martedì 31 luglio 2018

il diritto alla cazzata

Ripensavo a un aneddoto raccontato domenica scorsa da Cinzia Leone a Cisterino, durante Disimpegno. appunti intorno all'abitare. La Leone ha ricordato gli anni in cui lei e altri ragazzi di poco più di vent'anni fondarono la rivista Il Male, e quello che è stato il primo caso di fake news nel nostro paese. Nel 1978 quei ragazzi producono tre finte prime pagine di testate nazionali: Il giorno, La stampa, Paese Sera che mettono in distribuzione. Titolo dei giornali: Arrestato Ugo Tognazzi, capo delle BR! Sotto, la foto dell'attore portato via in manette dai carabinieri. Era stato lo stesso Tognazzi a posare per quel servizio fotografico. Realizzata all'indomani del rapimento Moro, quella bufala ebbe un clamore mediatico enorme. Poco fa, mentre leggevo una bio di Tognazzi, ho ritrovato una sua dichiarazione in merito alla sua complicità in quello scherzo. "Rivendico il diritto alla cazzata" diceva Tognazzi, ovvero a non farmi schiacciare dall'orrore, dalla grettezza, dall'angosciante livore della nostra epoca. Altri tempi, evidentemente, in cui l'irriverenza aveva un senso e un reale valore sovversivo. Io lo rivendico ogni giorno il mio diritto alla cazzata, ma succede questo: o non si coglie l'ironia fra le righe, oppure vengo superato in cazzate dalla realtà che mi circonda. Le supercazzole, avrebbe detto Tognazzi.


lunedì 30 luglio 2018

imbecillità

Mi è appena venuto in mente, guardando il servizio dell’atleta colpita da un uovo, che forse la “deriva razzista” italiana di cui si parla tanto è solo una scusa, un modo come un altro per salvarci, per nascondere e giustificare la ben più terrificante “deriva di imbecillità” nazional-popolare che affligge il paese ed è incurabile. Perché se sei razzista, studiando, pensando, crescendo, puoi anche uscirne. Se nasci imbecille, imbecille rimani per sempre, ce l'hai scritto nel DNA.

si sta

Si sta come i baresi
d'estate sugli scogli

domenica 29 luglio 2018

nuvola

Le cose belle di mio padre. Quando entra in casa, mi dice quasi esitante: "Antonio scusa, ti posso disturbare? Puoi venire fuori che ti devo far vedere una cosa?" Io lo seguo fuori e lui indica il cielo: "Guarda quella nuvola che forma strana che ha. Dovevo fartela vedere prima che scomparisse."

la domenica puntualmente

La domenica puntualmente, uno che ha pubblicato tutta la vita a pagamento viene da me, inviandomi un manoscritto inedito e un sostanzioso curriculum, ma puntualizzando: Però mi pubblichi gratis, altrimenti non sei un editore serio! Ah sì? E quindi anche la decina di titoli che hai già pubblicato con editori a pagamento sono libri poco seri? E perché dovrei perdere tempo con un autore così poco serio da farsi complice di quel sistema per anni e poi venir da me a dirmi come si fa il mio lavoro? Ecco, prima di fare la morale agli altri, guardate gli scheletri nascosti nella vostra bibliografia e poi date fiato alle trombe, ci fate più bella figura.

sabato 28 luglio 2018

belli sul lungomare

Nella foto, da sinistra, Daniela Gentile, poetessa, Giovanni Turi, editore ed editor, Clery Celeste, poetessa ed io, semplicemente bello. Dietro, ancora più bella, la Valle d'Itria.

giovedì 26 luglio 2018

il frutto della violenza

In questi giorni sta girando molto un video di una trasmissione televisiva in cui Indro Montanelli viene attaccato con ragione, dalla giornalista Elvira Banotti, per la storia del suo matrimonio con una dodicenne in Africa. All’auto-apologia di Montanelli che per l’epoca e il luogo era pratica comune, la Banotti risponde che una bambina resta una bambina, e se lo stesso gesto fosse stato fatto in Europa sarebbe stato ritenuto stupro, che c’era dunque una coscienza, da parte di alcuni almeno, che quel tipo di rapporto era sbagliato e fuorviato dalla discriminazione razziale e da un senso di superiorità di genere, da parte del maschio italiano/europeo sulla donna africana. Ovvero il frutto della violenza e del sopruso. Ecco, io penso che fra alcuni anni, molti di noi siederanno su quella stessa sedia di Montanelli, accusati di mangiare carne, ben sapendo nel profondo del nostro cuore che è e resta un abominio, e alle nostre recriminazioni che per l’epoca e il luogo era pratica comune, qualcuno risponderà che c’erano anche persone che avevano già una coscienza che uccidere degli animali per sfamarsene è sbagliato, che biologicamente parlando persino la vita dell’ultimo insetto del pianeta è sacra e degna di rispetto almeno quanto la nostra, e che tutto l’impianto su cui è costruita la nostra cultura alimentare, per cui alleviamo animali in strutture che sono come lager al solo scopo di ucciderli, squartarli e divorarli è conseguenza del nostro senso di superiorità di specie sul resto degli esseri viventi di questo mondo. Ovvero il frutto della violenza e del sopruso.

