Sono dieci anni che non pubblico con un altro editore. E questo è in assoluto il mio primo libro in prosa, non c'è una poesia manco per sbaglio. Il primo racconto di La nostra voce non si spezza (Stilo, 2018) è l’ultimo che ho scritto, l’anno scorso, e parla di un uomo chiamato Franco che ormai vive solo nei miei sogni. Una volta viveva nella casa accanto alla mia, ma di lui non resta più nulla, nemmeno una foto. Qualcuno lo avrà letto mesi fa, quando chiesi a chi volesse di darmi dei consigli. Ora sapete che parte di quei consigli sono stati utilizzati. Il racconto più vecchio, invece, l’ho scritto il primo maggio 2007 mentre guardavo il concertone in tv e pensavo alla sconcezza dei proclami sul lavoro. Nel racconto si parla di un cazzone che invece di cercarselo, il lavoro, si chiude in bagno con la scusa di una colite nervosa e passa il tempo leggendo Moby Dick. Però in origine il racconto si chiamava “Raoul” e quel cazzone leggeva Kenshiro aspettando l’occasione giusta per la sua vendetta di sangue. In mezzo ci sono un sacco di ritratti di persone che qualche volta mi fermano per strada per raccontarmi la loro vita. Nessun uomo è un’isola, diceva John Donne, e così di ogni storia che ho scritto (o che avrei voluto scrivere) ho sempre paura che non sia all’altezza delle persone che incontro e che mi sforzo di raccontare. In ogni caso, se chi lo leggerà mi dirà che ciò che viene fuori dal libro, per quanto modesto sia, non assomiglia alla mia vita, ma alla vita degli altri, sarebbe già un bel risultato.
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