venerdì 30 settembre 2016

parma, due madonne e l'inculato




A Parma, Alessandro Silva mi spiega che la statua qui sotto, vicina al ponte e irretita dai fili del tram che ne amplificano la drammaticità, viene "amichevolmente" chiamata l'Inculato, non ho ancora capito se per la posizione scomoda o perché come soldato è votato per sempre al martirio della guerra.


giovedì 29 settembre 2016

sacralità (a mantova)




Stamattina presto passeggiavo per Mantova e sono entrato in una chiesa. Luce radente del primo mattino umido. Un suono, una lunga nota, alta e monotona riempie lo spazio come l’eco di una campana, gli dà volume, infilandosi fra le panche e in alto fino alle volte nude, di una sacralità nuova e senza tempo. Musica ambient, mi dico ammirato. Immagino sia una sorta di installazione e penso che Mantova è davvero avanti, vera capitale della Cultura. Mi siedo in una cappella laterale, per godermela al meglio, e resto lì per mezz’ora, in estasi, prima di accorgermi che è solo l’accordatore che sta accordando l’organo a canne.



Un ulivo a Mantova.


sabato 24 settembre 2016

la torre

Mi ritrovo calato – da chi? – nella stanza in cima a una torre bianca, all’interno della quale è racchiuso tutto il blu Matisse, insieme al suo custode. Il custode, sfinito dagli anni di servizio e dalla solitudine, mi chiede di salvarlo, aiutandolo a scappare di lì. Ma l’unica via di fuga pare una lunga scalinata esterna, che corre attorcigliandosi intorno alla torre con gradini talmente stretti da essere adatti soltanto ai piedi di un bambino, cominciando da una balconata senza parapetto posizionata circa tre metri più in basso rispetto a una finestra che dà sul mattino.
L’impresa è quasi impossibile. Si deve saltar giù dalla finestra sulla balconata, sperando di non perdere l’equilibrio atterrando, e poi percorrere la scalinata tenendosi stretti al muro. Il tutto approfittando della prima luce dell’alba, ma prima che si faccia pieno giorno e che qualcuno possa vederci e avvertire le guardie della torre. Eppure il custode è talmente disperato da implorarmi, dice che preferisce la morte a restare lì un solo altro minuto, immerso in quell’azzurro senza tristezze che lo priva della metà oscura delle sue emozioni.
Decidiamo così di provarci, calandoci giù dalla finestra, prima lui e poi io. Atterriamo, come per miracolo, sulla balconata di sotto e sollevando lo sguardo verso l’orizzonte ora spalancato, ci teniamo per mano per darci coraggio, mentre sentiamo, come se fossimo nudi, il fresco del primo mattino che ci morde il cuore e le braccia. Restiamo così per un tempo che pare infinito. Poi lui, preso dalla frenesia della fuga, emette un lungo sospiro e voltandosi verso la scalinata mi lascia la mano. Comincia a scendere, tenendosi stretto alla parete come una lucertola e approfittando, oltre che degli stretti scalini, anche di alcune irregolarità delle pietre, fessure e spuntoni.
Lo guardo e non capisco. Ma non dovevo essere io a salvarlo? Eppure sembra cavarsela molto meglio di me, che ho fatto l’errore di guardare in basso, e ora la distanza dal suolo mi sembra talmente enorme, spaventosa, che comincio a tremare tutto e mi gira la testa per le vertigini.
Mi ritrovo così bloccato sulla balconata all’esterno della torre, a decine di metri suolo, incapace di tornare al sicuro nella stanza del blu, ma paralizzato all’idea di affrontare gli scalini che ormai mi sembrano talmente stretti da non riuscire più a distinguerli sul muro, mi pare una follia. Anche il custode è scomparso e non so più se mi ha distanziato oppure è caduto di sotto. Lo chiamo a gran voce, terrorizzato, ma non risponde, sono da solo ormai, costretto a quella torre.
Il sole comincia a sollevarsi dietro l’orizzonte, e il primo calore in parte allevia i brividi, in parte mi offre una speranza. Presto le guardie mi vedranno e verranno a riprendermi. Mi basterà solo arrendermi, aspettare immobile il loro arrivo, stando ben attento a mantenere l’equilibrio, e poi decideranno per me. In quel momento il sole si solleva di colpo, con un grosso boato, sopra l’orizzonte, e io mi sciolgo contro il muro.

venerdì 23 settembre 2016

fare festa


Sergio Endrigo al Premio Tenco 2001, credo nella sua ultima apparizione pubblica o comunque registrata.

