole prestate a persone e libri inutili

supermarket

«Bianciardi! Allora la vita agra è finita! Sei arrivato al successo! Eccolo qua il successo, come un cantante contornato dalle ammiratrici a firmare autografi, bravo!» 
«Il successo è anche questo, ma non ce ne lamentiamo troppo, perché può succedere ben altro. C’è il supermercato!» 
Il supermarket, eccolo il massimo del successo, la cultura di massa: una massaia che compra il libro di successo insieme ai piselli e ai pomodori in scatola. 

[Bianciardi!, documentario di Massimo Coppola, 2008]

sabato 19 maggio 2018

l'infanzia del mondo

Finalmente, dopo lunghissima e speranzosa attesa arriva l'opera omnia di Tonino Guerra. L'infanzia del mondo. Opere (1946-2012) pubblicato da Bompiani. Due volumi per circa 3000 pagine in cui c'è raccolto praticamente tutto: i primi romanzi ormai introvabili pubblicati con Vittorini, tutte le poesie, le sceneggiature dei film (con Antonioni, Fellini, Tarkovskij ecc.) tanta di quella manna che l'ottimismo è poca cosa per descriverla. Ci ha solo un difetto questa raccolta, che costa 95 euro (nemmeno troppe in verità per quel che offre). Ma come sanno bene i miei amici, io credo in loro con tanta forza pura [cit. Neruda]. E male che vada c'è pur sempre il Natale.

saggezza

Nelle belle giornate di sole
il mio gatto posato sul balcone
non s’interroga più sul mio amore
non rompe, si gode il sole.
Mi lascia, dentro, da solo
alla mia disperazione d’autore.

le opere acerbe

Io certe volte non li capisco quelli del capolavoro a tutti i costi. Mi fanno sempre venire in mente un decreto di Stalin che diceva che lo Stato avrebbe finanziato esclusivamente opere che sarebbero diventate immortali, come se si potesse dire a priori cosa può esserlo e cosa no, e in base a quale criterio. Invece, se devo dirla tutta, se devo avvicinarmi a un autore mi piace avvicinarmi un po’ da lato, mi piacciono le opere prime, quelle che spesso si definiscono acerbe, oppure quelle di transizione, quando si sta mutando pelle ma si è ancora confusi sulla direzione che prenderà la propria arte. Sono quelle in cui il ventaglio di possibilità è più ampio, il fianco dell’autore maggiormente scoperto, ingenuità, fatica, disperazione, tutto è alla luce del sole, vergato ora con mano più sicura ora esitante in uno schizzo appena accennato, mentre si cerca l’intuizione giusta che scocchi la scintilla dell’idea.

venerdì 18 maggio 2018

dovrei anche lavorare

Oggi la gatta ce l'ha con me perché dopo avermi obbligato a giocare con lei e coccolarla per circa due ore a un certo punto le ho detto: "Scusa, ma dovrei anche lavorare". Ora sta nell'angolo offesa, e guarda verso il muro come se non esistessi. Ma, se la conosco, appena abbasserò la guardia si avvicinerà per affondarmi le unghie nella carne. Just like a woman.

tipografi

Ultimamente sento spesso usare la parola tipografo in relazione alla figura dell’editore, quasi fosse un insulto. Tutti a dire che un autore ha bisogno di un editore (inteso come “colui che vende il libro per me”) e non di un tipografo (inteso come “colui che me lo stampa”), come se il lato tipografico della faccenda fosse un surplus, qualcosa che non riguarda il libro come prodotto commerciale, quasi che il libro si vendesse da solo, per opera dello spirito santo che aleggia intono al vostro nome. E ci si scorda di quanta cura mettono invece alcuni editori nella realizzazione di un libro. Poi certo, magari la cura non è tutto, ma io vi dico, da lettore esigente, che c'è tipografo e tipografo là fuori, e che il mondo dell'editoria è pieno zeppo, fino alla nausea, di libri brutti e fatti male che affossano gli scaffali delle librerie. Magari l’abito non farà il monaco, ma conta. Così non date per scontato questo aspetto perché, proprio come nella vita, se infili un libro bello (per contenuti) in una brutta confezione difficilmente conquisterà più lettori solo in virtù del genio di chi scrive o delle capacità commerciali dell’editore. E non lo dico io, lo dicono quelli che i libri li comprano, i quali che non sempre sono disposti a perdonare un brutto titolo o una copertina insipida.

