Questi sono tre pezzi che ho scritto all’incirca un anno fa (estate del 2009). Li avevo calcellati chiudendo il vecchio blog ma mi è stato chiesto da un amico di ripubblicarli, e visto che in questi giorni riesco a trovare pochissimo tempo per degli aggiornamenti, ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Have fun!
PENSIERI SPARSI SULL’ULTIMO JOHNNY CASH
Probabilmente vi rivelo un’ovvietà ma ci sono pezzi che funzionano meglio di notte. Scrivo questo all’incirca all’una e qualcosa mentre ascolto a basso volume, per non disturbare i vicini, Man comes around di Johnny Cash. Sono sul balcone ma Cash mi ricorda che non siamo che acrobati sulla corda, che sotto di noi brucia l’inferno e dentro di noi si agita la bestia. Non c’è niente da fare, non si può non credergli con quella voce. Ho scoperto Cash l’anno scorso, in Francia. Il mio amico Giovanni era rimasto colpito dalla sua versione di Personal Jesus e si era comprato il disco. Buona parte del successo del pezzo, mi disse, era opera di John Frusciante, che l’aveva rielaborata in chiave acustica, ma anche Cash faceva la sua parte. Poi di sera, in albergo, lo ascoltammo e ne rimanemmo invischiati. Dico invischiati perché, e chi lo ha ascoltato lo sa bene, la sua voce è come il petrolio, è calda e densa e se appena ci metti dentro un piede non riesci più a liberartene, ci affondi lentamente. Da allora mi sono fatto tutti gli ultimi dischi di Cash, quelli della serie American Recordings, ed è straordinario ad ascoltarli come quest’uomo riesca a trasformare anche i pezzi più moderni in opere senza tempo, scarnificandoli fino all’osso, riportandoli all’essenziale.
Qualcosa di simile aveva fatto Dylan coi due dischi acustici dei primi ’90. In quei dischi Dylan prendeva canzoni più vecchie di lui e, scavando nel loro cuore fino a riportarne alla luce l’essenza, le riportava vive ed attuali ai nostri giorni. La poetica dei due artisti è in fondo la stessa. Per me quella è la migliore musica degli anni ’90, insieme a poche altre cose. Peccato che l’abbia scoperta molto più tardi e non quand’ero ragazzo e innamorato di band più rumorose. Avrebbe di sicuro, mi dico, modificato il mio sguardo. Ma in fondo c’è un’età per ogni cosa e forse all’epoca non l’avrei apprezzata abbastanza, magari l’avrei addirittura snobbata come irrimediabilmente noiosa. Non c’è rabbia nella musica dell’ultimo Cash. Nessuna voglia di spaccare il mondo. A che servirebbe, ormai? Meglio lasciarsi cullare dalla notte.
Ci incontreremo ancora, promette Cash alla fine, e a ben vedere è questo il tema alla base degli American Recordings: il confronto spietato col Tempo, l’ansia di trovare finalmente la Salvezza. Cash riscrive la propria storia attraverso la scelta di brani che spesso non sono suoi ma sente come tali e che, appartenendo all’immaginario collettivo, fanno ormai parte del patrimonio popolare. La sua storia in questo modo diventa la storia di tutti, la sua voce (per quanto straordinaria) diventa la voce di chiunque. È, tutto sommato, un concetto molto americano. Ed ecco perché: american recordings. L’opera di Cash si apre all'America, quel mondo sterminato, fino a perderlo in essa. Liberandolo. Offrendogli finalmente Salvezza.
