mercoledì 28 luglio 2010

lucrezia

Ora mi sembra accettabile
che il tradimento si avvicendi
nel tempo a un tempo
beatamente vissuto, quand’è
inconcepibile anche solo contare
sui bisogni inespressi
per risarcire proprio il tempo
dei buchi: quei vicoli ciechi che a caso
possano precipitare
noi naviganti
come trappole alla fine del mondo, giù in cielo.

martedì 27 luglio 2010

viaggio di andata e ritorno con paolo (prima parte, con una divagazione musicale)


1
Ho conosciuto Paolo un paio di anni fa. Mi venne presentato allora da alcuni colleghi come “quello vero”, cioè un giornalista serio e non come noi che campavamo di piccola cronaca di provincia. Paolo era stato corrispondente di guerra per alcune delle maggiori testate nazionali per quasi vent’anni, poi nel ’94, in Bosnia, aveva dato di matto, detto basta a tutto quel sangue versato senza ragione e se n’era tornato in Italia. Si è preso casa a Cisternino, a 10 km da qui e si è messo in vacanza per circa dieci anni, fino a quando gli è tornata la voglia di scrivere ma tenendosi a distanza dall’orrore del campo di battaglia. Per cui alla fine ci siamo ritrovati a lavorare entrambi nel giornale di cui ora sono direttore.
Con Paolo siamo amici. Lui dice che è perché “siamo due porci”, io invece credo perché ci piace scrivere e raccontare storie. Ogni volta che puntualmente mi consegna il suo pezzo la prima cosa che mi dice è: “i miei soldi?” e la seconda “bene, io sono in vacanza fino al venti!” Due settimane fa Paolo, che vive solo e soffre di depressione, a causa dei troppi anni passati a fare il cronista di guerra, fra morti feriti paura e assassini nati, è stato ricoverato di forza in una clinica specializzata perché si temeva per la sua incolumità. Semplicemente ha dato fuori di matto e l’hanno rinchiuso. Era da un po’ che si vedeva che non stava bene, abbiamo provato a dargli una mano ma non siamo stati abbastanza bravi.
Ora è lì e ci deve rimanere per almeno altre due settimane. Né si può andare a trovarlo, senza essere suoi parenti. Non so perché ma nella mia testa mi sono fatto un’idea tutta mia di questo posto mutuata da un racconto di Carver, intitolato Da dove sto chiamando, in cui c’è questa clinica dispersa fra i monti, dove poter tagliare fuori il mondo e ricaricare le batterie, senza scocciatori o creditori intorno e ascoltando vecchie storie di Jack London che una volta è passato di lì. Roba un po’ troppo romantica per essere vera.
Ecco, ero un po’ giù per questo fatto, e per il fatto che il numero di agosto sarebbe stato il primo in due anni senza la firma di Paolo quando l’altra sera ho ricevuto una sua telefonata.
“Buonasera direttore” mi ha detto con la voce impastata, probabilmente dai farmaci. “Hai carta e penna? Oppure sei al computer?” Sono al computer, gli ho risposto. Ero seduto sul balcone, al tavolino, il cielo si stava scurendo e volevo godermi l’aria fresca mentre finivo di lavorare al giornale. “Allora prendi appunti” mi ha detto “questo va in prima pagina”. E mi ha dettato al telefono il suo pezzo, un articolo di circa duemila battute sull’anniversario della bomba su Hiroshima, dal titolo Noi non abbiamo paura della bomba, come la canzone dei Giganti. Un articolo cupo, notturno, pieno di violenza, di umanità e tristezza. Sentivo la sua voce strascicare al telefono, impallarsi per un paio di volte e poi sciogliere il nodo in gola con un nuovo flusso di parole e me la sentivo rimbalzare sottopelle, fra le ossa. Per un attimo mi è sembrato di rivivere in quei film di guerra, di cui Paolo è molto più esperto di me, in cui questo era l’unico modo per far arrivare una notizia dall’altra parte del mondo nel minor tempo possibile. Mi ha dettato il suo pezzo, poi si è raccomandato per la foto ed ha chiuso la telefonata. Una cosa incredibile.
L’ho sentito ieri sera poi, mi ha chiamato perché dice di sentirsi solo e di annoiarsi a morte. Ha dei libri con sé ma non gli va di leggere, non gli va di fare niente. Vuole solo ricaricare le batterie. Mi ha detto che stare troppo fermo non fa per lui. È un fatto genetico. Suo padre e suo nonno, anche loro erano corrispondenti di guerra. “La mia famiglia ha vissuto tutti i conflitti del secolo passato. Non siamo mai riusciti a fermarci troppo a lungo in un posto”. E come diavolo sei finito qui, gli ho chiesto? “È un bel posto questo. Mi piace. E poi, anche viaggiando, ti serve sempre una casa a cui tornare. Serve a darti un punto di vista quando scrivi.” Ascolta, c’è qualcosa che posso fare per darti una mano? “Portami 10 grammi di hashish, magari.” Paolo, non mi fanno entrare. “E allora tu fammeli portare da Sandra.” Sandra è una delle nostre redattrici, dal carattere aggressivo e piuttosto sensuale, e dalle scollature parecchio generose. Io ho riso di gusto. Come no, Paolo. Vuoi che dica a Sandra di portarti qualcos’altro a parte il fumo? “Dille di lasciare a casa la rabbia, e di portarmi un bel sorriso invece.” Sarà fatto, capo. “Mi mancate ragazzi, davvero. Voglio tornare a casa.”
Per questo, quando Paolo viene fuori di lì, anche se sarà incazzato nero perché ho messo il suo pezzo in decima e non in prima, gli ho promesso che compriamo una bottiglia di vino e festeggiamo il suo ritorno a casa, con una cena.