giovedì 17 maggio 2018

ciao, ciao, bambina

Stasera, rivedendo Il maestro di Vigevano (1963) di Elio Petri, pensavo che nel film Alberto Sordi, forse per via del taglio di capelli e degli occhiali, assomigliava terribilmente a Cesare Pavese. Pensavo anche che le due scene più drammatiche di tutta la sua filmografia sono girate sul ciglio di una strada e per colpa di una donna che lo lascia. In entrambi i casi i due personaggi da lui interpretati vengono lasciati perché incapaci di adattarsi alle nuove regole imposte dal boom economico. Sono persone integre e perciò inadatte a vivere il clima sfaccettato dei nuovi tempi. In questo caso, quando si rende conto che sua moglie lo tradisce con un altro, il maestro Antonio lancia un urlo straziato mentre la vede scappar via sull’auto dell’amante, prima di accasciarsi a terra. Nell’altro film, Una vita difficile (1961) di Dino Risi, del tutto ubriaco dopo essere stato lasciato per l’ennesima volta da sua moglie, il giornalista Silvio comincia a sputare sulle auto che lo sorpassano in un’alba senza sole, mentre suona Ciao, ciao, bambina di Domenico Modugno. In entrambi i casi l’automobile è il simbolo di un male che incombe inesorabile sull’innocenza del protagonista. Nel primo film si porterà via moglie e amante in un incidente mortale. Nel secondo sarà il simbolo dell’avvenuta corruzione di Silvio, che si presenterà al funerale della suocera a bordo di un modello lussuoso, pronto a impressionare sua moglie coi lustrini per riprendersela. Il riscatto finale di Silvio, in questo caso, per quanto affascinante sia, pare più un lieto fine posticcio a una storia già scritta, quella girata ancora una volta da Risi, e senza più nemmeno la scusa di un amore finito, nel Sorpasso (1962).

anche se capisco

Più vado avanti in questo mestiere e più mi convinco che l’autore e l’editore, anche quando parlano di libri, parlano due linguaggi diversi. Persino quando l’autore che è in me parla dei libri che vorrei fare con l’editore che dovrei essere, ci sono volte che faccio una gran fatica a capirmi. E anche se capisco mi arrabbio.

mercoledì 16 maggio 2018

messaggio dal sindaco

Fra le cose più belle di Tonino Guerra ci sono una serie di lettere scritte nei primi anni ’90 e indirizzate al sindaco in difesa del paesaggio urbano. Poco fa Tommaso Scatigna, il mio sindaco, ha ribaltato quell’azione poetica, fermando l’auto quando mi ha incrociato per strada e dicendomi, in difesa della poesia: «Antonio, per favore, smettila di essere così polemico sulla scrittura, come stai facendo ultimamente, e torna ad essere semplicemente poetico. La scrittura ci guadagnerà».

dove si può comprare il mio libro



Son giorni che in molti mi chiedono dove si può comprare il mio libro. L’attesa è alta perché, essendo in prosa invece che in versi, finalmente si capirà cosa scrivo. 
Vi svelo, dunque, che il libro potete richiederlo in tutte le librerie (se non c'è già, lo ordinano) oppure online, o anche alle prossime presentazioni, che spero saranno poche ma buone. Non chiedetelo a me, a meno che non mi vogliate invitare a cena. Possibilmente, evitate Amazon. 

PS. Se lo comprate online e vi scatena qualcosa di più di uno sbadiglio, scriverne una recensione male non vi farà. 

PPS. Se mi odiate, comprarlo per parlarne male dopo averlo letto potrebbe essere un buon modo per smerdarmi, ma con ragioni fondate.