115° SOGNO DI PATTI SMITH
Ricordo come fosse stato appena ieri la prima volta che ho ascoltato Patti Smith. Mi ero comprato il disco dopo aver letto da qualche parte un articolo sulla sua vita, e come spesso mi succede mi ero innamorato di lei prima ancora di averla sentita. All’epoca, parlo della seconda metà dei ’90, l’unica maniera di ascoltarsi una cantante che ti interessava era farsi fare una cassetta da un amico più grande o beccare una qualche trasmissione sulla storia del rock in radio, ma già per quello ci voleva culo. Il più delle volte ritrasmettevano Because the night ma a parte il fatto che mi piaceva non è che mi dicesse molto della Smith. Io però m’ero innamorato e avevo deciso di scendere a patti col diavolo e investire i miei pochi risparmi in un CD. Del resto l’aveva detto anche Micheal Stipe, senza di lei la sua vita e la sua musica sarebbero state diverse, di sicuro peggiori, e senza i REM che mi accompagnavano sul primo treno del mattino per l’università anche la mia lo sarebbe di certo stata. E poi aveva o non aveva baciato Bob Dylan sul palco dopo un concerto? Insomma quella donna non poteva essere ignorata. Ero proprio innamorato.
Avevo vent’anni e comprai Horses, il suo primo disco, con tutta l’emozione del caso e ventimila lire. La copertina era bellissima e lei così cool! Opera del grande e perverso Robert Mapplethorpe, di cui avevo appena discusso durante l’esame di Storia della Fotografia. E poi c’erano John Cale alla produzione, e Lou Reed rannicchiato in un angolo nel collage del libretto. Insomma, ancora non lo avevo sentito e già mi sentivo a casa mia. Quello era un mondo che conoscevo bene. Ma la vera magia scoccò quando misi il disco nel lettore. Quando partirono pigre e avvolgenti le prime note al piano di Gloria e Patti pronunciò contro il Peccato i suoi versi più famosi (che non sto qui a ripetervi) cominciai a muovermi sulla sedia, non riuscivo a stare fermo, quando la sua voce si avvitava su se stessa mentre affermava che sentiva bussare alla sua porta provai quasi un brivido di piacere come se anch’io fossi lì ad aspettare ansimante dietro quella porta. Ma tutto il disco era fenomenale. Kimberly era dolcissima e in Free money si respiravano la notte e i suoi sogni. Ma il vero capolavoro per me rimaneva Land. Ogni volta che l’ascoltavo, per mesi da allora, non riuscivo a stare fermo, cominciavo a dimenarmi come un pazzo sulla sedia di fronte allo stereo, avevo le cuffie nelle orecchie e mio fratello più piccolo che alle mie spalle, senza capire, mi scimmiottava ridendo. Ma non m’importava. C’era violenza in quella musica e grazia. Era impossibile resistere. Per mesi chiunque passasse da casa mia doveva sentire Patti Smith. O sarebbe morto perdendosi per sempre qualcosa di grande. Non avete idea di quante persone ho convertito alla sua fede!
Poi nel tempo ho ascoltato più o meno tutto di lei, non molto in effetti. In particolare ricordo il giorno in cui comprai Easter, un album di cui mi ha sempre stupito l’ampiezza dello sguardo nell’affrontare il tema dell’amore, descritto in tutte le sue forme. Davanti al negozio di dischi mi fermò una signora un po’ tocca che afferratomi con foga il braccio mi dette la missione di diffondere al mondo la notizia che l’unica volta che era stata con un uomo lei era stata bene! Vai e dillo a tutti! Io sorrisi, le promisi che l’avrei fatto poi entrai a comprarmi Easter, chiedendomi se anche la Smith avesse avuto quel fuoco dentro quando alla fine dei ’70 decise di lasciare la musica per dedicarsi alla famiglia. Personalmente trovo ancora straordinario che qualcuno che avesse vissuto quell’avventura eccezionale all’apice del successo decidesse così, di punto in bianco, di mollare tutto per dedicarsi a casa marito e figli. Mi dava l’idea di una persona che fosse realmente libera, ci vuole del fegato per rinunciare al successo. La cosa buffa fu scoprire, pochi mesi dopo l’essermi avvicinato a lei con tutta la fascinazione che si prova davanti a un mistero, che la Smith era da poco tornata a fare musica. Con molta discrezione, certo, ma lei era di nuovo con noi.