2
Io ascoltavo Paolo e, credo ispirato dal suo discorso, ho messo nel lettore Hejira di Joni Mitchell.
Hejira è un disco importante per me. È stato ascoltandolo che ho pensato per la prima volta all’idea di opera come viaggio. Da allora, le grandi opere d’arte per me (che siano libri o dischi o film o che altro volete) devono essere prima di tutto e sempre un viaggio, non solo dell’autore. Mentre leggi o ascolti o guardi, devi sentire che ti stanno portando da qualche parte, non solo come flusso di idee ma proprio fisicamente, che ti assorbono, che così come ti danno del loro allo stesso modo si prendono qualcosa di te, che quella ruga nuova che troverai domani mattina sul tuo viso è anche il risultato del vostro toccarvi reciproco, così come le macchie d’unto delle dita sul cd o sulla copertina del libro, le pieghe agli angoli della pagina o le tracce del passaggio di biscotti sgranocchiati mentre leggi, le sottolineature a matita o i graffi sulla custodia del disco. Tante piccole cose che servono a dire che siamo vivi e che occupiamo uno spazio, oppure che lo spazio occupa noi, ci pervade. Altrimenti non vale, l’arte diventa una cosa astratta, non ha più niente a che fare con la vita. Quel tipo di arte, se c’è, non mi interessa.
Lo so, mi direte adesso, ho scoperto l’acqua calda. Ma è che certe cose oltre a pensarle le devi sentire sulla pelle, ci devi credere. E io non ci ho creduto finché non ho sentito le dita di Jaco Pastorius sollevarsi dalle casse dello stereo, gonfiarsi come una grande bolla d’aria, nera e densa per la stanza, e arrivare a toccarmi e carezzarmi la pelle da quando il basso fa la sua comparsa su Coyote, brano di apertura di Hejira fino all’ultimo assolo di Refuge of the roads, il pezzo conclusivo, e passando per la mitica Black crow. Lo stesso tocco si ripete per quasi metà dell’album, unico ma mai uguale a se stesso, se non per il calore che senti risalirti in petto e commuoverti man mano che il viaggio fra le tracce procede con le ombre della sera.
La Mitchell, parlando di Hejira, disse di aver composto tutti i pezzi on the road, in solitudine da una costa all’altra degli Stati Uniti e di averli incisi pur sapendo che mancava ancora qualcosa, che il suono che aveva in testa immaginando la musica non era ancora stato raggiunto. Capì cosa mancava solo quando ascoltò per caso Pastorius, che fino ad allora aveva suonato sempre e solo jazz, e prontamente gli chiese di sovraincidere il suo basso a quattro dei nove brani del disco. Queste sovraincisioni cambiarono per sempre il suono della Mitchell, che da lì in poi abbandonò il folk cantautorale dei primi anni per i nuovi sperimentali territori del jazz. A noi resta il diario di questo viaggio crepuscolare, fatto in giro per l’America, alla ricerca non solo di un suono ma soprattutto di nuovi stimoli e motivi, nuova libertà espressiva, di nuove strade verso il cuore per raccontarne le emozioni. Dopo Hejira, che la Mitchell ancora oggi reputa il suo lavoro più rappresentativo, nulla fu più come prima, di sicuro nulla fu più facile come un tempo.
Quanto a me, da quel primo ascolto (è già passato qualche anno) ho applicato la mia teoria, intuita fra le tracce di quel disco, a tutte le opere che mi sono capitate sottomano e non mi sono perso mai più nel distinguere fra quelle da poter considerare un viaggio nella vita e quelle che, per quanto divertenti e meritevoli, erano semplicemente una passeggiata per me, e non bisognava dare loro troppa importanza. Fiesta, Tonight’s the night, Altri libertini, Terra di nessuno, Gli spietati o I fiumi di Ungaretti ad esempio, sono stati tutti dei viaggi fantastici, importantissimi. Altre cose sono passate non lasciandomi nulla. Altre le sto ancora vivendo e spero che non finiscano mai di attraversarmi.
Da un po’ di tempo, sarà che il tempo passa e crescendo si diventa selettivi, ho cominciato ad applicare la stessa teoria alle persone. E funziona uguale, perfetta. Non me ne sono mai pentito.