è ora di crescere!

Vengo invitato a un festival letterario per il riscatto del Sud. Mi chiedono il logo della casa editrice, lo mando, poi sul loro sito mi ritrovo un logo scaricato da internet che non c'entra niente con la casa editrice. Glielo segnalo, non cambia nulla. I patti parlano di una scontistica particolare e vantaggiosa, tanto che ci invito anche un collega. Poi l'ultima sera cambiano tutto e mi vengono a chiedere un'altra scontistica più alta, considerato "l'impegno che ci hanno messo". Siccome sono un cretino, mi arrendo e lascio perdere. Va bene, vi do una mano. Intanto però organizziamo una presentazione all'interno del festival, vado lì con l'autore e scoppia un litigio perché, nella stessa sala alla stessa ora, per un disguido si presenta un'altra scrittrice che deve fare la presentazione del suo libro. Salviamo capra e cavoli facendo mezz'ora per uno, ma il mio autore si arrabbia e devo essere io a rabbonirlo. Alla fine della fiera vendiamo pochissimi libri, considerate le spese praticamente andiamo in perdita. Così vado a ritirare i libri e me ne ritrovo due danneggiati, ovvero scritti a penna sulla copertina. Non sono da buttare, ma nemmeno posso più venderli se non all'usato. Visto che sono andato loro incontro sulla scontistica, chiedo che mi vengano almeno risarciti i libri danneggiati. Silenzio stampa. Allora, la mia conclusione è questa: io ci provo con tutte le mie forze a credere e investire in questo Sud. Anche a costo di rimetterci. Però il Sud, se vuole darsi una credibilità culturale, se vuole crescere davvero e non soltanto a proclami e belle parole, si deve togliere dalla testa di continuare a essere approssimativo quando fa le cose. Mi sono rotto le palle dell'armiamoci e partite. Forse andava bene sessant'anni fa. Adesso direi che è ora di crescere.

martedì 15 maggio 2018

da non scordare mai!

Salvatore Toma, Canzoniere della morte, Einaudi

gli haters prima della rete

Stamattina, in campagna, mi sono fermato a parlare con dei vecchi contadini che mi chiedevano di spiegargli meglio e commentavano le recenti decisioni in merito al Decreto contro la Xylella. È stato interessante capire cosa hanno raccolto dalle informazioni che girano senza controllo. Secondo loro ci sono degli aerei carichi di pesticidi vietati dall’Europa (questo lo hanno capito bene) che girano di notte spargendo questi veleni a tappeto sulla campagna in modo da bruciare tutto senza discrimine, alberi e verdure. Visto che se metti il veleno sulla pianta non è più buona da mangiare (è una cosa scontata), e che se le mucche mangiano erbe piene di veleno faranno latte cattivo, per non parlare della carne macellata, presto arriverà l’ordine di comprare latte, carne e verdure dall’estero. Tutti loro finiranno senza lavoro per arricchire le aziende francesi e tedesche. Ma forse, a furia di venire avvelenati, moriranno lentamente anche loro di qualche malattia connessa ai veleni. Molti di loro definiscono il ministro Martina, un “porco e un assassino”, un “venduto alle banche” e la Xylella una esagerazione, anche se non negano più come una volta che ci sia, semplicemente nessuno ha curato gli alberi come doveva. Molti augurano a Martina “de sckattè” (morire, insomma) con un rancore atavico, che ha radici storiche profondissime. La cosa ironica di questa gente, odio e paura compresi, è che in gergo i sociologi alla moda li chiamerebbero haters, persone influenzate dai social e allevate nei pregiudizi della rete. Peccato che stiamo parlando di uomini e donne con più di settant’anni, molti dei quali non hanno mai usato un computer, non si sono mai mossi di qui, non sono stati debitamente informati (sempre che informarli servisse a qualcosa), e ora hanno paura di perdere l’unica loro certezza, il paesaggio in cui sono vissuti e a cui sono così saldamente legati.