L’anno passato è uscito il suo ultimo disco, una raccolta di cover. Il singolo trainante è una sua personalissima versione di Smells like teen spirit dei Nirvana. Non piace a tutti e capisco perché. Cantata da lei quel pezzo assume tutto un altro significato e non so se Kurt Cobain l’avesse mai contemplato. Non è più la canzone di un ragazzo frustrato perché non sente di avere un posto nel mondo. È il pezzo di chi è sopravvissuto proprio a un mondo a cui, nonostante tutte le sue contraddizioni, oggi appartiene. Forse, se Cobain fosse invecchiato abbastanza l’avrebbe sentita e cantata anche lui a quel modo. Chissà?
La Smith ha sempre detto di essere prima di tutto una poetessa. Ora, per uno strano caso del destino, un caso poetico di quelli che se li leggi nei libri o vedi nei film ti dici “bello sì ma inverosimile”, Patti Smith che per tutta la vita ho inseguito attraverso i suoi dischi, i suoi bellissimi ritratti fotografici e i fugaci articoli di giornale che leggevo con devozione ogni qual volta mi capitavano per le mani, si ritroverà a passare di qui fra quindici giorni, proprio il 4 luglio, per cantare a cinque minuti da casa mia, in un paesino di sogno frequentato per lo più da giapponesi affamati di souvenir chiamato Alberobello. Quando l’ho saputo sono quasi caduto dalla sedia, proprio come quando ero ragazzo e mi dimenavo ascoltando Land. Per me è qualcosa di più di un fan che vede per la prima volta uno dei suoi artisti preferiti. No, qui è questione di riuscire finalmente a toccare il tempo con mano, e la grazia. Averla lì davanti agli occhi, sentirla cantare e credere che ti guardi dritto in faccia, proprio te, e che finalmente il mondo con un po’ di giustizia abbia riannodato i fili di alcune delle sue molte storie appositamente perché un giorno tu possa raccontarlo.
IL WEEKEND PERDUTO
Tutto comincia nell’autunno del 1973. John Lennon viene mollato da Yoko Ono per un altro.
Distrutto dalla separazione, sfinito da una campagna denigratoria orchestrata dal governo degli Stati Uniti, che lo definisce un comunista per espellerlo dal paese, Lennon si trasferisce a Hollywood e comincia a bere per dimenticare, abbandonandosi ai gesti più idioti e violenti e autodistruttivi, e lasciandosi dietro una scia di disfacimento e di disastri tali da rovinarsi quasi la carriera. John in quell’autunno del 1973, come lui stesso ammetterà poi, impazzisce, diviene completamente folle di gelosia e d’amore. In seguito chiamerà quel lungo periodo di confusione e furia weekend perduto. Il weekend in realtà dura diciotto mesi, finché, come in una fiaba, alla fine del 1974 Yoko Ono pentita torna per salvarlo col suo bacio stregato. Nel frattempo Lennon scende all’inferno, saggia i confini del suo dolore e ne fa arte. Fondamentale in questo è il sodalizio con Phil Spector, produttore geniale che, intenzionato a produrre un disco di cover di vecchi successi dei primi ’60, lo coinvolge in una collaborazione. Per una volta Lennon sarà interprete e non necessariamente autore delle canzoni. Lennon, spossato dalla separazione, senza nessuna voglia di comporre, prontamente accetta l’offerta e i due si mettono al lavoro.
Purtroppo per Lennon, Spector è ancora più folle di lui. I suoi metodi di lavoro, per quanto portino a risultati straordinari, sono alquanto bizzarri e soprattutto lunghissimi: ore e ore ogni giorno vanno perdute per registrare una traccia su cui poi, a notte fonda, Lennon (che nell’attesa beve fino a ubriacarsi) dovrà registrare la sua parte vocale. In più di un’occasione i due finiscono per fare a botte. Una volta vengono addirittura cacciati via dallo studio di registrazione. Un’altra volta Spector, che gira armato, spara a Lennon, mancandolo. Lennon, del tutto ciucco, gli risponde: “Phil cazzo, sparami dove vuoi, ma non vicino alle orecchie! Mi servono per cantare!” (Per la cronaca Spector, che ha il vizietto, alcuni anni dopo proverà a sparare anche a Leonard Cohen). Alla fine il progetto viene abbandonato perché Spector scompare dopo aver causato un brutto incidente stradale e Lennon, in parte riappacificato con la propria musa, si mette al lavoro su delle nuove canzoni, quelle che poi finiranno in Walls and Bridges (1974).