mercoledì 25 luglio 2018

parola chiave

Stamattina pensavo che fino ad appena due anni fa la parola chiave, quella che più veniva usata per decodificare i tempi era "crisi", mentre adesso è "fascismo". Non si sente altro che "fascismo", ritornato presente, e poi ovviamente "straniero". Così che certe volte, a furia di sentirselo dire, uno si sente straniero in casa sua. Ecco, sarà che ho fatto un brutto sogno, ma stamattina mi sono svegliato con la sensazione di una sorta di ricorso storico in atto: per cui alla crisi segue il fascismo e al fascismo segue la macellazione del bestiame. "Macello" potrebbe essere la prossima parola chiave per decodificare il presente. Ora bisogna capire chi fa il capro espiatorio sull'altare del ricorso storico e chi affila i coltelli. E poi pensavo anche a come è facile sbagliarsi in questo gioco di ruoli, a come esercito ogni giorno su me stesso la più ferrea disciplina per non cascare nel mio intrinseco fascismo made in italy. E, nonostante tutto, qualche volta inciampo.

martedì 24 luglio 2018

caffè con metatesto

Ma sì, mi dice il giovane aspirante romanziere di successo, che ha letto tutto, tutto sa, nulla gli piace, si crede Dio, ed è pronto a spaccar culi col suo stile irriverente, con l’irresistibile potenza affabulatoria della sua prosa nuova, finto-americana, delle sue storie vissute sul limite, con un tono, come se io editore di serie B non lo possa capire, nemmeno nella terminologia calcistica, ma sì mi dice, l’autofiction, il metatesto, la post-a-van-guar-dia, tu mi capirai. Ma guarda che io, gli dico, primancora che editore sono stato poeta, e leggevo e praticavo l’autofiction, il metatesto, in poesia quando tu pettinavi le bambole a Bukowski. E gli cito a memoria versi di Caproni che non sa, da esempio, e lui rimane zitto, lì, come un idiota.

lunedì 23 luglio 2018

vittoria

Oggi ho realizzato di avere la stessa età di Pavese quando si è sparato. Lui aveva appena vinto il premio Strega per La bella estate, pubblicato La luna e i falò e scritto e nascosto nel cassetto Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Io sto vivendo un'estate personale alquanto brutta, ho appena scritto un libro che non si è cagato quasi nessuno e alla morte ci penso costantemente più o meno da quando avevo vent'anni. Schiacciato dal confronto ho pensato: chissà se almeno lo supero in longevità. Così come stiamo messi, già arrivare ai 42 sarebbe una bella vittoria.

la morte del bonsai

Com’è aspro e dentellato di vita il campo di là dalla tempesta.
Io resto qui chiuso in casa o mi spingo se posso in veranda
riparando che resta dalle malversazioni del tempo e afflitto
dalla consunzione delle foglie. Risuona all’improvviso
oltre il cancello un nome. Mi affaccio su di un’ombra
che serra l’ombrello fra le mani. Mi aspetta
senza reclamarmi. La intride la pioggia e morde i suoi capelli
accesi in quest’inverno fuoriporta, ultimo riparo al mio avvenire
rinsecchito in una stanza. Le divora il corpo l’acqua
e fa materia del dolore, che più rinserra nella carne incerta
e più mi crepa dentro il cuore. È urna o arca questo vaso? Piove.

muore gregor samsa (sulla porta di casa mia)


domenica 22 luglio 2018

quando incontri un poeta ammazzalo

Quando incontri un poeta ammazzalo.
Risparmiati le battutine o i discorsi accalorati
e pieni di riguardo e bei proponimenti
in cui difendi quello che non sai o non leggi.
L’unico poeta buono è il poeta morto.
E tu contribuisci alla sua storia armandoti di pietre
e mazze solide. La storia ti ringrazia.
La storia da solista di cui sei protagonista
e il poeta vivo un incidente di percorso.
Questo ti comando: risparmiati pietà
e vuota giustizia per chi la chiede o vuole
e riconduci il poeta al sangue al buio
a tutto ciò che la sua fame impone. Un attimo
della tua attenzione mio postumo lettore.

sabato 21 luglio 2018

quest’isola chiamata terra


Quarant’anni fa, a settembre (quindi manca poco all’anniversario) veniva pubblicato The Bride Stripped Bare, disco bellissimo e sottovalutato sulla fine di un amore e sui sentimenti contrastanti che ne conseguono: solitudine, odio, debolezza, insoddisfazione. Amo molto quel tipo di opere e amo molto Bryan Ferry, per cui, visto che mi pare mancasse in italiano una recensione di questo disco che ha la mia stessa età, ho pensato di scriverla io stesso. È lunga e non credo che la leggeranno in molti, ma la dedico a tutti i miei amici che in questo momento vivono sentimenti simili a quelli provati allora da lui. L’arte non guarisce le ferite, però ci fa sentire sempre meno soli.


