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venerdì 9 settembre 2016

la voce

Incontro due artisti di strada, due ballerini, lui più selvaggio e fissato con la break dance, lei più esotica ma con un nome assai particolare, Santa Caterina. Non parlano e perciò fanno un duo muto assai celebre in provincia, in cui mischiano linguaggio dei mimi e movenze audaci di grande sensualità. Passo con loro delle ore appassionate e piene di meraviglia, seguendoli fiducioso mentre si muovono senza musica, ma come se ci fosse musica, fra i vicoli del borgo. E sento quasi nascere fra me e lei, nelle pause della danza in cui lui sembra allontanarsi perduto nella propria ombrosità, una forma di complicità, mentre le chiedo se posso offrirle da bere e lei scoppia a ridere – una risata muta – del mio rossore. 
Poi lei scompare, senza spiegazioni. La perdiamo dietro una curva dopo una lunga ricorsa, e la cerchiamo a lungo, ma senza riuscire a comunicarci la nostra disperazione per la vergogna di essere due maschi abbandonati dalla stessa donna. 
Va avanti così per l’intero pomeriggio, fra rabbia e lacrime mute, sospetti e abbracci consolatori. Infine, non sopportando più il peso di quella solitudine, lui mi trascina in piazza, sotto le arcate, verso la cabina di un vecchio telefono pubblico in disuso. Afferra la cornetta e me la passa, facendomi segno di avvicinarla all’orecchio. Gli obbedisco e sento, per la prima volta, la sua voce diafana, provenire non dalla cornetta, ma da molto più lontano. Mi parla da ventriloquo, senza scomporsi, senza deformare un solo muscolo del viso piatto, senza spalancare le sue labbra secche. 
E mi ripete, con una voce graffiata che non capisco più se è certezza maturata in anni di fughe, tradimenti e ritorni, oppure di speranza senza cedimenti, ma carica di sospiri ricacciati in gola: «Lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà», cercando di convincermi.

sabato 22 dicembre 2012

storia di un canarino

Al lettore

Se leggi questi versi e se in profondo
senti che belli non sono, son veri,
ci trovi un canarino e TUTTO IL MONDO.


Nel 1951 Umberto Saba pubblica Quasi un racconto, l’ultima sua raccolta di poesie pubblicata in vita, che si appaia alla precedente Uccelli (1948), e raccoglie una selezione di versi scritti a partire dal 1948 e incentrati sul particolare rapporto di amicizia instaurato col canarino di casa.
Saba viveva in quegli anni un difficilissimo stato depressivo e tale amicizia riusciva, proprio per la sua particolare innocenza, a rincuorarlo da tanto dolore.

A un giovane comunista

Ho in casa – come vedi – un canarino.
Giallo screziato di verde. Sua madre
certo, o suo padre, nacque lucherino.

È un ibrido. E mi piace meglio in quanto
nostrano. Mi diverte la sua grazia,
mi diletta il suo canto.
Torno in sua cara compagnia, bambino.

Ma tu pensi: I poeti sono matti.
Guardi appena; lo trovi stupidino.
Ti piace più Togliatti.

È la poesia che apre la sezione Dieci poesie per un canarino, chiamato “Palla d’oro” ed è la più evidente, e ispirata, dimostrazione di un sentimento sincero e dolce, gioioso.
È stata Linuccia, la figlia di Saba, a convincerlo a pubblicare il libro, mettendo insieme una serie di poesie per certi versi private. Nel momento stesso in cui Saba si decide a pubblicare, però, la storia assume le tinte di un vero e proprio piccolo romanzo.

“Per una strana coincidenza, una coincidenza che fa pensare, il protagonista di “Quasi un racconto” – il canarino – fuggì, attraverso una griglia lasciata, e non da me, PER CASO, aperta. Fuggì, e non lo vidi più, tranne una volta che si posò, assieme ai passeri, ai quali s’era evidentemente riunito, sul davanzale della finestra, dove, nella speranza che vi rientrasse, avevo lasciata aperta e ben fornita di cibo, la gabbia. […] Un imbecille (che viceversa è un grand’uomo) scrisse, anzi telefonò, per “congratularsi” dell’accaduto. Secondo quell’euforico, il canarino s’era involato giusto quando, avendo esaurito il suo compito, la sua presenza era diventata inutile. Tutto insomma si sarebbe svolto come in una favola… Ma io non pensavo a me, e alle mie-sue poesie: pensavo a lui, alla sua probabile lenta agonia. Prova ne sia che il mio primo impulso, quando non lo vidi più, e vidi invece la griglia aperta alla sua sventura, fu quello di buttarmi dalla finestra.”

È una nota che Saba avrebbe voluto pubblicare in appendice al volume del 1951 e che poi non fu inserita, si dice, per questioni di tempi tipografici. L’imbecille, come lo definisce Saba, era in realtà Carlo Levi, suo vecchio amico, che dette il suo consenso alla pubblicazione della nota “un po’ a denti stretti”, e solo dopo l’accorato intervento di Linuccia che cercò di riappacificare gli animi fra i due. Alla fine, comunque, non se ne fece nulla.