Nel 1975 lui e Yoko Ono tornano insieme e John decide di rinunciare alla musica per dedicarsi alla famiglia. Il resto è storia. Di quel weekend con Spector ci restano una manciata di tracce, che verranno alla luce solo dopo la morte di John. Alcune sono completamente scomposte, come in Just Because, in cui Lennon comincia per cantare e finisce per fare profferte sessuali a una delle coriste: “voglio succhiarti i capezzoli, baby!” Altre, come Here we go again, sono dei veri e propri capolavori. La mia preferita rimane però Be my baby, un famosissimo brano delle Ronettes che in quella maniera così dolce e innocente tipica dei primi anni ’60, allude a una classica storia d’amore adolescenziale. Nella versione di Lennon, talmente ubriaco da essere privo di qualsiasi filtro davanti al microfono, questa canzone per ragazzi diventa una cosa seria, da grandi, il grido disperato di un uomo sconfitto dalla vita che chiede solo di poter tornare a casa. Soprattutto nel finale, così angosciato che poi verrà sfumato in fase di mixaggio, la sua voce si carica di una tale tensione drammatica da metterti i brividi addosso. Appare ovvio che quando canta “sii mia” non lo fa per un’ipotetica ragazza o per il suo pubblico. Canta esclusivamente per Yoko, dall’inferno in cui è sceso, pazzo d’amore e gelosia.
PENSIERI SPARSI SULL’ULTIMO JOHNNY CASH
Probabilmente vi rivelo un’ovvietà ma ci sono pezzi che funzionano meglio di notte. Scrivo questo all’incirca all’una e qualcosa mentre ascolto a basso volume, per non disturbare i vicini, Man comes around di Johnny Cash. Sono sul balcone ma Cash mi ricorda che non siamo che acrobati sulla corda, che sotto di noi brucia l’inferno e dentro di noi si agita la bestia. Non c’è niente da fare, non si può non credergli con quella voce. Ho scoperto Cash l’anno scorso, in Francia. Il mio amico Giovanni era rimasto colpito dalla sua versione di Personal Jesus e si era comprato il disco. Buona parte del successo del pezzo, mi disse, era opera di John Frusciante, che l’aveva rielaborata in chiave acustica, ma anche Cash faceva la sua parte. Poi di sera, in albergo, lo ascoltammo e ne rimanemmo invischiati. Dico invischiati perché, e chi lo ha ascoltato lo sa bene, la sua voce è come il petrolio, è calda e densa e se appena ci metti dentro un piede non riesci più a liberartene, ci affondi lentamente. Da allora mi sono fatto tutti gli ultimi dischi di Cash, quelli della serie American Recordings, ed è straordinario ad ascoltarli come quest’uomo riesca a trasformare anche i pezzi più moderni in opere senza tempo, scarnificandoli fino all’osso, riportandoli all’essenziale.
Qualcosa di simile aveva fatto Dylan coi due dischi acustici dei primi ’90. In quei dischi Dylan prendeva canzoni più vecchie di lui e, scavando nel loro cuore fino a riportarne alla luce l’essenza, le riportava vive ed attuali ai nostri giorni. La poetica dei due artisti è in fondo la stessa. Per me quella è la migliore musica degli anni ’90, insieme a poche altre cose. Peccato che l’abbia scoperta molto più tardi e non quand’ero ragazzo e innamorato di band più rumorose. Avrebbe di sicuro, mi dico, modificato il mio sguardo. Ma in fondo c’è un’età per ogni cosa e forse all’epoca non l’avrei apprezzata abbastanza, magari l’avrei addirittura snobbata come irrimediabilmente noiosa. Non c’è rabbia nella musica dell’ultimo Cash. Nessuna voglia di spaccare il mondo. A che servirebbe, ormai? Meglio lasciarsi cullare dalla notte.
