lunedì 31 ottobre 2016

americanizzati

Rispetto a queste mode stupide o finto stupide (nel senso che uno fa finta che siano stupide per non dire che gli piacciono) tipo Halloween mi ricordo c’era un mio amico, Nannino il brasiliano, che liquidava tutti con una parola: «Americanizzati!». Non lo diceva alle mode, lo diceva alle persone, per dire che ormai erano corrotte, e le persone mi ricordo si incazzavano.

domenica 30 ottobre 2016

fatti, non parole

Domenica pomeriggio di malattia, sfiancato, lo passo in casa dividendomi fra i tg sul terremoto e un film che volevo vedere, La Macchinazione di David Grieco. Il film è bello, Ranieri è grande, ma come ogni volta che se ne parla il delitto Pasolini mi mette una gran tristezza. Possibile che – come dice Steimetz nel film – noi italiani siamo tutti dei Don Abbondio, profittatori e vigliacchi, oppure dei nani, troppo piccoli e con voci troppo esili per cambiare il mondo, anche gridando a più non posso? Non lo so. Quel che so è che, con tutti i suoi difetti estremi, non essendoci nient’altro intorno ci sono tanti oggi che sognano di diventare come Pasolini, lo prendono a modello anche se magari con loro non c’entra nulla, qualcuno lo emula, cita o scimmiotta come può, ma nessuno che abbia abbastanza palle per esserlo davvero. A fatti, insomma, più che a parole.

barriera del piscione

La strada di Nambu che fuggiva all’infinito ci invitava a salire ancora più a nord; con rimpianto tornammo invece indietro per far tappa al villaggio di Iwate. L’indomani, passando per Oguro-zaki […] ci spingemmo fino alla “Barriera del piscione”. Quando la donna di Yoshitsune, durante la lunga fuga nel nord, partorì, è in questo luogo che il neonato diede sfogo per la prima volta alla vescica. Volevamo raggiungere la provincia di Deva attraverso le montagne, itinerario poco frequentato, che sollevò i sospetti delle guardie e dei doganieri. Finalmente, ci lasciarono andare. La notte ci sorprese in piena montagna, ma fummo così fortunati da rintracciare la capanna di una guardia di frontiera, che ci offrì riparo. Imperversò tempesta per tre giorni, confinandoci in questo luogo abbandonato.

Pulci e pidocchi mordevano 
la notte sentivo il cavallo 
pisciare dietro il mio capezzale. 

pensierino zen

Sono così abituato a non usarlo che stamattina che mi serviva ho perso quasi un’ora per cercare il fon, per poi scoprire che era esattamente lì dove l’ho lasciato l’ultima volta circa dieci anni fa, accanto allo specchio. Semplicemente avevo smesso di vederlo.

sabato 29 ottobre 2016

amazon e il destino

Amanzon che mi manda le mail pubblicitarie coi libri scelti apposta per me e sono quelli che produco io stesso non so se è una mezza fregatura o la riprova che non poteva andare altrimenti.

venerdì 28 ottobre 2016

asterisco

Mi dice Sergio che già spedire una cartolina, ormai, è un esercizio di poesia. Ma quello che davvero mi commuove di questa è l'asterisco. 


mercoledì 26 ottobre 2016

l'uscita


«Il fatto che esista una parola, “sogno”, non significa e non implica che la realtà abbia un’alternativa». 