In cerca d’amore e musica
la mia intera vita è stata
Illuminazione
Corruzione
e tuffarsi, tuffarsi, tuffarsi, tuffarsi
tuffarsi giù a prendere ogni cosa che splende
proprio come fa un corvo nero che vola
nel cielo azzurro.

domenica 18 luglio 2010

la quinta musa, una recensione

È già da un po’ che pensavo di scrivere qualcosa sull’ultima raccolta di Valentina Trio, La quinta Musa, edita da Il Foglio. Ci tenevo perché già molto prima della sua pubblicazione Vale mi aveva mandato il manoscritto chiedendomi cosa ne pensassi. Quindi mi pareva giusto, visto che ho letto il libro praticamente nel suo farsi, e prima ancora che di libro si potesse parlare, offrire il mio contributo. E poi glielo avevo promesso.

[…]
El móvil me mira
con una mueca de desprecio
y el viento grita tu nombre
y sus sílabas golpean mi ventana.

trad. […] Il celllulare mi guarda/ con una smorfia di disprezzo/ e il vento grida il tuo nome/ e le sue sillabe colpiscono la mia finestra.


La prima cosa che stupisce della poesia di Vale Trio è la lingua. Una lingua che, probabilmente per il fatto che l’autrice risiede in Spagna ormai da anni, è perennemente in bilico fra italiano e spagnolo, quasi un ibrido. All’inizio non ci fai caso, non subito. Senti che c’è un sapore diverso nell’uso delle parole, nello scorrere dei pensieri e delle immagini, ma è quando ti ritrovi davanti alle numerose poesie spagnole che si mischiano nella raccolta alle italiane e le completano, che ti accorgi che non c’è una reale differenza, che Vale scrive in italiano pensando in spagnolo e viceversa, che è riuscita a mediare un linguaggio suo fra due terre all’apparenza molto simili ma meno di quanto si creda. Una sorta di crossover linguistico insomma, com’è anche giusto ora che si parla tanto d’Europa. Parlo da italiano ovviamente, ma credo che questa sia una cosa che avverta anche uno spagnolo nei confronti dei suoi versi.
La seconda notazione riguarda la materia trattata, ovvero l’amore. Tutta la poesia di Valentina Trio è pervasa di passione amorosa e velato ma persistente erotismo. Un erotismo e una passione però che, attenzione, sono pulsanti ma spesso irrealizzati. Quella di Valentina è infatti una poesia in cui il sentimento ha difficoltà a diventare azione.
Una poesia frustrata dunque ma non arresa, talvolta rabbiosa per questa impossibilità dell’amore compresso nell’animo di scoppiare e farsi piena felicità. In questo credo che giochi in parte il suo background linguistico e in parte la sua biografia. In più di una occasione Vale ha affermato di sentire come maestra la Merini, di cui riprende tutto il tremendo slancio erotico, la volontà di passione senza limiti ma grazie a dio non la componente misticheggiante che nella maestra spesso si mischia a tale passione, ammorbandola. La poesia di Vale è molto più limpida, diretta, legata a un quotidiano che è comunque e sempre stemperato nell’erotico, come si evince da versi sublimi e così carichi di vita come (ne prendo uno a caso):