Ci incontreremo ancora, promette Cash alla fine, e a ben vedere è questo il tema alla base degli American Recordings: il confronto spietato col Tempo, l’ansia di trovare finalmente la Salvezza. Cash riscrive la propria storia attraverso la scelta di brani che spesso non sono suoi ma sente come tali e che, appartenendo all’immaginario collettivo, fanno ormai parte del patrimonio popolare. La sua storia in questo modo diventa la storia di tutti, la sua voce (per quanto straordinaria) diventa la voce di chiunque. È, tutto sommato, un concetto molto americano. Ed ecco perché: american recordings. L’opera di Cash si apre all'America, quel mondo sterminato, fino a perderlo in essa. Liberandolo. Offrendogli finalmente Salvezza.
115° SOGNO DI PATTI SMITH
Ricordo come fosse stato appena ieri la prima volta che ho ascoltato Patti Smith. Mi ero comprato il disco dopo aver letto da qualche parte un articolo sulla sua vita, e come spesso mi succede mi ero innamorato di lei prima ancora di averla sentita. All’epoca, parlo della seconda metà dei ’90, l’unica maniera di ascoltarsi una cantante che ti interessava era farsi fare una cassetta da un amico più grande o beccare una qualche trasmissione sulla storia del rock in radio, ma già per quello ci voleva culo. Il più delle volte ritrasmettevano Because the night ma a parte il fatto che mi piaceva non è che mi dicesse molto della Smith. Io però m’ero innamorato e avevo deciso di scendere a patti col diavolo e investire i miei pochi risparmi in un CD. Del resto l’aveva detto anche Micheal Stipe, senza di lei la sua vita e la sua musica sarebbero state diverse, di sicuro peggiori, e senza i REM che mi accompagnavano sul primo treno del mattino per l’università anche la mia lo sarebbe di certo stata. E poi aveva o non aveva baciato Bob Dylan sul palco dopo un concerto? Insomma quella donna non poteva essere ignorata. Ero proprio innamorato.
Avevo vent’anni e comprai Horses, il suo primo disco, con tutta l’emozione del caso e ventimila lire. La copertina era bellissima e lei così cool! Opera del grande e perverso Robert Mapplethorpe, di cui avevo appena discusso durante l’esame di Storia della Fotografia. E poi c’erano John Cale alla produzione, e Lou Reed rannicchiato in un angolo nel collage del libretto. Insomma, ancora non lo avevo sentito e già mi sentivo a casa mia. Quello era un mondo che conoscevo bene. Ma la vera magia scoccò quando misi il disco nel lettore. Quando partirono pigre e avvolgenti le prime note al piano di Gloria e Patti pronunciò contro il Peccato i suoi versi più famosi (che non sto qui a ripetervi) cominciai a muovermi sulla sedia, non riuscivo a stare fermo, quando la sua voce si avvitava su se stessa mentre affermava che sentiva bussare alla sua porta provai quasi un brivido di piacere come se anch’io fossi lì ad aspettare ansimante dietro quella porta. Ma tutto il disco era fenomenale. Kimberly era dolcissima e in Free money si respiravano la notte e i suoi sogni. Ma il vero capolavoro per me rimaneva Land. Ogni volta che l’ascoltavo, per mesi da allora, non riuscivo a stare fermo, cominciavo a dimenarmi come un pazzo sulla sedia di fronte allo stereo, avevo le cuffie nelle orecchie e mio fratello più piccolo che alle mie spalle, senza capire, mi scimmiottava ridendo. Ma non m’importava. C’era violenza in quella musica e grazia. Era impossibile resistere. Per mesi chiunque passasse da casa mia doveva sentire Patti Smith. O sarebbe morto perdendosi per sempre qualcosa di grande. Non avete idea di quante persone ho convertito alla sua fede!