Iosif Brodskij, Lettera a Orazio 

Percorriamo da ore un lungo corridoio in pietra, o ponte coperto da un’altissima volta e «sospeso sul nulla, ma solido», come ci dice la guardia che ci accompagna verso l’uscita col fare svagato e un po’ sbuffante, ma colloquiale, di tutte le guardie annoiate e costrette a un lavoro ingrato. Ho provato a farle domande, ma non ha risposto a nessuna, aggirandole coi suoi sinceri apprezzamenti alla meraviglia architettonica di quel corridoio. Ma è così lungo e impervio, insensato e pieno di curve inattese che si avvolgono e avvitano e aggrovigliano su se stesse in una sorta di labirinto serpentesco, che appare più il delirio di un ingegnere folle che l’opera grandiosa che ci dipinge la guardia entusiasta. Siamo in tre con la guardia. Ci accompagna un bambino che non conosco ma si stringe a me senza mai guardarmi in viso, e mi assomiglia al punto da essere il mio ritratto di quando avevo la sua età, la stessa aria malinconica, lo stesso sguardo privo di sorriso di quand’ero bambino. La guardia, parodiandoci, ci chiama la sacra famiglia mancata, mancandoci appunto una donna.
La volta, senza alcuna forma di illuminazione, emana una sorta di luminescenza muschiosa dalle pareti, che mi lascia ammirato. La guardia ci dice che è così perché riflette la luce che si propaga dall’uscita, ormai non troppo lontana. Non le credo più, da quanto tempo ci costringe, senza violenza ma con decisione che non ammette lamentele, a quella marcia forzata. È un cammino di ore indirizzato verso la nostra morte, lo sappiamo, eppure non ci opponiamo, ormai rassegnati alla fine. Certo, preferirei non essere costretto a quella prova massacrante. Mi sento come spossato, come se le gambe non riuscissero più a reggermi e per un attimo credo che sia in bambino a furia di appendersi a me a togliermi ogni forza. Vorrei scrollarmelo di dosso, cacciarlo via, ma poi mi prende pietà di lui e lo lascio perdere. Mi volto indietro, per un attimo come richiamato da una voce, ma è un’illusione, e mi chiedo dove sia sua madre, dove la sua vera famiglia, e perché è stato affidato a me in quelle ultime ore che ci coinvolgono. Poi lascio perdere anche le domande e mi concentro unicamente sulla voce querula della guardia, sulle sue chiacchiere per ammazzare il tempo che ci resta.
Arriviamo dunque alla fine del corridoio o ponte, di fronte a un enorme e solido muro all’apparenza senza uscita. E ci dirigiamo verso un angolo, incontro a una porticina strettissima e irregolare che sembra essere stata scavata nella spessa parete cieca con un punteruolo di fortuna. È talmente stretta come uscita da sembrarci ridicola. E noi dovremmo passarci attraverso? Ma come? Forse potrebbe il bambino, ma io? Provo a spiegarlo alla guardia, ma lei si dice convinta del contrario, è possibile.
Ci invita a chinarci e ad allungare la testa attraverso quella finestrella per ammirare, dopo tale cammino, cosa finalmente ci aspetta. Gli obbediamo e restiamo come paralizzati, meravigliati da tanto splendore. Siamo sospesi, è vero, chilometri sopra il mare, quasi nello spazio aperto. Ma persino la Terra sotto di noi, che pare farsi sempre più lontana, si illumina della stessa luminescenza diafana del corridoio in cui siamo. Mi volto, di nuovo armato di domande, verso la guardia, che adesso mi punta contro una pistola per precauzione, ma continua a sorridermi da un’adeguata distanza di sicurezza.
«Si può sapere dove siamo? Cosa ci aspetta? Vuoi davvero che saltiamo di sotto da quella altezza?» chiedo, facendomi finalmente coraggio, e alle mie parole il bambino sembra stringermi ancora di più a me, e mi bacia la mano che intanto si è posata sulla sua guancia umida, per scaldarlo.
La guardia mi sorride, comprensiva, e tira fuori dalla tasca una corda d’oro che mi passa. «Non dovete lanciarvi di sotto, dovete calarvi con questa e andrà tutto bene. Ma occorre fiducia».
Ma la corda mi appare troppo corta per calarci di sotto, e resto immobile.
Lui mi sorride per la terza volta e mi rivela: «Siamo nella pancia del Signore, questo è il suo intestino. Tocca a voi, adesso, dargli un senso».
Il bambino comincia a tremare contro il mio corpo, si stringe di più, sempre di più a me, fino a farmi male. Io fisso la corda che mi appare ancora troppo corta, non so decidermi, mi chiedo se a un certo punto ci sarà una magia, e come potremo mai uscire da quella fessura strettissima nel muro. Allora sento il grilletto della pistola che viene caricato. Osservo la canna puntare minacciosa verso di noi.
«Ora pregate» ci ordina.