Settembre 1978. Bryan Ferry pubblica a suo nome un disco assai particolare, The Bride Stripped Bare, la sposa messa nudo, intitolato così in omaggio all’opera più famosa di Marcel Duchamp, Il grande vetro ovvero La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche. È un lavoro che per certi versi si discosta dalla sua produzione e come sempre in questi casi, alcuni lo trattano come un oggetto di culto, altri come un capolavoro mancato, qualcosa che ha cercato di arrivare in un certo luogo senza tuttavia riuscirci del tutto. Eppure, molto del suo fascino risiede proprio nella sua indefinitezza, in ciò che non dice, per incapacità o scelta premeditata del suo autore. 

 
La prima ispirazione dell’album scaturisce, circa un anno prima, dalla rottura sentimentale con la sua fidanzata di allora, Jerry Hall, modella che aveva posato per la copertina di Siren, ultimo album pubblicato dai Roxy Music, nel 1975. La Hall lo lascia per Mick Jagger dei Rolling Stones. «Stavo per sposarmi [con Bryan], ma Mick era così affascinante e io ero pazza di lui. Ero così volubile. Tornai da Bryan, ma quando si ha una storia con una persona a cui si tiene così tanto, non è più la stessa cosa. Finì piuttosto male. Mi piacevano molto entrambi. Dicono che sia impossibile amare due persone allo stesso tempo, ma io lho fatto» racconterà la Hall anni dopo in una intervista concessa al Washington Post (gennaio 2016).
La stampa scandalistica va a nozze con questa storia e attribuisce a quella separazione il senso ultimo del disco, complice quel titolo così evocativo. Eppure non basta, ci sono altri motivi dietro l’album. Ferry, che all’epoca ha trentadue anni, è insoddisfatto, irrequieto, sta cercando nuove strade espressive in un clima musicale in cui il glam rock che aveva contribuito a plasmare, codificandolo sui proprio gusti estetici, sta velocemente invecchiando. I Roxy Music, di cui è leader indiscusso, si sono appena sciolti, o meglio si sono presi una lunga pausa di riflessione per dar modo ai suoi componenti di portare avanti i propri progetti solisti, liberi dalla sua ingombrante presenza. E lui, che aveva sempre affiancato alle loro uscite dei dischi in proprio in cui cantava, riarrangiandole fino a farle proprie, cover di altri artisti che amava, in particolare di Bob Dylan, dopo lo scioglimento ha provato a dare alle stampe un disco di canzoni originali, In Your Mind, di cui non è soddisfatto, non sentendolo suo.


Intanto è appena esploso il punk, che ripudia i Roxy Music come esemplari di un genere non più in linea coi gusti del pubblico. David Bowie, padre di quel genere quanto e più di lui, ha appena inaugurato con Station to Station, Low e The Idiot prodotto per Iggy Pop, un nuovo periodo artistico per la propria musica, il cosiddetto periodo berlinese, di cui si trovano tracce persino nel suono di In Your Mind. Ancora a Berlino Brian Eno, amico-rivale di Ferry, con cui aveva fondato i Roxy Music prima di venirne estromesso, ha perfezionato un nuovo genere, l’ambient, e sta per dare alle stampe il seminale Before and After Science. Persino Lou Reed, che per certi versi è un dinosauro assai più vecchio di lui, si è completamente rinnovato fino al punto da venire eletto, di lì a poco, padrino del punk. Solo Ferry, coi suoi modi da dandy fuori dal tempo, che non sono una posa ma espressione più profonda del suo essere, sembra un pesce fuor d’acqua ormai destinato all’estinzione.
Invece, come spesso succede in questi casi, scosso nelle sue certezze più profonde, segnato nei suoi affetti, all’apice di un periodo di estrema solitudine e vulnerabilità, Ferry scrive una serie di canzoni in cui mette a nudo il proprio cuore, e per inciderle, senza un apparente motivo, forse solamente per cambiare aria (ma senza andare a Berlino), prenota i Mountain Studio di Montreux, in Svizzera, di proprietà dei Queen. Per l’occasione decide di fare le cose in maniera asettica, professionale: invece di chiamare i vecchi compagni, come in passato aveva sempre fatto (Phil Manzanera ad esempio), si circonda di una serie di affidabili turnisti, in cui la parte del leone la fa Waddy Wachtel. Nel malinconico ritiro di Montreux, situato sul lago di Ginevra, ma fuori stagione, senza amici, senza una donna, circondato da questa band appena formata esclusivamente per le registrazioni, Ferry entra in una dimensione di estrema intensità emotiva, qualcosa, come dirà lui stesso, «di molto remoto, molto solitario e molto folle».