giovedì 22 settembre 2016

gemito

Ho sgozzato una «capra».
Sola nello schermo era legata
a un commento insulso.
Ed io – senza compianto – l’ho marcata
non fraterna ma inferiore
per il gusto di ferirla – in cuore al suo macello –
con facilità d’aguzzino. In quello –
la sua voce avrei sentito
finalmente amica: umida fica pronta all’uso.
Non un gemito.

il venditore di rose

Sono appena stato derubato da un abile venditore di rose, che parlandomi a voce bassa e svelta, senza che capissi una sola parola di quanto mi diceva, mi ha convinto a cedergli una preziosissima medaglia di Ganesha che tenevo appesa al collo come ornamento, per regalarla al figlio che stava al suo fianco, nel silenzio orgoglioso degli ostinati ma con lo sguardo di chi non possa desiderare altro al mondo. Il figlio con la pelle olivastra che non mi ha dato niente in cambio, né un grazie e nemmeno una rosa. Quando un prete corre fuori da un albergo urlando: Gesù è scappato! Gesù è scappato! All’improvviso il venditore di rose lancia un grido anche lui, rannicchiandosi su se stesso e tenendosi il piede con forza, come se fosse ferito. Ha appena spiaccicato Gesù, che per scappare si era fatto piccolo piccolo come una formica.

mercoledì 21 settembre 2016

data da ricordare

Oggi, mercoledì 21 settembre 2016, data da ricordare, per la prima volta da che mi ricordo, mi ha chiamato (mi ha chiamato!) una ragazza da una Libreria Feltrinelli per ordinarmi un libro di poesie. Poesia in Feltrinelli? Non ci credeva nessuno, né io né la ragazza che mi ha chiamato. Non ci credeva nemmeno il gatto. Eppure... Infatti piove.

il muro

Nell'ultima parte della sua carriera Lou Reed si è avvicinato alla musica ambient. In effetti, lo aveva fatto già nei '70 con Metal Machine Music che fu un prototipo per moltissimi gruppi new wave perché portava l'ambient a una diversa concezione rispetto a quella di Eno, non musica che ti accoglie, ma musica che ti respinge, non una porta ma un muro. Fra le cose più belle dell'ultimo Reed c'è un doppio live di un gruppo nato spontaneamente e composto da Ulrich Kriegeer e Sarth Calhoun, che poi si ribattezzò Metal Machine Trio proprio in onore di quel disco. Cercando informazioni su quest'album (che non avevo mai ascoltato prima) sono finito su Allmusic, e così mi sono messo a sfogliare, partendo da questo, tutte le recensioni ai dischi di Lou, per accorgermi che per molti dei più estremi e dei miei preferiti, per quanto si apprezzasse il coraggio e lo sforzo creativo, c'era sempre un MA da affrontare, qualcosa che non andava, che non lo rendeva perfetto. È carino MA non è abbastanza orecchiabile, oppure suona benissimo MA gli manca la giusta tensione drammatica, oppure c'è tutto Lou, MA tutto Lou è francamente troppo. E ho pensato che vivere una vita piena di MA deve essere una tale rottura di palle, che persino l’idea di un muro mi ha messo allegria. 

martedì 20 settembre 2016

andare lì

Ho appena sentito (ma ancora non ci credo) un servizio al Tg sul fatto che Gianni Morandi domenica mattina è andato a fare la spesa con la famiglia, e che c'è stata gente (tanta) che per questo si è arrabbiata con lui e lo ha insultato, dicendo che è per causa sua e di gente come lui che va a fare la spesa domenica mattina, che c'è lo sfruttamento del lavoratore e Marx ha dovuto scrivere Il Capitale, che ci siamo dovuti sorbire nell'ultimo secolo e mezzo e che adesso ci viene pure riproposto (non richiesto) nelle lezioni di Diego Fusaro. Insomma Morandi alla fine, in lacrime, si è scusato perché per causa sua e dei suoi cazzi domenicali (di cui non può fregarci di meno) adesso abbiamo tutti Fusaro. E io che pensavo che la cosa più straordinaria della mia giornata fosse la mail che ho ricevuto prima da Gandalf il Grigio che mi chiedeva se ero mai stato lì, proprio lì, linkandomi il sito di un puttanone russo, vera espressione di dove è andato a finire il marxismo oggi, ho dovuto ricredermi. Scopro così che lì, lì, proprio lì dove dice Gandalf il Grigio, io ci stavo già dentro da un pezzo, o almeno da domenica scorsa, ma serviva un servizio insulso al Tg per aprirmi gli occhi. E Gandalf il Grigio, che tutto sa e mi compatisce, mi augura tante belle cose per il futuro.