sull’utilità o meno di cantare azzurro

Nelle ultime settimane mi è capitato per vari motivi di assistere più volte a delle presentazioni di Franco Arminio in cui, nel momento culminante dell’incontro, canta col pubblico. La performance in genere comincia con Azzurro di Paolo Conte (per sciogliersi) e continua con un canto del luogo secondo un canovaccio bene codificato. Lo stesso Arminio, nell’ultimo incontro in cui ho assistito parlava di “ritualità” richiamando certi schemi della liturgia rivisti in chiave laica. Quello che fa non solo è bello e coinvolgente, ma riesce a spezzare il rigido muro della convenzionalità in cui il pubblico assiste intimidito al dialogo fra autore e relatore per un rapporto diretto, molto fisico, con lo stesso pubblico, che apprezza. Si adatta, inoltre, molto bene alla sua personalità e al suo bisogno di istrionismo, e quindi in sé, in ciò che fa, non c’è nulla di male, anzi. Per quanto, come lui stesso ammette, i “saccenti della poesia” storcano il naso, richiamando le stesso polemiche che animarono la vittoria del Nobel da parte di Bob Dylan. Con una differenza, Dylan era ed è sempre stato un cantante con maggiore o minore forza poetica in base ai gusti. Arminio è un poeta che si presta alla canzone. Il dubbio, devo dire lecito, non è tanto in ciò che fa Arminio, ma in cosa recepisce il pubblico che già di per sé è ineducato al linguaggio poetico e forse in questo caso viene del tutto fuorviato. Molti di coloro che assistono alle performance di Arminio non sono lettori abituali di poesia, sono lettori di Arminio che comprano il suo libro perché è scritto da Arminio, non perché è di poesia. Lì dove invece uno compra Montale o Caproni (ad esempio) perché vuole la poesia di Montale, la poesia di Caproni ecc. Anzi, in questo modo non si avvicineranno alla poesia ma la troveranno sempre più noiosa di quello che è, perché Arminio ha mostrato loro cosa può essere una serata di poesia in cui si canta Azzurro. Quello che si teme è che Azzurro alla fine dei conti diventi il fine e non il mezzo, che il pubblico vada lì perché si canta tutti insieme e non per discutere di letteratura e idee. Il che è bello nell’ottica dell’evento, meno in quella della letteratura. Arminio dice che la cosa è fatta per ritrovare una convivialità di popolo in linea con la sua poetica e anche per alleggerire la serata, per coinvolgere chi la poesia non la legge. Ma è davvero giusto? E se uno la poesia la legge e volesse approfondire determinate tematiche, come fa a sottrarsi al rituale di gruppo? E poi, cosa resta nel lettore a parte Azzurro? Me lo chiedo senza avere una risposta. Non sono che dubbi i miei, nati al Salone. Durante il quale, quest’anno, era presente una scrittrice enorme come Herta Müller. Mi sono chiesto, di fronte al silenzio quasi religioso (a sua volta rituale) con cui veniva ascoltata: ma se Herta Müller venendo qui, invece di parlare della sua opera e di cosa la ispirava, avesse detto al popolo dei suoi lettori: ok, adesso cantiamo Azzurro per ritrovare un po’ di intimità, poi facciamo un canto in torinese, poi ne facciamo uno tradizionale del mio paese, poi vi leggo una o due pagine da un mio libro e ce ne andiamo tutti a casa, ecco, mi sono chiesto, ma il popolo dei lettori della Müller (un popolo preparato sui suoi libri) sarebbe stato altrettanto contento del popolo della poesia di Arminio? E se il popolo della poesia che va da Arminio per cantare si fosse trovato di fronte a una presentazione di Andrea Zanzotto, che usava un linguaggio complesso, stratificato, ammantandolo di ironia, ma senza mai banalizzarlo, richiedendo invece una continua attenzione, mentre affrontava tematiche importanti come quella ecologica, che avrebbe pensato: che bello oppure che palle? Questo mi sono chiesto, senza puntare il dito contro Arminio che fa semplicemente il suo lavoro, ma interrogandomi sugli scopi e i desideri del pubblico. Non è che a volte è proprio il popolo della poesia che aggira l’ostacolo del linguaggio, intanto che va a una serata di “poesia”, e si rifugia nel canto puro e semplice per evitare di parlare e di pensare, di esigere le cose ben più serie che ogni buon verso racchiude?