Registra così abbastanza materiale per un doppio album, ma è a tal punto insicuro di cosa questo disco debba rappresentare per lui, di cosa debba raccontare, da rimaneggiarne più volte la tracklist, rinviandone di parecchi mesi l’uscita, fino a ridurlo a un album singolo. La sensazione che si ha confrontando le prime scalette col prodotto finito è quella di un artista che sia partito per scrivere un’opera sulla fine dolorosa di un rapporto, e sia arrivato a realizzarne una sulla fragilità dei sentimenti, sull’incomunicabilità, sull’incapacità di mettersi mai completamente a nudo e di riuscire ad esprimere le proprie debolezze, il bisogno di affetto, così da trovare nell’altro un punto di appoggio, di comprensione o complicità, il perdono, la salvezza dell’amore. 

Letto in questo senso, il titolo del disco, con tutti i suoi riferimenti all’ambigua opera di Duchamp, in cui la sposa è volata via, e vive su un altro piano, separato e irraggiungibile rispetto a quello terreno dello sposo, assume un connotato fortemente simbolico e non privo di una certa amara ironia rispetto a quello che in genere gli si attribuisce. Proprio per questo, dal prodotto finito, che trova equilibrio fra i pezzi confessionali scritti da Ferry sull’abbandono della Hall e intense cover a tema, vengono estromessi pezzi assai intimi con Broken Wings, Four Letter Love e la sua versione di Crazy Love di Van Morrison (che poi verranno ripresi negli anni in altri prodotti discografici) per dar spazio a pezzi altrettanto rivelatori ma di più ampio respiro.



Così l’iniziale Sign of the Time, scritta da Ferry, comincia coi versi: «Ecco un arcobaleno per i tuoi capelli/ ecco un altro segno dei tempi» che può leggersi come un sardonico addio, oltre che alla donna amata, agli splendori in costume del glam. Altre canzoni autobiografiche sono la successiva Can’t Let GoA volte il mondo là fuori ti prenderà con un sorriso/ tu che sei accecato dal desiderio/ Cento notti insonni mi hanno lasciato devastato e inerte/ ma posso farcela, posso aggrapparmi ad esso») e la centrale When She Walks In the Room, che richiama nel titolo una vecchia hit del 1963 di Jackie De Shannon, ed è più scopertamente ispirata alla fine della sua relazione («Per tutta la vita ti hanno insegnato a credere/ poi arriva un momento di verità e scopri che sei stato ingannato/ Tutto il nettare della tua vita si è prosciugato/ È dunque arrivata l’ora di arrendersi?»).


Infine la crepuscolare, conclusiva This Island Earth, che prende probabilmente il nome dall’omonimo film di fantascienza del 1955 diretto da Joseph Newman e Jack Arnold (in Italia Cittadino dello spazio), primo esempio cinematografico di space-opera, di opera cioè ambientata nello spazio con tanto di viaggi e battaglie interstellari con orribili alieni, fino al disperato atterraggio in mare che chiude la pellicola. Fra i più belli di Ferry, questo pezzo senza ritorno si spalanca a una visione cupa e pessimistica della vita e dei rapporti umani: «Il mio spirito sanguina Dio sa dove/ un flusso senza fine/ Ho provato ad amare, provato a trovare/ la mia anima nelle ombre che corrono cieche/ e irrequiete come il mare/ […] Così vicini eppure così lontani/ i naufraghi sono come estranei/ Quest’isola chiamata Terra/ e tu ed io». 


Le cover, invece, altrettanto fondamentali, si muovono fra tributi al soul più sanguigno e al funk, con le due belle versioni di Hold On (I’m Coming) scritta da Isaac Hayes nel 1966 per Sam & Dave, e di Take Me to the River, successo del 1974 di Al Green di cui Ferry propone una versione molto più in linea con quella che contemporaneamente stanno realizzando a New York, per il loro secondo disco, i Talking Heads sotto la supervisione di Brian Eno: la New Wave è alle porte. E ancora con una That’s How Strong My Love Is già portata al successo da Otis Redding nel 1965, ma cantata anche dai Rolling Stones, che sembra una piccola stoccata a Mick Jagger. Completano il disco la bella e insinuante The Same Old Blues, composta da J.J. Cale nel 1973, il commosso tradizionale irlandese Carrickfergus, e infine una splendida versione di What Goes On, dal terzo album dei Velvet Underground in cui con un tocco di genio fonde alcuni versi della loro I Beginning to See The Light: «How does it feel to be loved?». Ne viene fuori un lavoro di grande coesione tematica e musicale, pur nella varietà degli stili proposti.