il padre

Incontro una bambina chiamata Montale, a tal punto stanca del suo nome da chiedermi di cambiarlo, trasformandola in Fiore. Dice che le occorre il mio permesso di padre. Glielo accordo. Lei subito mette radici e le sue mani cominciano a crescere, allargarsi, poi deformarsi fino a diventare delle grandi foglie che mi avvolgono la testa in una sorta di nebbia profumata.

lunedì 19 settembre 2016

ciampi

Ricordo di aver letto su una biografia che Carlo Azeglio, ex presidente della repubblica, fu cugino dell'assai più anarchico e giovane Piero. E pensavo che fra le tante domande che non gli hanno mai fatto, sarebbe stato carino chiedergli se i pranzi di famiglia finivano in rissa oppure in silenzio, e, se parlavano, di che parlavano quei due, e se litigavano mai per la poesia, e se si incontrarono mai, anche solo una volta, per caso, nei pomeriggi inutili e perduti sul porto di Livorno.

maddalena

Sono in viaggio con Maddalena, prima diretti verso Roma, dove saremo comparse in un film di Pasolini, poi come perduti per l’Italia e senza una meta precisa. Poco mi importa, visto che il viaggio è pagato mi diverto. Maddalena in verità mi piace, mi piacciono i suoi sguardi dolci e divertiti quando mi saluta con finta noncuranza, né ci vuole molto a capire che ho una cotta per lei. Per passare il tempo nei nostri lunghi spostamenti in treno, mi sono inventato in gioco: mi arrampico sul tetto del treno speciale su cui viaggiamo – un treno a quattro piani approntato apposta dalla produzione per ospitare l’enorme troupe impiegata per quello che sarà, promettono, il film del millennio – e osservo dall’alto del treno in corsa e la gente dei paesi che ci passano intorno con un misto di orgoglio e di pietà. Osservo l’Italia in bianco e nero e me ne sento il cuore pulsante, anche se forse è solo per effetto del movimento treno. Giungiamo, quindi, in una città senza nome dove, per uno stupido errore di prospettiva prendo una porta per un’altra e finisco per lanciarmi fuori dal treno e poi, non riuscendo a ritrovare la strada verso il nostro binario, perdermi nella stazione. Chiedo informazioni ai passanti, qualcuno cerca di aiutarmi, di darmi indicazioni, mi accompagna e come nulla si forma così un drappello di persone, o meglio ancora processione, che prima mi viene dietro e poi mi conduce per una lunga stradina lastricata su in collina. Ascolto alle mie spalle Maddalena dare ordini crudeli, con tono da ufficiale, per la mia condanna a morte. E riconosco fra gli altri i volti di molti con cui ho viaggiato, la troupe che riprende la mia salita al patibolo fra la folla infervorata dall’idea del sangue e dalla voce acuminata di Maddalena. All’improvviso si ascolta una voce più alta che spezza la tensione. È la voce di un grosso cane pastore che si fa avanti dal bordo della strada e tuona contro di noi col piglio di un vero regista: «Lasciatelo stare, cretini! Non vedete che non è credibile, con quella faccia! Questa esecuzione è diventata una farsa! Non è così che salverete il Paese! Serve più sangue, più tragedia! Cacciatelo via! Trovatemene un altro!». Maddalena si scusa, ma come indispettita, e subito la folla, pentita per quella svista, si disperde e torna a casa, oppure al treno. Io, scacciato dalla produzione e perduto in quella città senza nome, perché ricostruita in studio ma non per questo meno italiana, mi ritrovo da solo e senza un soldo. Per la notte, cerco rifugio con altri disperati, militanti e comparse, in una scuola. Più tardi mi chiama Maddalena, anch’essa scacciata, e si scusa con me, ordini dall’alto mi dice. Non ha più un soldo e mi chiede se ho una stanza e se può rifugiarsi da me. Io le rispondo di essere al verde quanto lei e le dico, se vuole, di raggiungermi a scuola.