lunedì 24 ottobre 2016

impegno

Mio fratello, maestro di pianoforte e fino a poco tempo fa tenore nel coro del Petruzzelli, si è adattato ai tempi che corrono e ha trovato lavoro in una scuola di musica come insegnante di canto pop. Non è proprio la musica che preferisce, ma come in tutte le sue cose ci mette dentro un impegno e una dedizione assoluti, e studia quello che non sa per darlo al meglio ai suoi allievi. Non lo credevo possibile fino a stasera, ma passare all'improvviso dagli studi su Čajkovskij a estemporanee esecuzioni al piano di Your Song di Elton John fa il suo bell'effetto.

concime


«Li associati a delinquere cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a loro posta e coprir d’onte e stuprare la Italia...» 
Comincia così la nuova edizione, stavolta non censurata, di Eros e Priapo, estrema invettiva antifascista di Carlo Emilio Gadda, che all'epoca (1967) venne grandemente ripulita da Adelphi (con editing di Enzo Siciliano) per la violenza del sentimento e l'immaginario osceno, visto che poi il linguaggio è sempre altissimo e visionario. La cosa più sconvolgente del libro non è tanto il livore espresso contro Mussolini e il regime, ma la feroce condanna degli attegiamenti vanesi, velleitari, machisti e brutali della cultura dell'epoca, che non sono per Gadda espressione di una dittatura scesa sull'Italia a umiliarla ma, al contrario, concime di stampo prettamente italiano su cui il fascismo ha attecchito con gusto.

venerdì 21 ottobre 2016

«give the anarchist a cigarette»

Iersera ho visto DONT LOOK BACK di D. A. Pennebaker, documentario che segue Bob Dylan nel suo tour londinese del 1965 poco prima della svolta rock. A parte il fatto che secondo me andrebbe inserito di diritto nella discografia di Dylan, come pura forza performativa che sprigiona dal Dylan in bianco e nero di quegli anni ’60: ogni gesto, ogni sbadiglio, in tutto ciò che fa Dylan è cool, angry, punk come non sarà mai più; a parte tutto questo fa una certa impressione vedere oggi come tantissimi fan si scusino con lui (si scusano davvero!) di non riuscire a volte a concentrarsi sulle sue parole perché distratti dalla musica! Dylan si schernisce: sono soltanto uno che suona la chitarra, eludendo così sia il suo ruolo di poeta che quello di guida sociale e politica. Qualcosa della sua insoddisfazione, però, trapela dalle sue esibizioni. Ti importa qualcosa di quello che canti? gli chiede il giornalista del Time, al che Dylan risponde incazzato: Non posso credere che tu mi stia facendo una domanda del genere. Eppure, quando alla fine i giornali gli danno dell’anarchico, ci resta quasi male: finalmente sono riusciti a trovare una parola per definirmi, dice con sarcasmo. Date una sigaretta all’anarchico, aggiunge, con una battuta entrata nell’immaginario popolare inglese, come se fosse l’ultima sigaretta di un condannato a morte. Perché di fatto, nell’universo dylaniano, tutto ciò che viene definito è già come se fosse un poco morto. Speriamo che la parola «poeta», con cui lotta da una vita, ora che ha vinto il Nobel non lo uccida del tutto.

giovedì 20 ottobre 2016

b.digital

Comincia da oggi la nostra nuova avventura, o impresa, come casa editrice, chiamata B.digital. Chi mi conosce ne avrà sentito parlare negli ultimi mesi in maniera quasi esclusiva. Per tutti gli altri B.digital è un progetto, vincitore del bando di finanziamento Funder35 con la Fondazione CON IL SUD, attraverso il quale cercheremo di rilanciare i nostri libri nel mondo digitale. Di cosa si tratta? Di una serie di corsi prima per creare audiolibri, e-book e e-book multimediali e poi di booktrailer, media marketing e digital advertising per rilanciare questi nuovi prodotti sul mercato nella maniera più incisiva. I corsi saranno tutti tenuti da professionisti del settore. L'obiettivo finale, per noi, è quello di riuscire a creare libri multimediali, in più lingue, da rilanciare sul mercato europeo. Il progetto durerà per i prossimi due anni, mentre i corsi, indipendenti, cominceranno a fine novembre e andranno avanti, in formula weekend, fin a fine gennaio. 

poesia delle chioccioline di terra


martedì 18 ottobre 2016

scintilla

Quelle volte che ti si accende finalmente (dopo tre giorni che la stai cercando) la scintilla di genio per una recensione di 5000 battute che devi consegnare entro giovedì, e tuo fratello (che ti considera l’equivalente umano di un maiale che si rotola gioioso nel fango) decide di passarti l’aspirapolvere e mentre lo fa, per abitudine, attacca a cantare un qualche pezzo d’opera con quella sua voce che fa tremare i vetri. La scintilla ha tremolato, poi si è spenta, sepolta dal frastuono.

domenica 16 ottobre 2016

a quelli che vorrebbero tenermi qui...