Il disco di Ferry si accosta, dunque, ad altre opere confessionali e assai tormentate della prima metà degli anni ‘70, come Blood on the Tracks di Bob Dylan o Veedon Fleece di Van Morrison o, appunto, al terzo disco dei Velvet Underground, scritto interamente da Lou Reed nel 1968 sotto l’urgenza di una crisi personale e sentimentale che andava scritta, messa in musica. Lavori che, proprio in virtù della loro trasversalità e precarietà emotiva restano come opere aperte, impossibili da concludere, da definire o da accantonare, ammantate dal sottile fascino di un dolore maturo, struggente e romantico, ineluttabile nella sua fatalità. Eppure, come conseguenza di tutto ciò, l’album di Ferry, prodotto fuori tempo massimo rispetto ai suoi predecessori, per quanto apprezzato dalla critica, non venne capito dal pubblico, non vendette bene, né verso i fan di Ferry, ai quali mancava la disincantata, brillante eleganza dei dischi dei Roxy Music e non sapevano come interpretare questa nuova crudezza emotiva, l’ostentata esibizione delle sue ferite, né verso il nuovo mercato discografico in cui furoreggiava il punk che non sapeva che farsene di un’opera così indefinibile, piena di cuore, ma troppo arrangiata, troppo adulta, priva della rabbia istintiva e distruttiva del rock. L’album inoltre, per scelta di Ferry, non venne supportato da nessun tour promozionale.



Sulla copertina, un corrucciato Bryan Ferry in posa come sulla locandina di un noir, con giacca di pelle e cravatta (che oggi fa molto Matrix) nella fredda luce azzurrina di un sotterraneo, volge lo sguardo oltre la camera, rifiuta il contatto, sia col pubblico, sia con la donna in abito da sera giallo-oro e riversa sul tavolo da obitorio alle sue spalle (la modella Barbara Allen Kwiatkowska sul retro di copertina), dopo il morso di un serpente, chiara allusione cinematografica alla morte di Cleopatra, capace di sedurre col suo fascino i condottieri dell’Impero. La regina è morta, Ferry, indagando con cinismo da detective sulla scena del crimine, ne canta il referto. Si prepara così agli anni ’80, in cui fra varie altre maschere, ormai tutte in bianco e nero e non più a colori, tornerà sovente a questa tormentata esibizione di distacco, ma senza più ritrovare la grazia di tanta fragilità e umano dolore. 



venerdì 20 luglio 2018

riscatto

Una mia amica mi chiede cosa faccio, come sto. Le dico la verità: «Mi sono rotto le palle. Mi sono stancato di tutto, di chi scrive, delle librerie, dei distributori, dei compromessi, della boria di chi fa recensioni, della boria dei poeti, della falsità e scorrettezza dei concorsi, dell’ignoranza diffusa del pubblico, di chi ti chiede sempre favori, di chi ti manda manoscritti illeggibili o insulsi, di chi ti chiede di metterci la faccia, del clima viscido, fasullo, egoista, vanesio, intrallazzino e vacuo che si respira nei salotti della poesia, pieno di porci frustrati, vallette e bimbiminkia, di gente che ha potere e se ne gloria con discrezione e di altri che mostrano il culo al potere scodinzolando con naturalezza, di gente che non avendo né poesia né potere non fa che parlar male di tutti con quel senso di superiorità dei poeti postumi. Odio la poesia e il potere. Vorrei chiudere la casa editrice e andare a lavorare per qualcuno che mi paghi per fare quello che già faccio senza un soldo e senza un grazie. Voglio scomparire e respirare. Tornare a leggere soltanto per me stesso. E che facessero gli altri quello che non riesco a fare io». Fine della mia lamentazione. Lei mi risponde così: «Lillo ti prego no, poi non posso più dire che ho un amico editore. Tu sei il mio riscatto sociale. Non ti permettere». La prima risata del giorno.

mezzo gaudio

Certe volte penso che uno il destino se lo scrive addosso. Io ad esempio c'ho scritto che se trovo una donna che mi piace, che mi piace davvero dico, quella donna sta con un altro. Anche perché, se non è così, poi io di che scrivo? I mille tormenti d'amore che metti nei libri che non vuol leggere nessuno, forse perché, come si dice, mal comune mezzo gaudio.

mercoledì 18 luglio 2018

che pubblicare?

Ho tre libri di poesia pronti e nessuna sicurezza che a qualcuno possa fregare qualcosa di leggerli. Una volta avevo meno dubbi su queste cose ma l’esperienza insegna che un lettore si stanca facilmente. Volendo pubblicare una raccolta, l’anno prossimo, fra una di poesie d’amore in stile harem (152 poesie per 17 donne diverse), una satirica in cui riscrivo dei messaggi di spam arrivati via mail, e una di brevi prose e raccontini in cui si incrociano la vita dei miei gatti e il mio lavoro assurdo da editore, quale potrebbe essere più interessante? Quale più vicino ai gusti del pubblico? Sempre che leggerli possa interessare qualcuno. Intanto Bestiario Fiorito è quasi terminato e non credo di ristamparlo. Di Antonio Lillo in giro restano la ristampa di Rivelazione e l’ultimo libro di racconti con Stilo. La prossima volta o si torna indietro o si va al romanzo, mi sa, come fanno tutti.