domenica 18 settembre 2016

follia e morte

Scrive Iosif Brodski, in Fondamenta degli Incurabili, che passando molti mesi dell’anno a Venezia, sua città del cuore subito dopo Pietroburgo, gli capitava spesso di incontrare degli italiani che si dicevano “comunisti”. Quando gli capitava, lui, che era cresciuto nel comunismo e fu condannato e processato e poi era fuggito dal comunismo di Stalin, doveva reprimere i conati di vomito se non veri e propri istinti violenti. Ancora Dmitrij Sostakovic, che in Russia visse sulla sua pelle il favore e il disamore di Stalin, al dittatore dedicò pagine feroci della sua musica, basti pensare alla sua descrizione della Quinta Sinfonia, opportunamente sottotitolata “Risposta ad una giusta critica”, dove la critica era quella di Stalin che stroncò con una tale durezza il suo Lady Macbeth, da far considerare a Sostakovic l’idea del suicidio. Dice Sostakovic: «Ritengo sia chiaro quel che accade veramente nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costruzione. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: “Il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare”. E tu ti rialzi tremante con le ossa rotte e riprendi a marciare bofonchiando: “Il nostro dovere è di giubilare, il nostro dovere è di giubilare”». Una volta si diceva, con una certa ingenuità, che i comunisti erano il male e mangiavano i bambini. In realtà il comunismo, che era sinonimo di “Potere”, come qualsiasi altro potere del mondo divorava soprattutto gli artisti, perché gli artisti avevano voce rivoluzionaria, e quella che meno sopporta il Potere è la voce degli altri. Così anche Andrej Platonov, da alcuni considerato il maggior romanziere russo del ‘900, per quanto puramente comunista, lo era a tal punto da superare in fede (e dunque sbugiardare) i propri capi, e fu ridotto al silenzio col ricatto, quando presero suo figlio e lo spedirono in Siberia. In Cevengur, il suo capolavoro, Stepan Kopenkin, un cavaliere errante in groppa al suo cavallo chiamato Forza Proletaria giunge nel villaggio di Cevengur, sospeso in una atmosfera di follia e di morte perenne, portandovi nuova morte nel nome di Rosa Luxemburg e sondando così i confini del comunismo reale, in cui speranza e morte si confondono senza più soluzione né perdono.

sabato 17 settembre 2016

il lavoro culturale

Tutti ti chiedono un pezzetto di te, del tuo tempo, pochi ti dicono grazie, quasi nessuno è disposto a pagarti, quasi mai il giusto. Dunque il fallimento è sempre dietro l'angolo. Spesso ti chiedi perché, pochissime volte trovi una risposta e ogni risposta è comunque temporanea. Il luogo comune che con la cultura si acchiappa è mediamente falso, anche se si fantastica molto e con gusto. E poiché la cultura allunga il pensiero e il pensiero più è lungo più è lento, mentre si dispiega ci sono un sacco di tempi morti, che si alternano ad altri di attività febbrile che servono a riempire i buchi e mantenersi in forma, in attesa che il pensiero prenda forma e anche se non sempre porta a qualcosa di utile. Ci si stanca facilmente, ci si annoia spesso, in compenso anche la noia ha un sapore diverso.

venerdì 16 settembre 2016

guai

Sono stato alla presentazione di questo libro, Contro le donne, di Paolo Ercolani, edito da Marsilio, una sorta di storia della misoginia. A un certo punto l’autore ha detto che se c’è una cosa che accomuna, nella storia, tutte le culture e religioni del globo, è la convinzione che la donna sia un potentissimo generatore di guai. E a me, mentre lo diceva, è venuto da pensare che forse, se tutte le culture del mondo in ogni tempo e luogo dicono questo, magari è vero.