mi manchi
[…]
quando butto via la rucola
andata a male per una bocca sola…

o dalle notazioni diaristiche che in calce a ogni poesia ne scandiscono il tempo e i luoghi lungo l’anno di composizione dei versi (il 2009).
Talvolta, poiché mi sembra che questa raccolta sia una sorta di punto di svolta, di libro di transizione o ricerca, o di affermazione di un linguaggio unico e personale che si sta facendo ora, la sua poesia non riesce a venire fuori dal sostrato letterario, dal canone poetico in cui Vale è cresciuta e si è formata, per farsi vera vita. È il caso delle prime poesie della raccolta, quando sembra tutto un po’ troppo letterario, quando il tu appare quasi un’entità impersonale, un tu inconcreto e la poesia sembra rigirarsi su se stessa e non aprirsi al mondo, rimanere ferma nel suo cerchio autoreferenziale. Più in là invece, a partire dalle poesie del mese di giugno, dalla bellissima Quasi tre settimane, la componente autobiografica sembra prendere il sopravvento, la poesia di Valentina si fa viva e davvero pare che stia parlando a qualcuno che c’è, che è lì vivo e pulsante, con tutti i suoi difetti e limiti e umanità, qualcuno che possiamo riconoscere o no ma che possiamo dire di capire, di sentire in noi. Sono quegli gli esiti più felici della raccolta, quelli in cui il sentimento si dispiega fino a coinvolgere il suo pubblico in una conversazione che non è più privata ma universale. Allora Valentina ci restituisce fiducia nella verità della poesia, nella possibilità che questa, come qualsiasi altra forma d’arte, possa afferrare la vita intorno a noi e restituircene il succo e l’anima, per rifarla nuovamente nostra.

[…]
Ho imparato anch’io a sparire,
ho imparato da te,
e non saranno venti giorni.

In questo mi pare che l’apice della raccolta possa ritrovarsi in particolar modo nelle tre stupende poesie dedicate ad Alice Russo, così cariche di rabbia e aggressività e sferzante sarcasmo compressi in versi talmente perfetti da diventare quasi delle trappole pronte a scattare sulla loro vittima designata, togliergli finalmente la pelle e mostrarlo per quello che è: un uomo vile e indegno, incapace di restituire alla poetessa tutto l’amore donatogli, un amore assoluto, incondizionato, un amore senza compromessi né ripensamenti.