lunedì 16 luglio 2018

epitaffio

Poco fa, dopo pranzo, ho preso sonno sul divano per circa dieci minuti. E mentre sonnecchiavo ho sognato l'epitaffio che avrei voluto inciso sulla mia lapide. Più o meno una cosa così (niente di personale, ovviamente, si parla di massimi sistemi). Chi mi sopravvive la vedrà: 

Era un grande artista, ma l’hanno capito dopo 
perché i suoi contemporanei erano tutti dei gran coglionazzi. 
Questa lapide sta qui piantata sul suo petto a loro infamia. 
E tu che leggi, anche se ora è morto, credimi, 
erano dei coglionazzi e lo resteranno per sempre.

domenica 15 luglio 2018

farfalle

“Vieni” mi chiama mio fratello. Che succede? “C’è una farfalla in giardino!” E mi ha ricordato come anni fa il giardino era pieno di farfalle che si muovevano tra i fiori destando in noi bambini un continuo senso di stupore. Adesso, invece, che sono così poche da sembrare quasi scomparse, ci basta vederne una sola per richiamarci alla meraviglia e alla nostalgia.

venerdì 13 luglio 2018

sarà la birra

Più di vent'anni fa io e D. in una tipica serata di provincia a tutta birra, una di quelle che dire alcolica è poco, eleggemmo "La fabbrica di plastica" di Grignani disco rock italiano dei nostri anni '90. Una cosa mooolto da ragazzi. Stasera ritrovo D. che mi dà uno strappo in auto e conserva ancora nel cruscotto le stesse cassette di vent'anni fa. "Bel disco, gli dico, me n'ero dimenticato. Però che brutta fine ha fatto lui". "Tu pensi che noi abbiamo fatto una fine migliore?" mi dice D. Non gli rispondo. Ci fermiamo a un bar e ricominciamo a bere birra. Oppure canticchiamo. "Che gran dischi faceva Grignani vent'anni fa. Chissà cosa ci è successo a tutti quanti che abbiamo perso quel nostro suono lì e non sembriamo più nemmeno rumorosi, ma semplicemente stonati". "Sarà la birra", mi dice D.

trota

Non sapevo di essere laureato. Come si fa a non voler bene al Trota? Finalmente uno col rolex che sa parlare alla gente dei problemi di tutti. (E non sto nemmeno scherzando).

martedì 10 luglio 2018

futuro

Oggi per una intervista mi hanno chiesto come vedo il mio futuro da editore DEL SUD in proiezione nei prossimi dieci anni. Ho risposto così: mandando questa immagine assai esplicativa di cosa voglio. Mi hanno risposto: "Su Lillo, fai la persona seria!" E mi hanno cestinato l'immagine, cancellando di fatto il mio futuro in stile rolex d'oro e tette al vento.

lunedì 9 luglio 2018

il mio fallimento

Dove sta il mio fallimento? Nel fatto che sono un poeta, anche stimato, ma povero. Se avessi avuto la costanza di sopportare una moglie noiosa e tiranna, ma capace di praticare l’editing sul romanzo, avrei potuto conquistarmi una notorietà che non ho. Pur non mancandomi la vena narrativa, ne ho scritto uno solo, perché non sopporto di avere una tutrice. 

Valentino Zeichen, Diario 1999, Fazi 2018

la mia vita come la vedono gli altri

Non ti ho visto proprio oggi su Fb, che è successo?
Nulla, ho una consegna, sto lavorando.
Tu, stai lavorando? Sì, sto impaginando un libro...
Ahahahah, e che impaginare è un lavoro adesso?

(La mia vita come la vedono gli altri. Un capitolo mai chiuso).

domenica 8 luglio 2018

in tutto e per tutto

Come ormai hanno capito in molti, più delle analisi sui giornali, ormai, valgono le conversazioni sui social per capire chi siamo e dove andiamo, conversazioni spesso di una superficialità imbarazzante, ma che restano, sulla scena del crimine, come le tracce del nostro DNA. Una cosa che ci rivela ad esempio, è quella per cui uno dichiaratamente di sinistra, poco fa, mentre elogiava il modo eroico in cui morì il Che, vero soldato in opposizione agli imperialisti americani, lo metteva a confronto con un certo duce che catturato a Dongo si pisciò addosso. Una immagine gratuita, senza eleganza e senza pietà, motivata solo dall'irrisione e piena di quel culto della forza, in chiave quasi estetica, che si contrappone alla debolezza dei vili e che è, in tutto e per tutto, fascismo.