L’ultimo testo dell’ultimo libro di Attilio Bertolucci, il suo congedo dalla vita. L’ho letto stamattina sotto le coperte e ne ho ancora i brividi – l’eco – addosso. Ecco la differenza, mi dico, fra tanta buona cara onesta intensa poesia che scriviamo e pubblichiamo, e l’arte che squarcia il velo delle apparenze per scuoterci dal nostro torpore di passanti. 

A quelli che vorrebbero tenermi qui – 
morti che mi amano ancora 
perché non gli resta altro da fare 
che amarmi sin che anch’io 
non sia tornato con loro 
dietro il muro sbiadito e il marmo 
che salda la calcina mischiata 
con sabbia del Baganza e acqua 
del condotto farnesiano – 
vivi che non mi hanno mai amato 
e dicono di preferire 
quella mia poesia di una grazia 
proverbiale, dico: lasciatemi andare, 
 giugno è ventoso 
e queste foglie amare 
sono imbrattate di lucciole sfinite, 
lasciatemi andar via. 

[La lucertola di Casarola, Garzanti 1990]

sabato 15 ottobre 2016

quando

Una volta lessi un articolo (non ricordo di chi) dove, scardinando il principio della scrittura intesa unicamente come arte, come distillato della bellezza del mondo frutto di una precisa visione dell’artista, di un sofferto lavoro creativo (un parto), si sosteneva che campare di scrittura si può eccome, con molta disciplina e dedizione al proprio lavoro, anche pubblicando un libro ogni sei-sette mesi (che sono oggi i tempi medi di vita del romanzo come prodotto editoriale). 
Quando, però, ti capitano (e ti capitano) scrittori che di libri all'anno ne pubblicano tre o addirittura quattro, il dubbio un po’ ti viene, e mutuando la querelle del genitore che sottraeva il figlio ai compiti di scuola per godersi un po’ le proprie vacanze, ti viene da chiederti: ma questi, se scrivono quattro libri all’anno, di preciso quando vivono?

giovedì 13 ottobre 2016

incipit per un prossimo racconto

Scriveva lettere piene di disperazione alla moglie che lo aveva allontanato a causa del suo egoismo di scrittore.