venerdì 16 luglio 2010

xmas in july

Non finisco mai di stupirmi degli infiniti casi (o svolte) della vita, delle storie che ti capitano di continuo sottomano. Sono qui che scrivo e ascolto l’ultimo disco di Bob Dylan, il mio preferito ormai, un disco di canzoni di natale che funzionano anche a luglio, col caldo africano che ti scioglie le ossa.
Mi è stato regalato a gennaio, per il giorno del mio 33° compleanno da Martin e Dani, e lo ascoltavo in cuffia il giorno che ho detto addio a quella che è stata la mia musa per i quattro anni precedenti e di cui trovate così tante tracce nel mio blog. Per questo e anche per il suo senso nascosto è un disco che adoro alla follia. Nessun altro avrebbe potuto fare un disco così, con tanto sentimento del tempo e amore e disperazione per un’innocenza perduta ma tremendamente necessaria. Forse solo Tom Waits. Ci pensavo già l’altro giorno che stavo organizzando per agosto un incontro con Nicola Lagioia, scrittore pugliese che ha scritto un libro intitolato Riportando tutto a casa, traduzione del celebre disco di Dylan Bringing it all back home. Quanta strada è passata da allora e credo che nemmeno Dylan avrebbe mai potuto sospettare in quei lunghi giorni del ’65 che un giorno, per riportare di nuovo tutto a casa, al suo posto, avrebbe finito per incidere il suo disco più commovente, una raccolta di canzoni di natale buone per tutte le stagioni.
Quanto a me, questa sera andrò a vedere Lagioia a Polignano, al Festival del Libro Possibile, tanto per farmi un’idea di cosa aspettarmi da lui come oratore e se ho fortuna conoscerlo. In programma, subito dopo Lagioia ho scoperto, c’è Jonathan Coe, scrittore che degli incroci perfetti ha fatto il suo marchio distintivo. A farmi leggere per primo Coe è stato Andrea, un caro amico che sognava di fare l’archeologo in Puglia ma che da alcuni anni è andato via per cercare fortuna a Pavia, come insegnante di italiano. Probabilmente ci andrà anche lui a vedere Coe. In questi giorni Andrea, che è qui in vacanza, esce poco di casa. Mi dice che non si trova più a suo agio a venire in piazza, di sentirsi spaesato, esattamente allo stesso modo in cui si sente spaesato a Pavia. Probabilmente è il destino di chi va, non sentirsi mai pienamente a posto in nessun luogo.
Qualcuno la vive male questa cosa, come Andrea, o ci si abitua a fatica. Per altri è fantastico, si lasciano pervadere dall’estremo senso di libertà che ti concede il non avere mai un vero luogo di appartenenza. Immagino sia sempre e solo una questione di scelte, e di volontà. Una cosa è essere costretti ad andare via per campare, un’altra correre e bruciare fino all’estremo, per dirla come Iuri.
Iuri era un mio amico di infanzia. Era scappato dal paese insieme a suo fratello Noa, in Inghilterra, ad appena 18 anni, e tornava qualche volta giusto per rivedere i genitori e i vecchi amici. Era quello che si potrebbe definire un punk e da punk, fra centri sociali e creste e aghi e furtarelli nei supermercati, tatuaggi dappertutto, anche sul viso e il mitico Kerouac nel cuore ha girato per tutta l’Europa e l’ultima volta che l’ho visto, due anni fa, meditava di attraversare l’oceano verso l’America. Poi non ne ho saputo più nulla fino alla settimana scorsa, quando l’ho rivisto, tutto pulito e rasato come mai, tranne che per i tatuaggi sul collo e sul mento, andarsene in giro per il paese, accompagnato per mano da un’assistente sociale, con lo sguardo fisso come un automa. Quando l’ho salutato non mi ha riconosciuto, non mi ha nemmeno guardato. Continuava a fissare lo spazio vuoto davanti a sé. Non so di preciso cosa gli sia successo ma, a quanto mi hanno detto, si è fritto il cervello con un acido. Dopo averlo visto ho avuto i brividi addosso e freddo per dei giorni, proprio come se fosse di nuovo gennaio.
Mi sono guardato intorno e il mio cervello ha cominciato a macinare ansia e paura, solo per rendermi conto che si entra, per me, in quella fase della vita in cui, volenti o no, ogni scelta è definitiva, non si torna più indietro, non si può. Forse è questo lo spirito che ha animato Dylan nel suo ultimo disco, mi dico, questo senso di panico per il tempo che non può essere fermato, per tutte le scelte che non si possono più modificare. Perché io nell’album di natale di Dylan più che le campanelle allegre della festa ci sento i pianti per le campane che risuonano in lontananza a morto, per il numero di assenti che a ogni festa aumenta irrimediabilmente, e la voce arrochita da troppe notti perse da solo, a vuoto, fumando e bevendo e chiacchierando con le foto appese al muro, a convincersi che in fondo siamo esseri conclusi, è inutile starci male, che a dispetto di ogni nostro desiderio o speranza o senso di rivolta per noi c’è un inizio e c’è una fine. E che il dolore è necessario. Persino quando ci rifiutiamo di vivere e la vita preferiamo guardarla da lontano, o inutilmente riscriverla.

martedì 6 luglio 2010

la lucciola

Me lo ha detto Pepecchio. Mi ha raccontato lui di averla vista, la lucciola. Se ne stava evidente, quasi un segno premonitore vicino a un muretto al parco giochi. E io, che non vedo più una lucciola da quando avevo sette, otto anni, quando l’ho saputo mi sono quasi commosso.
L’ultima volta che ci ho pensato è stato leggendo Norwegian Wood, romanzo di formazione di Haruki Murakami, incentrato sull’esperienza e l’accettazione della morte. La lucciola veniva liberata in un capitolo a metà romanzo, una notte, dal tetto di un palazzo sul mondo: “Anche dopo che era scomparsa, la sua scia luminosa restò ancora a lungo dentro di me. Nel buio totale dietro i miei occhi chiusi, quella piccola pallida luce continuò a vagare molto a lungo, come uno spirito inquieto”.
Mi piacerebbe credere, ora che scrivo, per quella sorta d’amore per gli incastri perfetti che hanno un po’ tutti i lettori di romanzi, che da quel tetto in Giappone la lucciola sia volata fin qui in Valle d’Itria, che per una volta nella vita, una delle poche, sia il mondo a conquistarci col suo abbraccio e non il contrario e che una piccola lucciola sia in grado, in virtù della sua sola fievole presenza, di lenire le nostre ferite, e i lutti. Di portare serenità negli animi inaspriti. E consapevolezza e la speranza che non solo oggi il cielo sia un po’ meno inquinato di ieri, ma che domani si prevedono altre e più importanti schiarite.


giovedì 1 luglio 2010

tre pezzi dal vecchio blog

Questi sono tre pezzi che ho scritto all’incirca un anno fa (estate del 2009). Li avevo calcellati chiudendo il vecchio blog ma mi è stato chiesto da un amico di ripubblicarli, e visto che in questi giorni riesco a trovare pochissimo tempo per degli aggiornamenti, ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Have fun!