lunedì 14 maggio 2018

pensieri sparsi sul salone del libro (a caldo)

Più di una volta, in un festival che dice di celebrare la parola, mi sono sentito offeso da situazioni in cui la parola veniva di continuo affossata nel rumore. Non parlo del pubblico, ma proprio della situazione logistica per cui se andavi a sentire certi autori che avevi a cuore di sentire – cito a caso Bajani, Buffoni, Villalta, Pontiggia, alcuni poeti pubblicati da puntoacapo – li ritrovavi ad annaspare fra lo tunz-tunz-tunz della musica da discoteca sparata a palla da un qualche stand vicino e le atmosfere da concerto di altri. E mi è venuto da chiedere: ma chi ha sistemato gli stand in base a quale criterio lo ha fatto? 
Più di una volta, a tal proposito, mi sono ritrovato a pensare a quei poveracci finiti nella tendopoli rinominata padiglione 4 come a degli sfigati e ho avuto dispiacere per loro. Sono io evidentemente che non so adattarmi alle situazioni e chiedo scusa, ma del resto l’importante è esserci, mica partecipare. 
Più di una volta, non sono riuscito a partecipare a incontri che avevo a cuore perché gli spazi di incontro erano troppo piccoli per gli ospiti invitati e così mi toccava restare fuori, io con altre decine di persone come me, che magari (loro) si chiedevano perché avevano speso 10 euro di biglietto per entrare dentro al salone e restare fuori dall’incontro per cui avevano pagato. 
Più di una volta mi è passato per la testa, mentre mi rendevo conto che quest’anno, come ogni anno, andavo in perdita di parecchie centinaia di euro, che tutti siamo contrari all’editoria a pagamento, ma poiché gli editori piccoli come me non hanno risorse illimitate da investire sui nuovi autori, ogni volta che vai a una fiera come quella di Torino sapendo già di andare in perdita (ma investendo, come si dice, in immagine) tutte le volte che vai a una fiera così, ci sarà un autore che non verrà pubblicato perché i soldi che potevi usare per aiutare lui/lei li hai donati alla fondazione che sta dietro all’organizzazione della fiera (questa o quella che sia). Ma l’importante è dare soddisfazione al popolo. 
Più di una volta mi sono detto che al Salone, per quanto si dica che sia un luogo di incontro e di scambio, un sacco di quelli che incontri vanno sempre di fretta, non ti salutano mai come si deve, non ti sorridono mai con quel minimo di calore che fa la differenza. Per cui ti viene da pensare che o non hanno veramente piacere di incontrarti, oppure non hanno (ancora) bisogno di te. 
Nota a margine. Mi è capitato di assistere a due incontri del circuito off del salone. In uno si parlava dell’attuale situazione in Turchia, nell’altro, a meno di cento metri da lì, si cantava tutti insieme appassionatamente Azzurro. Nel primo i convenuti erano una quindicina. Nell’altro un centinaio. Così ho pensato un mucchio di cose sull’utilità e sul senso di cantare Azzurro, che però vorrei mettere in un altro post perché le ritengo importanti e non vorrei essere frainteso a sintetizzarle, ma ho pensato anche che, tutto sommato, il Salone è stato proprio questo.

la nonnina

Sull’aereo la signora accanto a me, una deliziosa vecchietta che mi ricorda mia nonna, addenta con gusto un uovo lesso. Poi si accorge di non avere fazzoletti e allora con molta circospezione ed eleganza allunga la manina unta e si pulisce le dita sulla manica della mia giacca, rigorosamente bianca.