mercoledì 14 settembre 2016

i cliché dell'editoria italiana


- Le copertine di Gipi
- Il romanzo come ossessione fallica
- Pubblicare con Einaudi
- Celebrare il proprio passato da poeti (scarsi) come fosse un Eden perduto, vagamente imbarazzati come quando viene fuori quella volta che la mamma ti ha vestito da Arlecchino
- Gli uffici stampa che mandano i pdf ai giornalisti e le copie cartacee alle blogger da milioni di follower che si fotografano piedi, tazze e libri
- Disprezzare pubblicamente il successo economico
- Condannare pubblicamente qualsivoglia pratica sessista mentre si tediano trenta donne contemporaneamente in chat
- La disperazione
- L'omosessualità solo se problematica
- Il realismo
- L'idealismo
- Il dibattito pubblico
- Le quote (rosa, altermondialiste, di qualsiasi genere)
- Prendersela con gli editori a pagamento per non parlare mai dei compensi miserabili di molti editori non a pagamento
- Tentare di chiudere una polemica sui social con il tipico "scusami, adesso ho da lavorare"
- Le lettrici groupie
- Le lettrici groupie che entrano in redazione
- Sdoganare periodicamente questo o quell'autore ritenuto troppo commerciale fino a dieci minuti prima per poi dire "Ma come, non l'hai mai letto? Io lo leggo da quando avevo quattordici anni"
- Citare Tondelli
- Citare Pasolini
- Tentare una sintesi improbabile tra Tondelli e Pasolini
- Non parlare mai del sistema distributivo e dei monopoli (se ci sei dentro, ma anche se non ci sei: si sa mai riesci a entrarci)
- In compenso, avere sempre qualcosa da dire sulla disoccupazione giovanile, sui femminicidi e su Donald Trump
- Fabio Fazio finché non ci vai
- Gli editori e le librerie indipendenti come balsamo per tutti i mali (della società intera)
- La società
- I thriller
- Lacan
- Ascesa e caduta del ceto medio
- I regionalismi
- Il romanzo come ossessione fallica (l'ho già detto?)
- Il Partito Comunista
- L'erotismo da quarantenni solitarie e disturbate, l'erotismo come turbamento da prima volta al Sex Club
- L'adolescenza
- I poveri
- Le stragi di stato
- La mafia
- La morte del romanzo (restano però le ossessioni falliche)
- Le pagine Facebook a proprio nome
- La scrittura come dolore/sacrificio/olocausto
- Le saghe familiari
- I racconti no, ma sono così belli
- Il surrealismo solo se è francese, al più sudamericano
- La regola dell'iceberg di Hemingway (come la regola dell'amico)
- Hemingway
- La delegittimazione come principale strumento di critica letteraria
- Le copertine brutte
- Gli aggettivi "imperdibile", "intenso", "letterario"
- Cercarsi un pappa, un protettore, un magnaccia
- Cercarsi qualcuno da proteggere a propria volta
- I < 3
- I temi
- I titoli lunghi
- Il numero di battute
- Le sceneggiature mancate
- Le parolacce

Dal blog Malesangue 

investimento

Anche se per certi versi li capisco, continuo a non amare le fiere e i festival letterari, né come editore né come lettore. E trovo che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nel voler trasformare il libro in un evento mondano a tutti i costi. È solo la mia opinione ma, a ripensarci, io leggo perché quando ero bambino, e non c’erano troppi festival in giro, mio padre mi regalava dei libri. Punto. Per me quindi – ma credo di non essere il solo – la lettura è una festa perché è l’espressione di un gesto d’amore, non perché riempie i buchi del fine settimana con l’evento intelligente e cool della stagione. E se potessi, a tanti miei coetanei darei il consiglio di andare meno ai festival e regalare più libri a figli e nipoti, quello sì mi sembra un uso intelligente del denaro e un investimento concreto sul futuro.

martedì 13 settembre 2016

fiaba e sogno

Viene a trovarmi una ragazza, pelle scura e tesa, carne morbida, bassa di statura, facile al bacio. Brandisce una mazza, pronta a far la guerra alle piogge stagionali che le hanno prosciugato il guardaroba. Ha i vestiti fradici, così le chiedo di togliersi i vestiti e venire a letto, a dormire e riscaldarsi con me. Obbedisce, nel letto mi stringe forte, commossa, mi riscalda, e mi chiede perché sto piangendo. Io le rispondo che nemmeno mi ero accorto di farlo, mi stupisco quanto lei. Lei prova ad asciugarmi le lacrime con baci leggeri, poi mi dice scherzando, con una luce vivida negli occhi: non piangere, oppure dovrò uccidere anche te. 

I tuoi baci venuti | ad asciugarlo | nuove piogge d’autunno.

lunedì 12 settembre 2016

un addio a siena

Nel sogno passeggio per Siena – la Siena che ho visitato per la prima e ultima volta a fine inverno di pochi anni fa – e medito di scrivere un romanzo e mettermi in competizione con Thomas Mann. Lui ha scritto La morte a Venezia. Io mi accontenterei, più blandamente, di Un addio a Siena, per togliermela dalla testa. Scrivo persino, nel sogno, un haiku che mi pare perfetto e poi mi accorgo, al mio risveglio, che perfetto non è. 