la lotta per l'osso


Mi fanno un po’ ridere quelli che si scandalizzano per il Nobel per la Letteratura a Bob Dylan, e parlano di ingiustizia letteraria per il povero Philip Roth (che così povero secondo me non è). Sinceramente (ma lo dico come sfogo) se ci fosse una giustizia letteraria io, oggi, pubblicherei nella collana bianca di Einaudi. Così, per dirne una. E come me molti bravissimi scrittori che conosco. Invece Einaudi pubblica, da anni, molte più cagate in versi di quelle che ha composto Bob Dylan in 50 anni di canzonette. Ma non è solo Einaudi. Tante altre case editrici che si dicono libere pubblicano semplicemente (per far quadrare i conti, dicono) più merda di quanta se ne possa digerire, in cui fanno proliferare autori senza alcuno spessore, che pubblicano libri di cui nessuno ha bisogno non perché sono più bravi di altri, ma solo perché sono meglio intrallazzati, sempre al posto giusto al momento giusto, a dire la cosa giusta per essere simpatici. La letteratura è anche un lavoro relazionale, si sa. E così vanno in tv nei salotti giusti, fanno inchieste giornalistiche che non denunciano nulla, fanno satira insulsa, fanno politica ma si incazzano sempre senza arrivare mai a nulla, talvolta fanno utilissimi pompini, e cucinano e cantano e giocano a calcio, ma senza sfiorare mai (tranne rare eccezioni) la Letteratura, nemmeno per sbaglio. 
Eppure, in tutto questo sistema diabolico, che non è l’eccezione ma la norma, invece di incazzarsi per la merda nauseabonda che circola nelle nostre librerie, imbellettata da marchi prestigiosi, quello che rode di più è che Bob Dylan (anche se pubblicato da Feltrinelli) non fa letteratura, non fa musica e non fa nemmeno arte. E visto che non fa nemmeno pompini, non si sa come giustificare questo errore. Forse dovrebbe giocare a calcio. 
Parlando di errori, stamattina mi scriveva una mia amica sconsolata: “è morto Dario Fo, siamo più poveri”. E a me è venuto da pensare che sì, è vero, siamo poveri, ma Fo era anche anziano. Il problema, il problema vero, immenso, non è che si sente la sua assenza, ma che si sente l’assenza di un ricambio che non c'è stato, non perché manchino i talenti ma perché chi c’ha il Potere (come lo chiamava Fo) economico, editoriale, chi potrebbe dargli spazio, ampio, di azione e di pensiero, piuttosto che investire in quei giovani talenti, preferisce storcere il naso, guardare altrove, e non sempre al meglio o in buonafede. E ripetere a chi scalpita, come succede a me: “questo posto non va bene per te, col tuo talento forse dovresti andartene altrove”. Invertendo, di fatto, il celeberrimo: Questo non è un paese per vecchi, che Cormac McCarthy (anch’egli meritevole di Nobel) ha mutuato come titolo di un suo romanzo da una poesia di Yeats. (Sempre questa Poesia che torna fra le balle). E se qualcuno si lamenta del trattamento, al Potere piace ripetere che emergere, da sempre, è una lotta spietata. La lotta fra cani per l’osso.

martedì 11 ottobre 2016

le vertigini

Sono fatto d’acqua e ho le vertigini, mentre provo a reggermi sulle mie gambe senza troppo successo. Di buono c’è che quando cado non mi rompo le ossa, e la stanza intorno, quando mi apro sul pavimento e poi mi riassorbo, ne viene fuori un po’ più pulita. In verità spero che così, assorbendo lo sporco, potrei riuscire a compattarmi meglio. Invece prevalgono ogni volta l’acqua e le vertigini.

domenica 9 ottobre 2016

gozzovigliare all’ombra dell’autore

Leggo da alcuni giorni tutte queste storie sulla vera identità di Elena Ferrante (di cui in verità ci frega poco o nulla) e sulla necessità o meno di conoscere la biografia dell’autore per capire meglio l’opera, e mi tornano in mente alcuni vecchi termini della critica dell’arte che studiavo all’università: Iconologia (per cui l’opera è il risultato di un insieme di segni desunti dall’ambiente sociale in cui l’autore si è formato e da cui è permeato, e quindi un po’ figlia dell’autore e un po’ di più del suo ambiente) contro Sociologia (in cui l’opera è frutto del continuo confronto dialettico fra autore e ambiente, e da come l’autore e l’ambiente, spesso in lotta per affermarsi l’uno sull’altro, si trasformano a vicenda). Per dire che questa storia dell’importanza o meno dell’autore verso l’opera è vecchia quanto il cucco. 
Nel medioevo, ad esempio, la presenza dell’autore era considerata un atto di vanità colpevole dell’uomo verso Dio, atto che inficiava il valore stesso dell’opera, a Dio offerta. L’autore rimaneva spesso agente anonimo di un intero mondo, ma non per questo le cattedrali sono opere meno perfette e stupefacenti. Nel romanticismo (nei cui rigagnoli sguazziamo ancora oggi, felici e inconsapevoli) l’opera senza il vissuto dell’artista diventa quasi inconcepibile, perché nella dicotomia autore-opera, noi pubblico contempliamo l’opera (la bramiamo) ma è nella storia dell’autore che ci rispecchiamo, ci identifichiamo, e troviamo un motivo consapevole (perché semplificato) alla nostra bramosia estetica. E in effetti, quanto perderebbero I Canti di Leopardi al nostro occhio, senza il tormento autobiografico che ad essi attribuiamo? 
Qualcuno si tira indietro, volontariamente, dal gioco (Rimbaud, Salinger). Qualcun altro, all’opposto, imprime se stesso nell’opera a tal punto che siamo costretti a prendere entrambi come uno solo (Hemingway, i poeti, ma pure personaggi discutibili, tossici, violenti, che dal vivo terremmo a distanza ma che nell’opera perdoniamo e nobilitiamo). Qualcuno dall’opera si tiene a distanza di sicurezza (Emily Dickinson). Ma non è, mai, una regola necessaria. Ma che succede, nel pubblico, quando non può identificarsi con l’autore, mentre brama l’opera? Semplice: non potendosi aggrappare ad altro, inverte il rapporto e cerca spasmodicamente tracce dell’autore nell’opera, per soddisfare il proprio bisogno e al contempo compensare la sua assenza. Così alimenta il mercato. Tutto questo per dire che, nel caso Ferrante, non pare di risalire a nessuna delle casistiche sopra esposte, frutto né di umiltà né di tormento, al massimo di opportunità ben ponderata, in cui a un certo punto l’opera vale più per il mistero di chi l’ha scritta che non per la sua qualità intrinseca, e anzi, nonostante quella. Infatti i libri della Ferrante, belli o brutti che siano, anche grazie al mistero che la circonda, vendono benissimo, e non solo: danno anche spazio a chi, alimentando o smontando il suo mistero, gozzoviglia all’ombra dell’autore, di cui l’opera non è più centro ma corollario.