venerdì 6 luglio 2018

tutti bravi ragazzi

Ho visto un porno amatoriale in rete, ieri sera, in cui un animatore turistico dalla pelle molto scura e dal pesante accento spagnolo, chiaramente sudamericano, si fa una ragazza, ospite del villaggio in cui lavora, che è andata a trovarlo in camera. Tutti e due, da ciò che si capisce, avranno meno di vent’anni. La ripresa di pessima definizione, fatta con un cellulare o con una videocamera di scarsa qualità, ha un’angolazione strana e pare fatta di nascosto. Da ciò che si dicono si capisce che lei non sa di venire ripresa, mentre si concede e talvolta si confida a lui durante la mezz’ora di durata del video. Eppure non è tanto la sensazione, pesantissima, di essere un voyeur attaccato al buco della serratura a colpirti, rafforzata dal fatto che il video sembra autentico, e nemmeno l’atto performativo in sé, notevole ma accessorio al vero sentimento del film: la vanagloria sfacciata di un ragazzino che esibisce la propria preda di caccia; quanto l’accento marcatamente veneto della ragazza, il modo in cui esclama “Madonna!” ogni volta che lui spinge in lei, e anche quello innocente e pratico in cui nuda, parlandogli, non gli dice mai “tu” ma “voi”, intendendo lui e i suoi amici, e dunque: “voi neri, voi animatori, voi pieni di tose, ma in fondo, come mi dice la Cati, tutti bravi ragazzi.”

la sedia

L’ultimo libro terminato in vita da Malaparte fu La pelle, pubblicato nel 1949. (Il successivo Maledetti Toscani fu in realtà scritto prima di Kaputt, 1944). Dopodiché Malaparte trascorse l’ultima parte della sua vita districandosi fra difficoltà economiche, ostracismo e vari progetti letterari – dal Ballo al Kremlino a Mamma marcia – senza tuttavia riuscire mai più a ritrovare la concentrazione necessaria a terminarli. Gli ultimi dieci anni di vita di Malaparte sono disseminati di progetti mancati, cartonacci di nuovi grandi affreschi europei e manoscritti pieni di idee ma tutti invariabilmente monchi. Stamattina, mentre concludevo di leggere la sua biografia, ho scoperto che nella sua casa a Capri, incentrata a una essenzialità quasi monastica o metafisica, non c’erano sedie. Ci si poteva sedere su due divani assai essenziali nella sala centrale oppure si utilizzavano i ruvidi letti nelle camere, o al massimo ci si sedeva per terra. L’unica sedia presente in tutta la casa era quella nel suo studio. Tre pareti piene di libri consunti e una libera, su cui si apriva una finestra che dava sul mare. Una scrivania al centro della stanza, rivolta verso la parete coi libri per non lasciarsi distrarre dal paesaggio, la macchina da scrivere e una sola sedia. Bukowski diceva che per scrivere erano necessarie solamente due cose: una macchina da scrivere e una sedia. Io mi sono immaginato gli ultimi terribili, tormentati anni di vita di Malaparte, seduto nel silenzio della sua casa in compagnia del suo cane, immobile su quella sedia o ascoltando il mare alle sue spalle, come sommerso in una bara d’acqua, continuando a elaborare storie o visioni senza pace, senza più la capacità o la fiducia di riuscire a raccontarne la fine.

giovedì 5 luglio 2018

#bogtitudine


Con Bogdan sul corso. Passa un noto esponente della storia politica locale. Per sfotterlo gli dice: "Ecco che passa la Democrazia Cristiana!" Bogdan gli risponde: "Ecco che passa la coglionaggine italiana!"

nel tuo nome

L’altro giorno, parlando del mio nome, una bellissima donna mi ha detto: “Non è mai casuale un cognome. Già questo tuo evoca storie forti. Corrisponde però a come ti percepisco. Come se tu fossi sempre in un imprevisto. In uno stupore a volte presente, a volte disorientato. Certo è, che come il tuo cognome, incarni qualcosa di fuori luogo.” A ripensarci, la trovo una definizione assai precisa, persino quando mi accorgo che vivere tutta la vita nell’imprevisto corrisponde spesso a viverla in un continuo stato di paura.

mercoledì 4 luglio 2018

cosa conta

Negli ultimi due giorni, la dichiarazione del nuovo sottosegretario ai Beni Culturali Lucia Borgonzoni: “Non leggo un libro per svago da tre anni” ha destato scalpore. La dichiarazione stessa, però, è stata male interpretata da chi ha posto l’accento sulla pausa di tre anni, intesa come confessione di una sorta di indolenza verso la cultura, perdonabile per il popolino ma inaccettabile per un sottosegretario. Invece, il nodo della questione è contenuto nel precedente “per svago”. Perché la Borgonzoni (che cita fra l’altro come sua ultima lettura Il castello di Kafka) sta implicitamente dichiarando che per lei leggere un libro, o andare al cinema o a un concerto, sono passatempi rispetto al lavoro. È la classica posizione già espressa dalla famigerata cazzata di Tremonti: “La cultura non si mangia” per cui la letteratura, il cinema, la musica, per quanto elaborati possano essere, non sono fondamentali alla crescita e al miglioramento di sé, ma semplici forme di intrattenimento che all’occorrenza possono e devono essere accantonate, e senza troppi rimpianti, in vista delle cose serie. Per questo motivo, e non perché non legge libri – chi se ne frega se non legge –, le posizioni mie e della Borgonzoni sono inconciliabili, perché se anche recuperasse come si auspica il tempo perduto, ad essere opposte sono le nostre due visioni della vita e di cosa realmente conta.

