venerdì 18 maggio 2018

tipografi

Ultimamente sento spesso usare la parola tipografo in relazione alla figura dell’editore, quasi fosse un insulto. Tutti a dire che un autore ha bisogno di un editore (inteso come “colui che vende il libro per me”) e non di un tipografo (inteso come “colui che me lo stampa”), come se il lato tipografico della faccenda fosse un surplus, qualcosa che non riguarda il libro come prodotto commerciale, quasi che il libro si vendesse da solo, per opera dello spirito santo che aleggia intono al vostro nome. E ci si scorda di quanta cura mettono invece alcuni editori nella realizzazione di un libro. Poi certo, magari la cura non è tutto, ma io vi dico, da lettore esigente, che c'è tipografo e tipografo là fuori, e che il mondo dell'editoria è pieno zeppo, fino alla nausea, di libri brutti e fatti male che affossano gli scaffali delle librerie. Magari l’abito non farà il monaco, ma conta. Così non date per scontato questo aspetto perché, proprio come nella vita, se infili un libro bello (per contenuti) in una brutta confezione difficilmente conquisterà più lettori solo in virtù del genio di chi scrive o delle capacità commerciali dell’editore. E non lo dico io, lo dicono quelli che i libri li comprano, i quali che non sempre sono disposti a perdonare un brutto titolo o una copertina insipida.

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