PENSIERI SPARSI SULL’ULTIMO JOHNNY CASH

Probabilmente vi rivelo un’ovvietà ma ci sono pezzi che funzionano meglio di notte. Scrivo questo all’incirca all’una e qualcosa mentre ascolto a basso volume, per non disturbare i vicini, Man comes around di Johnny Cash. Sono sul balcone ma Cash mi ricorda che non siamo che acrobati sulla corda, che sotto di noi brucia l’inferno e dentro di noi si agita la bestia. Non c’è niente da fare, non si può non credergli con quella voce. Ho scoperto Cash l’anno scorso, in Francia. Il mio amico Giovanni era rimasto colpito dalla sua versione di Personal Jesus e si era comprato il disco. Buona parte del successo del pezzo, mi disse, era opera di John Frusciante, che l’aveva rielaborata in chiave acustica, ma anche Cash faceva la sua parte. Poi di sera, in albergo, lo ascoltammo e ne rimanemmo invischiati. Dico invischiati perché, e chi lo ha ascoltato lo sa bene, la sua voce è come il petrolio, è calda e densa e se appena ci metti dentro un piede non riesci più a liberartene, ci affondi lentamente. Da allora mi sono fatto tutti gli ultimi dischi di Cash, quelli della serie American Recordings, ed è straordinario ad ascoltarli come quest’uomo riesca a trasformare anche i pezzi più moderni in opere senza tempo, scarnificandoli fino all’osso, riportandoli all’essenziale.
Qualcosa di simile aveva fatto Dylan coi due dischi acustici dei primi ’90. In quei dischi Dylan prendeva canzoni più vecchie di lui e, scavando nel loro cuore fino a riportarne alla luce l’essenza, le riportava vive ed attuali ai nostri giorni. La poetica dei due artisti è in fondo la stessa. Per me quella è la migliore musica degli anni ’90, insieme a poche altre cose. Peccato che l’abbia scoperta molto più tardi e non quand’ero ragazzo e innamorato di band più rumorose. Avrebbe di sicuro, mi dico, modificato il mio sguardo. Ma in fondo c’è un’età per ogni cosa e forse all’epoca non l’avrei apprezzata abbastanza, magari l’avrei addirittura snobbata come irrimediabilmente noiosa. Non c’è rabbia nella musica dell’ultimo Cash. Nessuna voglia di spaccare il mondo. A che servirebbe, ormai? Meglio lasciarsi cullare dalla notte.
Ci incontreremo ancora, promette Cash alla fine, e a ben vedere è questo il tema alla base degli American Recordings: il confronto spietato col Tempo, l’ansia di trovare finalmente la Salvezza. Cash riscrive la propria storia attraverso la scelta di brani che spesso non sono suoi ma sente come tali e che, appartenendo all’immaginario collettivo, fanno ormai parte del patrimonio popolare. La sua storia in questo modo diventa la storia di tutti, la sua voce (per quanto straordinaria) diventa la voce di chiunque. È, tutto sommato, un concetto molto americano. Ed ecco perché: american recordings. L’opera di Cash si apre all'America, quel mondo sterminato, fino a perderlo in essa. Liberandolo. Offrendogli finalmente Salvezza.