lezioni di vita

«Minchia la frustrazione dei poeti! Anche io quando mi lascio con una ci sto male, però mi faccio forza, vado avanti, mica scrivo dei poemi per farlo sapere a tutti. Un po’ di maturità!».
Danilo, 19 anni appena compiuti, mi dà lezioni di vita.

gli scomparsi

Nel sogno morivano tutti senza volerlo. Alcuni scomparivano persino dal ricordo, o forse si nascondevano e basta. Altri continuavano a vivere – nella finzione – una vita priva di senso ma ricca di alibi. Come quello di darsi appuntamento per parlare degli scomparsi, porsi domande su di loro, offrire aneddoti come risposte e trattenerli il più a lungo possibile, fino a quando, a forza di ripeterli, gli aneddoti stessi diventavano vuoti.

venerdì 7 ottobre 2016

dicono che mio fratello non mi assomigli per niente

poeti e fagioli

Stamattina visita con caffè a Lino Angiuli. Ci racconta un aneddoto spassoso sul suo rapporto controverso col prof. Arcangelo Leone De Castris, che avrebbe voluto farne un critico invece che un poeta. Il giovane Lino va da lui e, per sfotterlo sul suo terreno linguistico-ideologico, gli dice:
«Arcangelo, ho scritto una poesia sul fagiolo. È una cosa nuova, che finora non ha mai fatto nessuno… scrivere una poesia e infilarci dentro il fagiolo. Ti rendi conto? Ho FAGIOLIZZATO la Letteratura!»
De Castris, che coglie o forse no l’ironia, abbocca all'amo e serissimo risponde: 
«No Lino, ma che dici. Tu hai LETTERATIZZATO il Fagiolo!»

giovedì 6 ottobre 2016

shotgun willie

Shotgun Willie, la title track di quello che molti considerano il capolavoro discografico di Willie Nelson, esponente di spicco del country americano, venne scritta in un periodo di grande confusione creativa ed esistenziale, nel bagno di un motel, sulla confezione vuota di un assorbente. A dispetto del poco fascino di questa storia, il nomignolo “Shotgun” Nelson se lo guadagnò in un autentico duello in uno scenario da selvaggio west. Pare che Willie, intorno al Natale del ’69, abbia scoperto che sua figlia Lana subiva violenze domestiche da suo marito Steve Warren. Infuriato, si reca dal marito di Lana, picchiandolo e minacciandolo di ucciderlo se solo ci riprova. Appena ripresosi dalla batosta, Steve Warren, invece di pentirsi e fare ammenda, raduna tutti i suoi fratelli, armati di fucili calibro 22, li carica sul suo furgone e si dirige a casa di Nelson. In quel momento Willie è in casa col suo batterista Paul English. I fratelli Warren circondano la casa e cominciano a sparare. Willie e Paul, armati di fucili da caccia [shotgun], rispondono al fuoco. Ne nasce una lunga sparatoria, che si protrae per ore con tanto di inseguimenti, agguati, trappole, rapimenti, il tutto nell’indifferenza della polizia del Texas, che non vuole immischiarsi in quelle che ritiene “beghe famigliari”. Alla fine e contro ogni pronostico Willie e Paul risultano vincitori, costringendo i Warren alla fuga e regalando a Willie il suo celebre soprannome. Pare anzi che Walker Texas Ranger sia stato in parte ispirato nell’aspetto (barba e capelli lunghi) proprio dal buon vecchio Willie Nelson.