giovedì 10 maggio 2018

réclame

Il dovere mi impone di ricordare che domani a quest’ora: 16.15, c’è la presentazione del mio nuovo libro al Salone Internazionale del Libro di Torino, Pad 2 Stand K18 (quello della Regione Puglia). Ne parliamo con Giovanni Turi che mi ha fatto da editor. Giovanni lavora con Stilo Editrice, la casa editrice che mi ha pubblicato, e ne gestisce una tutta sua (TerraRossa Edizioni), ma io stesso sono editore (lo sapete) e l’intero stand della regione è pieno di altri editori molto bravi e competenti che sono anche amici miei e saranno lì. Per cui se proprio non volete venire per me, potreste anche farlo per lui/loro così, mentre fate finta di interessarvi al mio, gli proponete a tradimento il vostro libro usandomi come testa d’ariete. Tanto la capa è dura. E poi mi sembra uno scambio equo per ottenere il mio quarto d’ora di celebrità.
[Scrivo questo e intanto continuo a leggiucchiare I detective selvaggi, e sono più o meno al punto in cui il poeta Ulises Lima parte per una presentazione a Managua (Nicaragua) e lì sparisce nel nulla...]

mercoledì 9 maggio 2018

le comparse

Probabilmente sono io che sono fuori fase in queste ore, ma vedo l'Italia divisa fra le commemorazioni di Moro e Impastato, l'ansia per il nuovo Governo, la rabbia per quanto sta provando a innescare Trump, oppure quella un pizzico più colta che si prepara coi lustrini a trasformarsi fra Torino, Bologna ecc. nella più grossa festa letteraria dell’anno, un profluvio di parole come mai ne serviranno, e dentro di me mi accorgo che, pur partecipando anche io a tutto questo, pur facendone parte, non è che me ne freghi poi tanto. Mio padre mi dice che a tirarsi fuori dalla storia si è sempre un po’ stronzi. Ma mio padre è cresciuto in un’altra epoca, mentre io più invecchio e più mi convinco che molti di noi partecipano alla storia soltanto perché, a non partecipare, non saprebbero che altro fare. Così ci illudiamo che tutti insieme abbiamo una influenza sul corso degli eventi, che se stiamo insieme ci sarà un perché. Ma alla fine dei conti, se anche molti di noi non ci fossero, secondo me non cambierebbe nulla, una comparsa rimane una comparsa e la storia la fanno in pochi, nemmeno i migliori. Gli altri guardano e fanno il tifo con più o meno voce. E senza contare l’enorme numero di stronzi che spesso fanno massa sul pianeta. Ecco, se c’è una cosa che la storia insegna brutalmente è come tante comparse messe insieme spesso non producono una rivoluzione, ma soltanto una cacata più grande.

martedì 8 maggio 2018

scusi, dov'è la guerra?

Con alcuni amici abbiamo passato il pomeriggio divisi fra la tristezza e le risate, ricordando le tante storie che abbiamo vissuto con Paolo Favre, i suoi scazzi e i suoi entusiasmi, parlando della sua grandezza come giornalista, del suo rigore ferreo nei confronti della notizia e del coraggio dimostrato in più di una occasione in situazioni spesso pericolose. Paolo aveva parlato più volte della possibilità di montare un film con spezzoni dei suoi anni come inviato in Jugoslavia (di cui resta questo piccolo trailer, all'interno del quale è possibile vederlo, giovane e bello, che si aggira come freelance in un paese dilaniato dalla guerra). Ci sono altri documenti così in giro. Ci sono i suoi articoli spesso pubblicati dalle maggiori testate nazionali e a me aveva persino parlato della volontà di pubblicare un libro che aveva già pronto, una cosa folle per qualsiasi editore, un poema cavalleresco in ottave. Io gli dicevo, scrivi piuttosto un memoriale sui tuoi anni da inviato, che quello almeno vende. Ma lui insisteva: prima pubblicami il poema che mi è costato tanta fatica! Ecco, spero tanto che tutto quel materiale che racconta la sua vita perennemente al limite adesso non venga disperso ma raccolto e usato per fare quello che non è riuscito a lui, producendo un'opera che serva a ricordarcelo quand'era al suo massimo per rendergli l'onore che si merita come professionista e come uomo. 