martedì 3 luglio 2018

distanze

Che poi dicono tutti che quelli di Pontida sono il male e io stasera mentre tornavo a casa ho contato tre persone (tre!) nel giro di 500 metri che dopo aver fumato buttavano la cicca a terra su una strada che è piena zeppa di cicche e qualche volta di cacche di cani, e ho pensato: ma se quelli di Pontida sono il male, questi qui che sono? E mi sono sentito io molto di destra, nel senso che se avessi avuto il potere avrei staccato loro la mano destra. E penso che delle volte si guarda il problema da così lontano che non si fa attenzione agli stronzi che abbiamo dietro casa.

dialogo di un venditore di fumo e di edmondo

Il venditore di fumo incontra Edmondo, che comincia a parlargli degli ultimi morti in paese. Il venditore, immalinconito dall’elenco, gli confida: “Sai Edmondo, anche io ultimamente mi sto accorgendo di essere entrato in una fase particolare della vita dove, come nulla, osservo molti miei amici, molti miei coetanei morire prematuramente. Sembrano andarsene così, quasi senza motivo, un aneurisma, un infarto, un colpo di sole, un’overdose, un tumore, basta un attimo e non ci sono più. Così, anche se ho solo quarant’anni, vivo nel terrore che domani stesso potrebbe capitare a me...” Edmondo lo guarda incredulo: “Tu ti lamenti? E io, che ho 67 anni, cosa dovrei dire?”. “Tu almeno hai la certezza di aver vissuto 27 anni più di me. A me la certezza di riuscire a pareggiare il conto con te, chi la dà?”. Edmondo lo fissa a lungo. “Pure tu c’hai ragione” gli dice per tagliar corto. E torna a parlargli dell’ultimo morto in programma.

lunedì 2 luglio 2018

democrazia

Ma Pontida non è, come molti scrivono, la fine della democrazia. Pontida è ancora democrazia, quando si dà la parola agli altri, a quelli che, in nome della democrazia, vorremmo vedere estinti.

dalla parte di chi non scrive

Pur non avendo mai approfondito la vita di Italo Calvino, dalla notizia della morte di Chichita, sua vedova ed erede dei suoi scritti, continuo a ripensare alla storia d’amore con Elsa De Giorgi, l’altra, ma vista dalla parte del marito di lei, Sandrino Contini Bonacossi, che da quel poco che ho letto fu un uomo fuori dal comune, persino nell’apparente sconfitta sentimentale: scomparve nel nulla a metà anni ‘50, chiedendole da lontano una separazione mai concessagli, per poi finire impiccato in un albergo a Washington vent’anni dopo. Nel momento stesso della sua fuga, lei, indecisa a lungo fra i due uomini, scelse la storia letterariamente più allettante, quella del lento e doloroso inseguimento di un’ombra. Più lui le sfuggiva, più lei rifiutava di cedergli terreno. Una fuga in tutto e per tutto simile – ma capovolta – a quella di Angelica da Orlando, che come annota Calvino nella sua versione raccontata dell’Orlando Furioso, ha una tale potenza centrifuga da mettere in moto tutta una serie di avvenimenti e personaggi intorno a loro. 
Chichita, all’opposto, scelse di tramutare quella storia, che peraltro non la coinvolgeva direttamente, essendo arrivata dopo nella vita di Calvino, in un segreto frutto della gelosia, nascondendo il carteggio di tale amore in un fondo ben custodito a Pavia e vincolato al silenzio, ma in un tale chiacchiericcio sui meriti dei suoi contenuti da farlo rimpiangere a tutti i lettori che da sempre sognano di riuscire a far coincidere arte e vita – bellezza e verità – su di un unico piano. Più Chichita negava di dare quell’epistolario in pasto ai lettori, e più si accendeva in loro il desiderio di averlo, rinfocolando quell’antico amore ormai sopito. 
Ma Chichita e Sandrino sono anche, appunto, la riprova di quale sia il prezzo da pagare quando si confondono i due estremi di arte e vita, senza riuscire a toccarsi. Entrambi adombrati, persino nel proprio dolore, o nel disappunto, dalla storia romanticamente più forte dei loro consorti scrittori, pur essendo a loro volta persone straordinarie e personaggi assolutamente letterari. Entrambi eternamente secondi ed entrambi infine divenuti primi, ma non per aver vinto il duello coi rispettivi compagni o coi rivali, quanto per motivi puramente biologici: l’uno per essersi sottratto al confronto, l’altra per essergli sopravvissuta.