Poi nel tempo ho ascoltato più o meno tutto di lei, non molto in effetti. In particolare ricordo il giorno in cui comprai Easter, un album di cui mi ha sempre stupito l’ampiezza dello sguardo nell’affrontare il tema dell’amore, descritto in tutte le sue forme. Davanti al negozio di dischi mi fermò una signora un po’ tocca che afferratomi con foga il braccio mi dette la missione di diffondere al mondo la notizia che l’unica volta che era stata con un uomo lei era stata bene! Vai e dillo a tutti! Io sorrisi, le promisi che l’avrei fatto poi entrai a comprarmi Easter, chiedendomi se anche la Smith avesse avuto quel fuoco dentro quando alla fine dei ’70 decise di lasciare la musica per dedicarsi alla famiglia. Personalmente trovo ancora straordinario che qualcuno che avesse vissuto quell’avventura eccezionale all’apice del successo decidesse così, di punto in bianco, di mollare tutto per dedicarsi a casa marito e figli. Mi dava l’idea di una persona che fosse realmente libera, ci vuole del fegato per rinunciare al successo. La cosa buffa fu scoprire, pochi mesi dopo l’essermi avvicinato a lei con tutta la fascinazione che si prova davanti a un mistero, che la Smith era da poco tornata a fare musica. Con molta discrezione, certo, ma lei era di nuovo con noi.
L’anno passato è uscito il suo ultimo disco, una raccolta di cover. Il singolo trainante è una sua personalissima versione di Smells like teen spirit dei Nirvana. Non piace a tutti e capisco perché. Cantata da lei quel pezzo assume tutto un altro significato e non so se Kurt Cobain l’avesse mai contemplato. Non è più la canzone di un ragazzo frustrato perché non sente di avere un posto nel mondo. È il pezzo di chi è sopravvissuto proprio a un mondo a cui, nonostante tutte le sue contraddizioni, oggi appartiene. Forse, se Cobain fosse invecchiato abbastanza l’avrebbe sentita e cantata anche lui a quel modo. Chissà?
La Smith ha sempre detto di essere prima di tutto una poetessa. Ora, per uno strano caso del destino, un caso poetico di quelli che se li leggi nei libri o vedi nei film ti dici “bello sì ma inverosimile”, Patti Smith che per tutta la vita ho inseguito attraverso i suoi dischi, i suoi bellissimi ritratti fotografici e i fugaci articoli di giornale che leggevo con devozione ogni qual volta mi capitavano per le mani, si ritroverà a passare di qui fra quindici giorni, proprio il 4 luglio, per cantare a cinque minuti da casa mia, in un paesino di sogno frequentato per lo più da giapponesi affamati di souvenir chiamato Alberobello. Quando l’ho saputo sono quasi caduto dalla sedia, proprio come quando ero ragazzo e mi dimenavo ascoltando Land. Per me è qualcosa di più di un fan che vede per la prima volta uno dei suoi artisti preferiti. No, qui è questione di riuscire finalmente a toccare il tempo con mano, e la grazia. Averla lì davanti agli occhi, sentirla cantare e credere che ti guardi dritto in faccia, proprio te, e che finalmente il mondo con un po’ di giustizia abbia riannodato i fili di alcune delle sue molte storie appositamente perché un giorno tu possa raccontarlo.
IL WEEKEND PERDUTO
Tutto comincia nell’autunno del 1973. John Lennon viene mollato da Yoko Ono per un altro.
Distrutto dalla separazione, sfinito da una campagna denigratoria orchestrata dal governo degli Stati Uniti, che lo definisce un comunista per espellerlo dal paese, Lennon si trasferisce a Hollywood e comincia a bere per dimenticare, abbandonandosi ai gesti più idioti e violenti e autodistruttivi, e lasciandosi dietro una scia di disfacimento e di disastri tali da rovinarsi quasi la carriera. John in quell’autunno del 1973, come lui stesso ammetterà poi, impazzisce, diviene completamente folle di gelosia e d’amore. In seguito chiamerà quel lungo periodo di confusione e furia weekend perduto. Il weekend in realtà dura diciotto mesi, finché, come in una fiaba, alla fine del 1974 Yoko Ono pentita torna per salvarlo col suo bacio stregato. Nel frattempo Lennon scende all’inferno, saggia i confini del suo dolore e ne fa arte. Fondamentale in questo è il sodalizio con Phil Spector, produttore geniale che, intenzionato a produrre un disco di cover di vecchi successi dei primi ’60, lo coinvolge in una collaborazione. Per una volta Lennon sarà interprete e non necessariamente autore delle canzoni. Lennon, spossato dalla separazione, senza nessuna voglia di comporre, prontamente accetta l’offerta e i due si mettono al lavoro.