115° SOGNO DI PATTI SMITH

Ricordo come fosse stato appena ieri la prima volta che ho ascoltato Patti Smith. Mi ero comprato il disco dopo aver letto da qualche parte un articolo sulla sua vita, e come spesso mi succede mi ero innamorato di lei prima ancora di averla sentita. All’epoca, parlo della seconda metà dei ’90, l’unica maniera di ascoltarsi una cantante che ti interessava era farsi fare una cassetta da un amico più grande o beccare una qualche trasmissione sulla storia del rock in radio, ma già per quello ci voleva culo. Il più delle volte ritrasmettevano Because the night ma a parte il fatto che mi piaceva non è che mi dicesse molto della Smith. Io però m’ero innamorato e avevo deciso di scendere a patti col diavolo e investire i miei pochi risparmi in un CD. Del resto l’aveva detto anche Micheal Stipe, senza di lei la sua vita e la sua musica sarebbero state diverse, di sicuro peggiori, e senza i REM che mi accompagnavano sul primo treno del mattino per l’università anche la mia lo sarebbe di certo stata. E poi aveva o non aveva baciato Bob Dylan sul palco dopo un concerto? Insomma quella donna non poteva essere ignorata. Ero proprio innamorato.
Avevo vent’anni e comprai Horses, il suo primo disco, con tutta l’emozione del caso e ventimila lire. La copertina era bellissima e lei così cool! Opera del grande e perverso Robert Mapplethorpe, di cui avevo appena discusso durante l’esame di Storia della Fotografia. E poi c’erano John Cale alla produzione, e Lou Reed rannicchiato in un angolo nel collage del libretto. Insomma, ancora non lo avevo sentito e già mi sentivo a casa mia. Quello era un mondo che conoscevo bene. Ma la vera magia scoccò quando misi il disco nel lettore. Quando partirono pigre e avvolgenti le prime note al piano di Gloria e Patti pronunciò contro il Peccato i suoi versi più famosi (che non sto qui a ripetervi) cominciai a muovermi sulla sedia, non riuscivo a stare fermo, quando la sua voce si avvitava su se stessa mentre affermava che sentiva bussare alla sua porta provai quasi un brivido di piacere come se anch’io fossi lì ad aspettare ansimante dietro quella porta. Ma tutto il disco era fenomenale. Kimberly era dolcissima e in Free money si respiravano la notte e i suoi sogni. Ma il vero capolavoro per me rimaneva Land. Ogni volta che l’ascoltavo, per mesi da allora, non riuscivo a stare fermo, cominciavo a dimenarmi come un pazzo sulla sedia di fronte allo stereo, avevo le cuffie nelle orecchie e mio fratello più piccolo che alle mie spalle, senza capire, mi scimmiottava ridendo. Ma non m’importava. C’era violenza in quella musica e grazia. Era impossibile resistere. Per mesi chiunque passasse da casa mia doveva sentire Patti Smith. O sarebbe morto perdendosi per sempre qualcosa di grande. Non avete idea di quante persone ho convertito alla sua fede!



Poi nel tempo ho ascoltato più o meno tutto di lei, non molto in effetti. In particolare ricordo il giorno in cui comprai Easter, un album di cui mi ha sempre stupito l’ampiezza dello sguardo nell’affrontare il tema dell’amore, descritto in tutte le sue forme. Davanti al negozio di dischi mi fermò una signora un po’ tocca che afferratomi con foga il braccio mi dette la missione di diffondere al mondo la notizia che l’unica volta che era stata con un uomo lei era stata bene! Vai e dillo a tutti! Io sorrisi, le promisi che l’avrei fatto poi entrai a comprarmi Easter, chiedendomi se anche la Smith avesse avuto quel fuoco dentro quando alla fine dei ’70 decise di lasciare la musica per dedicarsi alla famiglia. Personalmente trovo ancora straordinario che qualcuno che avesse vissuto quell’avventura eccezionale all’apice del successo decidesse così, di punto in bianco, di mollare tutto per dedicarsi a casa marito e figli. Mi dava l’idea di una persona che fosse realmente libera, ci vuole del fegato per rinunciare al successo. La cosa buffa fu scoprire, pochi mesi dopo l’essermi avvicinato a lei con tutta la fascinazione che si prova davanti a un mistero, che la Smith era da poco tornata a fare musica. Con molta discrezione, certo, ma lei era di nuovo con noi.
L’anno passato è uscito il suo ultimo disco, una raccolta di cover. Il singolo trainante è una sua personalissima versione di Smells like teen spirit dei Nirvana. Non piace a tutti e capisco perché. Cantata da lei quel pezzo assume tutto un altro significato e non so se Kurt Cobain l’avesse mai contemplato. Non è più la canzone di un ragazzo frustrato perché non sente di avere un posto nel mondo. È il pezzo di chi è sopravvissuto proprio a un mondo a cui, nonostante tutte le sue contraddizioni, oggi appartiene. Forse, se Cobain fosse invecchiato abbastanza l’avrebbe sentita e cantata anche lui a quel modo. Chissà?
La Smith ha sempre detto di essere prima di tutto una poetessa. Ora, per uno strano caso del destino, un caso poetico di quelli che se li leggi nei libri o vedi nei film ti dici “bello sì ma inverosimile”, Patti Smith che per tutta la vita ho inseguito attraverso i suoi dischi, i suoi bellissimi ritratti fotografici e i fugaci articoli di giornale che leggevo con devozione ogni qual volta mi capitavano per le mani, si ritroverà a passare di qui fra quindici giorni, proprio il 4 luglio, per cantare a cinque minuti da casa mia, in un paesino di sogno frequentato per lo più da giapponesi affamati di souvenir chiamato Alberobello. Quando l’ho saputo sono quasi caduto dalla sedia, proprio come quando ero ragazzo e mi dimenavo ascoltando Land. Per me è qualcosa di più di un fan che vede per la prima volta uno dei suoi artisti preferiti. No, qui è questione di riuscire finalmente a toccare il tempo con mano, e la grazia. Averla lì davanti agli occhi, sentirla cantare e credere che ti guardi dritto in faccia, proprio te, e che finalmente il mondo con un po’ di giustizia abbia riannodato i fili di alcune delle sue molte storie appositamente perché un giorno tu possa raccontarlo.


