Leggo da alcuni giorni tutte queste storie sulla vera identità di Elena Ferrante (di cui in verità ci frega poco o nulla) e sulla necessità o meno di conoscere la biografia dell’autore per capire meglio l’opera, e mi tornano in mente alcuni vecchi termini della critica dell’arte che studiavo all’università: Iconologia (per cui l’opera è il risultato di un insieme di segni desunti dall’ambiente sociale in cui l’autore si è formato e da cui è permeato, e quindi un po’ figlia dell’autore e un po’ di più del suo ambiente) contro Sociologia (in cui l’opera è frutto del continuo confronto dialettico fra autore e ambiente, e da come l’autore e l’ambiente, spesso in lotta per affermarsi l’uno sull’altro, si trasformano a vicenda). Per dire che questa storia dell’importanza o meno dell’autore verso l’opera è vecchia quanto il cucco.
Nel medioevo, ad esempio, la presenza dell’autore era considerata un atto di vanità colpevole dell’uomo verso Dio, atto che inficiava il valore stesso dell’opera, a Dio offerta. L’autore rimaneva spesso agente anonimo di un intero mondo, ma non per questo le cattedrali sono opere meno perfette e stupefacenti. Nel romanticismo (nei cui rigagnoli sguazziamo ancora oggi, felici e inconsapevoli) l’opera senza il vissuto dell’artista diventa quasi inconcepibile, perché nella dicotomia autore-opera, noi pubblico contempliamo l’opera (la bramiamo) ma è nella storia dell’autore che ci rispecchiamo, ci identifichiamo, e troviamo un motivo consapevole (perché semplificato) alla nostra bramosia estetica. E in effetti, quanto perderebbero I Canti di Leopardi al nostro occhio, senza il tormento autobiografico che ad essi attribuiamo?
Qualcuno si tira indietro, volontariamente, dal gioco (Rimbaud, Salinger). Qualcun altro, all’opposto, imprime se stesso nell’opera a tal punto che siamo costretti a prendere entrambi come uno solo (Hemingway, i poeti, ma pure personaggi discutibili, tossici, violenti, che dal vivo terremmo a distanza ma che nell’opera perdoniamo e nobilitiamo). Qualcuno dall’opera si tiene a distanza di sicurezza (Emily Dickinson). Ma non è, mai, una regola necessaria. Ma che succede, nel pubblico, quando non può identificarsi con l’autore, mentre brama l’opera? Semplice: non potendosi aggrappare ad altro, inverte il rapporto e cerca spasmodicamente tracce dell’autore nell’opera, per soddisfare il proprio bisogno e al contempo compensare la sua assenza. Così alimenta il mercato. Tutto questo per dire che, nel caso Ferrante, non pare di risalire a nessuna delle casistiche sopra esposte, frutto né di umiltà né di tormento, al massimo di opportunità ben ponderata, in cui a un certo punto l’opera vale più per il mistero di chi l’ha scritta che non per la sua qualità intrinseca, e anzi, nonostante quella. Infatti i libri della Ferrante, belli o brutti che siano, anche grazie al mistero che la circonda, vendono benissimo, e non solo: danno anche spazio a chi, alimentando o smontando il suo mistero, gozzoviglia all’ombra dell’autore, di cui l’opera non è più centro ma corollario.
2 commenti:
Beh non è che sempre bramo sapere di più sulla vita dell'autore e tanto più sulla "Ferrante" che non mi è nemmeno piaciuta. Il sole 24 ore non avrebbe fatto meglio a indirizzare tempo e sforzi a capire un po' più i giri lordi di certa economia o ad anticipare i disastri di certe banche? Ma ormai il giornalismo d'inchiesta è solo sulle spalle di Report e Linea diretta, in Italia
si parla sempre di massimi sistemi, amanda. in cui in genere un lettore forte (come sei tu) non rientra :)
sulle inchieste ti do ragione, però...
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