sul rinnovato compiacimento per l'ultimo bel film di woody allen

Mi vien da dire, da alleniano convinto, che ogni cinque anni circa c’è qualcuno che dice che Woody Allen è finito, morto, sepolto, superato, e per giunta inutile. Poi torna a fare un bel film ogni quattro carini (negli ultimi venti anni ne ha fatti un sacco carini) e tutti ritornano a dire, sorpresi e un po’ dimenticandosi precedenti affermazioni: “Ah però, Woody Allen, sempre grande lui!”. Woody Allen intanto se ne fotte beatamente e continua a far film, belli, brutti, soltanto carini, non importa, perché lui semplicemente prosegue la propria ricerca. Perché un artista serio non fa le sue cose pensando: “Questo sarà un capolavoro che piacerà a tutti”. Uno fa e basta, al meglio che può, e dà forma alla sua idea. Punto. Il capolavoro, se c’è, ce lo vedono (o ce lo vedranno) gli altri. Riuscirci è una scommessa, non un obbligo morale verso il pubblico. L’unico obbligo è l’onestà dell’intenzione. Poi, se come appassionato ti piace davvero un artista, secondo me, la ricerca in sé (la sua intera produzione vista nel suo insieme, compresi gli errori, i tentativi, gli scarabocchi e le imperfezioni) è più interessante della singola opera. Ed è il motivo per cui, per estensione, di Leonardo o Rembrandt collezioniamo anche gli schizzi. E se proprio si vuole il capolavoro a tutti i costi, per soddisfare il proprio fine palato sempre a caccia di nuove emozioni estetiche, c’è tanta roba in giro, ottima per quanto meno prestigiosa nel nome, basta cercare. Oppure si può sempre tornare ai classici, a cominciare dalla Corazzata Potemkin di famigerata e surreale memoria.

lunedì 3 ottobre 2016

californication in locorotondo

Siccome sono tordo, mi hanno appena spiegato che in quanto editore non posso provarci con le autrici che pubblico perché è eticamente scorretto. Come mettere un bambino nel negozio di caramelle e dirgli: non puoi perché se no ti viene la carie. Prima mi è cascato il mondo addosso, poi ho realizzato che qui o sono sposate, oppure sono maschi (il 90%) e nemmeno il mio tipo. Insomma, il seme del male era in nuce, ma grazie alla mia solita sfiga posso dormire sogni tranquilli. A ogni buon conto, per evitare future tentazioni, faccio mio il proposito di Cecco Angiolieri, con variazione salutare per l’anima: «Si fosse Lillo com’i’ sono e fui/ torrei le donne zoppe e vecchie:/ le giovani e leggiadre lasserei altrui». (Tradotto: le belle tentazioni se le pubblichino gli altri, così ci provo senza più turbe morali). Se ci riesco o no, è ancora tutto da vedere. Il seguito alla prossima stagione.

sabato 1 ottobre 2016

ninna nanna

Viaggio in treno, vagone di seconda classe. Seduta di fronte a me una ragazza, credo russa, parla da circa mezz’ora al telefono nella sua lingua. A un certo punto comincia a cantare con voce limpida una specie di nenia, come una ninna nanna del suo paese, mentre il suo viso si scioglie nella luce del vetro. Si ferma, prova a giustificarsi con la persona di là, con tenerezza e apprensione. Poi si accorge che la osservo di sottecchi e forse fraintende il mio sguardo, crede che mi stia disturbando. È mia figlia, mi spiega, sente il rumore del treno e pensa che me ne sto andando per sempre.