ciao paolo

Sei stato un grande giornalista e un pessima persona, ma pessima in maniera giusta, buona. Sempre diretto verso una nuova storia. Eri controcorrente, esagerato. Matto come pochi. Mi dicevi sempre che noi due non potevamo non essere amici, perché eravamo due porci. Però io dovevo farne di strada per raggiungerti, perché non reggevo l’alcol come facevi tu, e uno scrittore sobrio non s’è mai visto. Alcol e donne, non riuscivi a smettere di cacciarti nei guai. Però prima di tutto veniva il lavoro, la notizia. E come ti incazzavi quando non ti pubblicavo un pezzo. Eri l’unico a chiamarmi direttore con serietà, e mi dicevi poi, per incoraggiarmi: “Nel giornalismo non esiste democrazia. Tu ordina e io ti seguo, però ricordati che ci si può anche ammutinare”. L’ultima volta che ci siamo visti, quella del tuo ammutinamento, indossavi una camicia a fiori orrenda e ci siamo bevuti due grappe contro il freddo pungente. Mi hai abbracciato e mi hai detto: “Siamo sempre amici noi due, non preoccuparti”. Però non mi volevi più attorno. Eri già pronto al tuo ultimo viaggio, quello verso la solitudine. Sei stato un grande giornalista e un buon amico. E ti ho voluto bene, anche se starti dietro non è mai stato facile. Ciao Paolo.

lunedì 7 maggio 2018

torino oppure le patatine

Non ho molti amici a Torino e dintorni, però se qualcuno ci fosse oppure si trovasse a passare di lì venerdì 11, alle 16.15, allo Stand della Regione Puglia (Padiglione 2 – Stand K18) facciamo la prima presentazione ufficiale di La nostra voce non si spezza, questo libro che mi ha pubblicato Stilo Editrice con grande sprezzo del pericolo. L’editing è di Giovanni Turi, che lo presenta con me. La copertina è di Lucia Lodeserto. Dopo quella c’è già una data prenotata a Bari. Dopo Bari ce ne sarà forse una a Locorotondo, da decidere. Però sono anche disponibile a presentazioni in casa, a pranzo o a cena, per una tisana, o meglio ancora sul divano, con la birra. Voi chiamatemi, che io porto le patatine.

la nostra voce non si spezza

Sono dieci anni che non pubblico con un altro editore. E questo è in assoluto il mio primo libro in prosa, non c'è una poesia manco per sbaglio. Il primo racconto di La nostra voce non si spezza (Stilo, 2018) è l’ultimo che ho scritto, l’anno scorso, e parla di un uomo chiamato Franco che ormai vive solo nei miei sogni. Una volta viveva nella casa accanto alla mia, ma di lui non resta più nulla, nemmeno una foto. Qualcuno lo avrà letto mesi fa, quando chiesi a chi volesse di darmi dei consigli. Ora sapete che parte di quei consigli sono stati utilizzati. Il racconto più vecchio, invece, l’ho scritto il primo maggio 2007 mentre guardavo il concertone in tv e pensavo alla sconcezza dei proclami sul lavoro. Nel racconto si parla di un cazzone che invece di cercarselo, il lavoro, si chiude in bagno con la scusa di una colite nervosa e passa il tempo leggendo Moby Dick. Però in origine il racconto si chiamava “Raoul” e quel cazzone leggeva Kenshiro aspettando l’occasione giusta per la sua vendetta di sangue. In mezzo ci sono un sacco di ritratti di persone che qualche volta mi fermano per strada per raccontarmi la loro vita. Nessun uomo è un’isola, diceva John Donne, e così di ogni storia che ho scritto (o che avrei voluto scrivere) ho sempre paura che non sia all’altezza delle persone che incontro e che mi sforzo di raccontare. In ogni caso, se chi lo leggerà mi dirà che ciò che viene fuori dal libro, per quanto modesto sia, non assomiglia alla mia vita, ma alla vita degli altri, sarebbe già un bel risultato.