IL WEEKEND PERDUTO

Tutto comincia nell’autunno del 1973. John Lennon viene mollato da Yoko Ono per un altro.
Distrutto dalla separazione, sfinito da una campagna denigratoria orchestrata dal governo degli Stati Uniti, che lo definisce un comunista per espellerlo dal paese, Lennon si trasferisce a Hollywood e comincia a bere per dimenticare, abbandonandosi ai gesti più idioti e violenti e autodistruttivi, e lasciandosi dietro una scia di disfacimento e di disastri tali da rovinarsi quasi la carriera. John in quell’autunno del 1973, come lui stesso ammetterà poi, impazzisce, diviene completamente folle di gelosia e d’amore. In seguito chiamerà quel lungo periodo di confusione e furia weekend perduto. Il weekend in realtà dura diciotto mesi, finché, come in una fiaba, alla fine del 1974 Yoko Ono pentita torna per salvarlo col suo bacio stregato. Nel frattempo Lennon scende all’inferno, saggia i confini del suo dolore e ne fa arte. Fondamentale in questo è il sodalizio con Phil Spector, produttore geniale che, intenzionato a produrre un disco di cover di vecchi successi dei primi ’60, lo coinvolge in una collaborazione. Per una volta Lennon sarà interprete e non necessariamente autore delle canzoni. Lennon, spossato dalla separazione, senza nessuna voglia di comporre, prontamente accetta l’offerta e i due si mettono al lavoro.
Purtroppo per Lennon, Spector è ancora più folle di lui. I suoi metodi di lavoro, per quanto portino a risultati straordinari, sono alquanto bizzarri e soprattutto lunghissimi: ore e ore ogni giorno vanno perdute per registrare una traccia su cui poi, a notte fonda, Lennon (che nell’attesa beve fino a ubriacarsi) dovrà registrare la sua parte vocale. In più di un’occasione i due finiscono per fare a botte. Una volta vengono addirittura cacciati via dallo studio di registrazione. Un’altra volta Spector, che gira armato, spara a Lennon, mancandolo. Lennon, del tutto ciucco, gli risponde: “Phil cazzo, sparami dove vuoi, ma non vicino alle orecchie! Mi servono per cantare!” (Per la cronaca Spector, che ha il vizietto, alcuni anni dopo proverà a sparare anche a Leonard Cohen). Alla fine il progetto viene abbandonato perché Spector scompare dopo aver causato un brutto incidente stradale e Lennon, in parte riappacificato con la propria musa, si mette al lavoro su delle nuove canzoni, quelle che poi finiranno in Walls and Bridges (1974).
Nel 1975 lui e Yoko Ono tornano insieme e John decide di rinunciare alla musica per dedicarsi alla famiglia. Il resto è storia. Di quel weekend con Spector ci restano una manciata di tracce, che verranno alla luce solo dopo la morte di John. Alcune sono completamente scomposte, come in Just Because, in cui Lennon comincia per cantare e finisce per fare profferte sessuali a una delle coriste: “voglio succhiarti i capezzoli, baby!” Altre, come Here we go again, sono dei veri e propri capolavori. La mia preferita rimane però Be my baby, un famosissimo brano delle Ronettes che in quella maniera così dolce e innocente tipica dei primi anni ’60, allude a una classica storia d’amore adolescenziale. Nella versione di Lennon, talmente ubriaco da essere privo di qualsiasi filtro davanti al microfono, questa canzone per ragazzi diventa una cosa seria, da grandi, il grido disperato di un uomo sconfitto dalla vita che chiede solo di poter tornare a casa. Soprattutto nel finale, così angosciato che poi verrà sfumato in fase di mixaggio, la sua voce si carica di una tale tensione drammatica da metterti i brividi addosso. Appare ovvio che quando canta “sii mia” non lo fa per un’ipotetica ragazza o per il suo pubblico. Canta esclusivamente per Yoko, dall’inferno in cui è sceso, pazzo d’amore e gelosia.