Socchiuso e umido | Siena sommersa | primo bacio d’addio.

domenica 11 settembre 2016

la wunderkammer di lucio piccolo

Oggi, leggendo per caso delle poesie di Lucio Piccolo, vi ho trovato moltissime affinità, pur nelle diversità anagrafiche e biografiche, con un autore da noi pubblicato, Carlo Tosetti
Al minuto 13.00 circa di questo bel documentario – come non se ne fanno più – si può vedere la casa di Piccolo, una vera e propria Wunderkammer e ascoltare attraverso un’intervista il senso (e il pregiudizio) di molta sua poesia. Pregiudizio che talvolta, immeritatamente, attraversa anche i versi di Tosetti.
Intervistatore: «Si sente anacronistico?» 
Lucio Piccolo: «Mi sento anacronistico io?» 
«Sì.» 
«Sì e no. Quando mi trovo nell’immediato diretto contatto con le forme più crude della modernità sì, mi sento anacronistico. Ma poi no, poi del resto mi abituo facilmente e mi sento contemporaneo. Poi sa, la realtà della poesia è una realtà interna, attraverso la quale noi andiamo in tutte le epoche.»
«Difatti pensavo, la sua poesia è spesso una fuga nel tempo. In senso fisico ha mai desiderato di fuggire, lasciare questa casa, la Sicilia?» 
«No, no. Soprattutto vorrei insistere su questo. Non provo affatto qui il senso della solitudine, perché la stessa casa, che sembrerebbe, sopra una collina, solitaria, è invece un luogo di paesaggi, di ingressi di paesaggi.» 


LA SETA

Fatica nostrana nei giorni involati
la seta: le veglie all’interno
tepore, le foglie del gelso brucate
dalle torpenti farfalle ai cannicci.
Sospesa alla trave la falce
d’incanto, il crescente
e l’aria grave di fiati rurali,
d’attesa – poi girano i fusi, le spole, la grana…
ma se la prendi con mano
che un poco trema
e la spieghi e la stendi
è una fontana nel vento e nel sole.

(Lucio Piccolo)

sabato 10 settembre 2016

labranca chi?

Oggi pomeriggio, leggendo un altro articolo a tema, mi è venuto da pensare che tutti, adesso che è morto, tutti, parlano di Tommaso Labranca come un grande maestro e un grande scrittore ingiustamente messo da lato dal sistema editoriale e dal mercato che paraculava con stile unico (cosa probabilmente vera anche se, non avendolo mai letto, la prendo sulla fiducia), ma in dieci anni che sono sui social non ho mai visto un solo cane, né fra gli illetterati né fra i letterati contro, e nemmeno fra quelli dell'intellighezia salottiera, che lo abbia citato una sola volta, almeno da farmi chiedere: ma Labranca chi? E mi chiedo perché.

gente di piazza e di vita


ma perché?

Ma perché in America se sei uno scrittore schivo, che rifiuta le occasioni mondane e ti chiudi in casa per dedicarti al tuo lavoro e alla tua crescita interiore, puoi diventare un mito, e in Italia se non vai almeno una volta da Fazio non sei nessuno?

se amore con il dubbio

Più cresco (o spero di crescere) come gusti, e meno capisco come possa succedere che artisti come, ad esempio, Sergio Endrigo vengano messi da parte, senza un apparente motivo. Ovviamente c'è sempre la possibilità che siano i miei gusti ad essere sbagliati.

venerdì 9 settembre 2016

la telefonata notturna

Squilla il telefono nel cuore della notte.
"Dov'è mia moglie?" (incazzato)
"Eehhh??" (rincoglionito)
"Dov'è mia moglie?" (incazzato)
"Chi è sua moglie?"
(ad libitum per circa 5 minuti)
"Scusa, ma questo non è il..." (mi dice il numero)
"No ha sbagliato"
"Scusami, ho sbagliato numero..."
"Di nulla, ora se posso tornerei a dormire..."
"Mi scusi ancora. Buonanotte!"
"Buona fortuna a lei!"

la voce

Incontro due artisti di strada, due ballerini, lui più selvaggio e fissato con la break dance, lei più esotica ma con un nome assai particolare, Santa Caterina. Non parlano e perciò fanno un duo muto assai celebre in provincia, in cui mischiano linguaggio dei mimi e movenze audaci di grande sensualità. Passo con loro delle ore appassionate e piene di meraviglia, seguendoli fiducioso mentre si muovono senza musica, ma come se ci fosse musica, fra i vicoli del borgo. E sento quasi nascere fra me e lei, nelle pause della danza in cui lui sembra allontanarsi perduto nella propria ombrosità, una forma di complicità, mentre le chiedo se posso offrirle da bere e lei scoppia a ridere – una risata muta – del mio rossore. 
Poi lei scompare, senza spiegazioni. La perdiamo dietro una curva dopo una lunga ricorsa, e la cerchiamo a lungo, ma senza riuscire a comunicarci la nostra disperazione per la vergogna di essere due maschi abbandonati dalla stessa donna. 
Va avanti così per l’intero pomeriggio, fra rabbia e lacrime mute, sospetti e abbracci consolatori. Infine, non sopportando più il peso di quella solitudine, lui mi trascina in piazza, sotto le arcate, verso la cabina di un vecchio telefono pubblico in disuso. Afferra la cornetta e me la passa, facendomi segno di avvicinarla all’orecchio. Gli obbedisco e sento, per la prima volta, la sua voce diafana, provenire non dalla cornetta, ma da molto più lontano. Mi parla da ventriloquo, senza scomporsi, senza deformare un solo muscolo del viso piatto, senza spalancare le sue labbra secche. 
E mi ripete, con una voce graffiata che non capisco più se è certezza maturata in anni di fughe, tradimenti e ritorni, oppure di speranza senza cedimenti, ma carica di sospiri ricacciati in gola: «Lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà», cercando di convincermi.