domenica 6 maggio 2018

poesie tristi

“Noi poeti del Sud siamo stati 'truffati' da gente come Cucchi, De Angelis e tutti quei milanesi che girano intorno allo Specchio, gente triste che scrive poesie tristi modellate sulle loro vite, che per molto tempo ci hanno spinto a credere che l’unica poesia possibile fosse la loro. Così ci siamo sforzati di imitarli, e imitandoli ci siamo rattristati anche noi, privando la nostra poesia di qualsiasi originalità e della possibilità di crearsi una propria strada.” 
Fra le tante cose che ha detto Franco Arminio nell’ultimo incontro che abbiamo fatto insieme durante Disimpegno. appunti intorno all'abitare c’è anche questa, che cito a memoria (quindi col beneficio del dubbio sulle sue parole esatte, ma il cui senso resta identico). Non sempre sono stato d’accordo con lui, ma in questo caso gli do piena ragione. E so di non essere il solo.

mercoledì 2 maggio 2018

un sogno molto realistico

Stanotte ho sognato che dovevamo andare a una fiera e, volendoci finalmente investire, dicevo a tutto l'esercito di brutti maschi che mi vien dietro: basta ragazzi, qui dobbiamo cambiar rotta. Così assumevo una tipa simile a quella nella foto, da mettere allo stand. Al primo giorno vendevamo 500 euro di libri di poesia. Al secondo giorno 700 e qualcosa. Un miracolo. Il colmo però arrivava quando i nostri lettori cominciavano a chiedere la dedica non agli autori presenti in sala, ma alla commessa. Lei firmava le copie dei libri scritti dagli altri, e su ognuna scriveva così: non sono pietra viva, ma sono viva e vegeta. La migliore strategia di marketing di sempre.

martedì 1 maggio 2018

leggere sotto la doccia

Ma un giorno notai che entrava in bagno con un libro asciutto è che quando uscì il libro era bagnato. Quel giorno la mia curiosità fa più forte della mia discrezione. Mi avvicinai e gli strappai il libro. Non era bagnata solo la copertina, anche alcune pagine, e le annotazioni in margine, con l’inchiostro sbiadito dall’acqua, alcune forse scritte sotto l’acqua, e allora gli dissi perdio, non ci posso credere, leggi sotto la doccia! sei ammattito?, e lui disse che non poteva farne a meno, che comunque leggeva solo poesia, non capii il motivo per cui precisava che leggeva solo poesia, in quel momento non lo capii, ora invece capisco, voleva dire che leggeva solo una, due o tre pagine, non un libro intero, e allora mi misi a ridere, mi buttai sul divano e mi piega in due dal ridere, e anche lui si mise a ridere, ridemmo insieme, per molto tempo, non ricordo più quanto. 

Roberto Bolaño, I detective selvaggi, Adelphi

festa della pazienza

Questo primo maggio lo dedico a una persona che mi ha scritto stamattina dicendomi che se non ho il tempo di leggere il suo manoscritto per farne un libro che mi porterà di sicuro migliaia di euro, ma ho tempo di presentare libri di altri autori ed editori, spesso già famosi e che quindi non hanno (loro) bisogno di me, probabilmente il mio progetto culturale è falso e io mi sto svendendo in cambio di visibilità, che non ho, spacciandomi per quello che non sono: un editore "con le palle". Credo sia la prima volta che qualcuno mi dice così apertamente cosa pensa di me, sputandomi in faccia i miei difetti. La cosa straordinaria è che, dopo avermi detto questo, aspetta ancora una risposta al suo libro, soprattutto perché, nonostante tutto, faccio belle copertine. Anche per lui, dunque, oggi me la prendo comoda e non farò un bel nulla. Il primo maggio applicato al lavoro, per me, è la festa della pazienza.