Purtroppo per Lennon, Spector è ancora più folle di lui. I suoi metodi di lavoro, per quanto portino a risultati straordinari, sono alquanto bizzarri e soprattutto lunghissimi: ore e ore ogni giorno vanno perdute per registrare una traccia su cui poi, a notte fonda, Lennon (che nell’attesa beve fino a ubriacarsi) dovrà registrare la sua parte vocale. In più di un’occasione i due finiscono per fare a botte. Una volta vengono addirittura cacciati via dallo studio di registrazione. Un’altra volta Spector, che gira armato, spara a Lennon, mancandolo. Lennon, del tutto ciucco, gli risponde: “Phil cazzo, sparami dove vuoi, ma non vicino alle orecchie! Mi servono per cantare!” (Per la cronaca Spector, che ha il vizietto, alcuni anni dopo proverà a sparare anche a Leonard Cohen). Alla fine il progetto viene abbandonato perché Spector scompare dopo aver causato un brutto incidente stradale e Lennon, in parte riappacificato con la propria musa, si mette al lavoro su delle nuove canzoni, quelle che poi finiranno in Walls and Bridges (1974).
Nel 1975 lui e Yoko Ono tornano insieme e John decide di rinunciare alla musica per dedicarsi alla famiglia. Il resto è storia. Di quel weekend con Spector ci restano una manciata di tracce, che verranno alla luce solo dopo la morte di John. Alcune sono completamente scomposte, come in Just Because, in cui Lennon comincia per cantare e finisce per fare profferte sessuali a una delle coriste: “voglio succhiarti i capezzoli, baby!” Altre, come Here we go again, sono dei veri e propri capolavori. La mia preferita rimane però Be my baby, un famosissimo brano delle Ronettes che in quella maniera così dolce e innocente tipica dei primi anni ’60, allude a una classica storia d’amore adolescenziale. Nella versione di Lennon, talmente ubriaco da essere privo di qualsiasi filtro davanti al microfono, questa canzone per ragazzi diventa una cosa seria, da grandi, il grido disperato di un uomo sconfitto dalla vita che chiede solo di poter tornare a casa. Soprattutto nel finale, così angosciato che poi verrà sfumato in fase di mixaggio, la sua voce si carica di una tale tensione drammatica da metterti i brividi addosso. Appare ovvio che quando canta “sii mia” non lo fa per un’ipotetica ragazza o per il suo pubblico. Canta esclusivamente per Yoko, dall’inferno in cui è sceso, pazzo d’amore e gelosia.
7 commenti:
quanto mi piace leggerti!
ciao simona
li hai messi nel mio personale ordine: su tutti Cash, lo storyteller per eccellenza, colui che ha varcato più porte di tutti in tutti i sensi;
poi Patti Smith donna/poesia/rock, dai testi forse i tra i migliori nella storia;
e i Beatles rivoluzione di altri, non so, non riescono alcuni cantanti a coinvolgermi e, starò dicendo un'eresia, ma loro non mi sconvolgono nella totalità (pur considerando tutta l'influenza che hanno avuto su intere generazioni di musicisti e ascoltatori) … mah!
tu lo sai che racconti bene le cose e soprattutto le tue passioni vero?
bravo, non si buttano queste cose
Patti Smith, la adoro... ho letto non molto tempo fa una sua biografia...donna atrocemente splendida.
Dei Beatles che dire?già sai, già ne parlammo.
Che fortuna che tu abbia ripubblicato questo post, bel lavoro capitano, complimenti:-)
Bacibaci.
sul vecchio blog c'era un sacco di bella roba.
continua a recuperare, che male non fa... ;-)
Sincronicity
Guarda un po' da me....
V.B.
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