giovedì 8 settembre 2016

fred


Da alcuni anni ho una grande ammirazione per l’ignoranza. Ma non per l’ignoranza di chi dovrebbe essere preparato e che cerca a tutti i costi di nascondere queste sue oscurità. L’ignoranza autentica, direi primitiva, vera, e simile alla terra, alla melma che non contiene i semi di un qualsiasi arbusto o fiore, l’ignoranza che può creare dei gesti favolosi o anche delle illuminazioni che possiamo ricevere spesso dai matti o dall’infanzia. Fellini aveva dei lunghi legami con gente già ai margini […] Ne ho conosciuti due: Fred, un ex ballerino vincitore di una gara di resistenza e un ex pugile suonato. Aspettavano sotto casa per poi salire e svuotare il frigidaire. Regalavano un ascolto attento e misterioso. Federico lasciava cadere le sue parole dentro questi silenzi ammaccati e raccoglieva con finta indifferenza i loro problemi fino a quando decideva in qualche modo di risolverli. […] Riuscì a consegnare Fred a Mastroianni che lo tenne per lunghissimi anni fino a quando come i gatti morì lontano da casa. Io più degli altri, continuo a domandarmi quale tipo di nutrimento sia Federico che Mastroianni riuscivano ad avere da questi angeli custodi sconfitti. 

[Tonino Guerra, Piove sul diluvio]

il dubbio

Pensavo una cosa stamattina, intontito dal sonno, che a parte alcune decise eccezioni, moltissimi miei amici o sono piddini che negano di esserlo, o sono pentastellati che negano di esserlo, oppure son di destra (qualsiasi destra) ma negano di esserlo. Tutti, o quasi, vivono nel dubbio o nella negazione. E alla fine nessuno di loro sa più di preciso chi è, e cosa vuole, ma solo quello che non vuole (come nella poesia di Montale). E così nemmeno io che li guardo, certe volte, so più chi sono, perché quando dici: IO SONO, lo fai sempre in relazione agli altri, o in confronto a loro. Un IO SONO nel deserto semplicemente non è. Così, mi accorgo, spesso vince chi è più convinto, ma se ha torto o ragione poco importa. Oppure chi è più sciocco, e non si pone manco il dubbio.

martedì 6 settembre 2016

la custodia

È una donna impegnata – o forse è un uomo? – che trascina sulle spalle una custodia da contrabbasso dentro cui nasconde una piccola cassa da morto. È la sua punizione per non aver provato dolore per la morte del padre. Passa fra i tavoli della piazza e ne parla senza problemi con gli avventori, descrivendo persino i particolari più intimi del rapporto, rovinando loro il pranzo. È una traduttrice assai impegnata, aggiunge, e ultimamente sta lavorando a una nuova versione di un’opera di Sophie Marceau sul tempo di vendemmia, quando la luce pare spegnersi lenta e gelida sui vigneti intorno al paese. Si avvicina anche a me per rovinarmi il pranzo e per chiedermi di scrivere un epitaffio per il padre, liberandola dal peso. Quando glielo nego mi ruba il quaderno degli appunti e prova a spacciare per addio, recitandola a voce alta e commossa, la lista delle cose da fare in giornata. Poi sparisce, ma intanto mi è passata la fame. Più tardi ritrovano la cassa da morto alle porte del paese. La depositiamo per pietà, ma senza nessuno a rimpiangerla, nella chiesa più vicina. E scopro, abbandonata fra i tavoli come una vecchia pelle di serpente, la custodia del contrabbasso che le riporto a casa. La porta è aperta ed entro, ma non è lì. La appoggio vicino al figlio addormentato sul divano, ma senza svegliarlo. Girandomi, sul tavolo ritrovo la coppa di gelato che avevo ordinato a pranzo ma non ero riuscito a mangiare, con vicino una pagina strappata dal mio quaderno su cui è fissato un appunto che non riesco a decifrare, ma credo sia un grazie a bassa voce.

completare il quadro

Quando Parise descrive i Sillabari come un’opera di poesia, io penso sempre che sia così perché è un libro che comincia con la parola Amore e finisce con la parola Solitudine, perché nel frattempo la poesia è morta e lui non è riuscito a completare il quadro della vita.

lunedì 5 settembre 2016

il terremoto

Quando ci sono i terremoti le case cadono. Si rompono sempre allo stesso modo. Il tetto e i pavimenti sprofondano verso il basso e spesso i muri laterali si gonfiano e scoppiano sulla strada. I campanili cadono distesi come se fossero fucilati. I campanili si potrebbero ricomporre a terra quasi in modo perfetto. Ma i campanili distesi non servono a niente. Allora si ricostruiscono. Nel posto dove c’è stato un terremoto generalmente c’è da aspettarsi che ne capiti un altro. Quindi la gente sta sempre all’erta. Guardano se i lumi oscillano. I cani e gli uccelli ti avvisano sempre quando arriva il terremoto. Scappano e abbaiano. Poi arriva il boato. I terremoti capitano più spesso di notte che di giorno. L’ottanta per cento di notte e il venti di giorno. Quelli di notte fanno più morti perché la gente sta a letto e non si aspetta uno scherzo del genere. Dopo i terremoti la gente gira tra le macerie con gli occhi fuori dalla grazia di Dio. Molti portano in salvo i materassi. Poi arriva la Croce Rossa e generalmente qualche camion di militari. Nasce quasi subito una tendopoli. In Persia arrivano anche i meloni perché dissetano e riempiono lo stomaco. I bambini camminano piangendo nella polvere. I capelli dei terremotati sono dritti e fuori posto. Ci vogliono diversi mesi per ripiegarli sulla testa in modo normale. 

(Tonino Guerra, da I cento uccelli)

venerdì 2 settembre 2016

la donna di sabbia

Incontro, credo, la donna della mia vita. È una donna fatta di sabbia finissima e lucente, ed emana attraverso il suo corpo un odore che cambia a seconda dei giorni e dell’umore, che sia aria del deserto selvaggio oppure evocativa di baie notturne quando i pesci l’accarezzano ciechi per avvolgersi nella nebbia umida dei suoi fondali, e talvolta, se irritata, assume nel silenzio l’odore acidulo della lettiera del gatto. Mi sfugge, leggerissima, mentre la inseguo per le stanze di casa e sibila, ridendo, appena una brezza sottile smuove le tende, disperdendola in grani minuti che raccolgo, fra le palme delle mani, per rimetterla insieme accarezzandola. Poi, attraverso una finestra lasciata aperta la ritrovo in strada, di mattina presto, in attesa che apra il bar di fronte per offrile un cappuccino che, inumidendola, la compatti, le dia peso e la leghi meglio al suolo. Invece, irrequieta com’è, mi chiede ancora di seguirla. Prendiamo una corriera verso un paese distante, non mi dice il nome, le basta che le stia accanto. Ma sono consapevole della sua fragilità, e che basterebbe un soffio, uno starnuto per ferirla. Così vengo meno al nostro gioco e mi allontano da lei, mi tengo a distanza per salvarla da me, e obbligo persino i passeggeri della corriera a imitarmi, li costringo a preoccuparsi per lei, a chiudere tutti i finestrini e sopportare il caldo, e a restare immobili nei loro posti per non smuovere l’aria e danneggiarla. Mi odiano, ma non me ne preoccupo, mentre lei prova a raggiungermi, dispiaciuta o indispettita che sia, cambiando di posto più volte per avvicinarsi a me, che le sfuggo, e lascia una traccia umida di cappuccino sul sedile, man mano che il suo corpo si asciuga. Ed ecco che arriviamo nel paese del vento. Io la scongiuro di non farlo, la trascino dentro, ma è tardi, il nostro tempo insieme è finito e lei scende. Le corro dietro ma è già scomparsa, dilaniata in un vortice d’aria sulla piazza e più in alto, verso il campanile. La chiamo più volte, piangendo, e in quel momento mi si posa sulla lingua, come un bacio, un suo granello, l’ultimo in cui mi riconosco. Mi riavvolge il suo odore perduto, pronto a farsi perla, si diffonde in corpo come un’eco. E al mio risveglio, il giorno dopo, la sento ancora lì, posata, ed evito di parlare con chiunque per non perderla.