La nota ha, per certi versi, un carattere semiserio, e d’altra parte rivela il profondo senso di angoscia vissuto in quegli anni da Saba (l’accenno a buttarsi giù dalla finestra è rivelatore in tal senso). Ma Saba era anche realmente preoccupato per il canarino, che avendo vissuto sempre in cattività non era in grado di procurarsi il cibo da solo.
La storia ha un epilogo triste quanto tragicomico, così come viene raccontato da Herbert L. Jacobson, allora direttore di Radio Trieste:

“Quando fuggì, Umberto Saba telefonò alla nostra sede per sapere se era possibile lanciare un appello via radio, per la ricerca del volatile. Poiché quel canarino rappresentava un simbolo letterario, e quasi un personaggio nazionale, ero ben disposto ad accontentarlo. Ma i miei colleghi, soprattutto i burocratici e i tecnici, mi dissuasero: per regolamento, la radio rifiutava appelli quasi quotidiani alla ricerca di piccoli animali perduti. Fatta un’eccezione per Saba, non avrebbero potuto rifiutare gli altri. Fu raggiunto un accordo: nessun appello radiofonico, però, data la mia posizione ufficiale nel Governo Alleato, avrei mobilitato alla ricerca del canarino polizia e vigili del fuoco. Lo feci, invano.”

Il canarino non verrà mai ritrovato e Saba morirà pochi anni dopo, nel 1957, lasciando una manciata di poesie piene di fatalistica rassegnazione sulla solitudine della vecchiaia e la morte imminente, pubblicate due anni dopo sotto il titolo di Epigrafe.

[…] Fanciullo,
od altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva o in letizia (e più se in pena) apprendi
da chi ha molto sofferto, molto errato,
che ancora esiste la Grazia, e che il mondo
– TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia.

(Nelle immagini opere di Juan Mirò. Per approfondire il complesso rapporto esistente fra Saba, Linuccia e Carlo Levi, si legga lo studio, a cura di Silvana Ghiazza, “Carlo Levi e Umberto Saba: storia di un’amicizia”, ed. Dedalo).

sabato 6 ottobre 2012

anguilla

Sei tu la mia piccola anguilla
che scivola sul fondo
e confonde le acque
color verde smeraldo.
Sinuosa senza spigoli sfuggi
sottotraccia mi aspetti
non diciamo mai quando.
Ho provato a irretirti
cambiandoti il nome la razza
facendo di te il mio topino
la mia rosa o carezza.
Mio Lillo hai risposto ridendo
voglio essere tua per la vita
ma in acqua!

domenica 1 luglio 2012

lettera a un editor


Egregio Editore,
anzi editor, perché credo che all’Editore questa cosa non arriverà mai, a meno che non si decida di farne dei soldi. Caro editor, allora – e sappiamo entrambi che una minuscola davanti al nome e una lettera mancante fanno bene la differenza, ci rendono più simili.
Caro editor, sono qui a proporti questa mia raccolta di racconti di cui forse, dopo tutti i manoscritti, gli strafalcioni incomprensibili, i capolavori incompresi, cinico e duro a tutto ciò che è scrittura come sarai diventato, non te ne fregherà nulla, ma l’indifferenza è reciproca perché per quanto mi riguarda, sei solo una sagoma sfocata dall’altra parte del foglio di carta, l’ombra cinese che mi divide dal mio sogno di pubblicare, sei il mio peggior nemico adesso, più di me stesso.
Caro editor, vorrei che ricordassi che dietro questa pagina di parole messe insieme c’è un uomo, proprio come te, non un povero fallito che ancora ci spera, un ridicolo frustrato senza speranza che aspetta la tua lettera per mesi, e sussulta ogni volta che il postino suona alla sua porta. Quest’uomo ha una sua dignità e una sua intelligenza. Ricordalo quando darai un’occhiata veloce alle prime cinque/sei pagine del manoscritto e lo cestinerai perché non lo troverai conforme a quelli che sono i tuoi standard, i tuoi scazzi, il tuo grado di concentrazione e i tuoi gusti letterari del momento. Sei deluso da quel che leggi? Trovi che non abbia quel ritmo necessario ad appassionare il lettore medio? Non farli diventare il mio problema. Sappiamo entrambi come funzionano certi meccanismi, siamo adulti, umani allo stesso modo e si sa che in questo tipo di affari la fortuna gioca la sua parte, spesso vale più del talento. Così non sottovalutarmi, e io non sottovaluterò te.
So già che non avrai tempo per rispondermi e forse nemmeno per rimandarmi indietro l’antipatico prestampato che la finirebbe di farmi soffrire. Fa nulla, mentre ti aspettavo sono diventato amico del postino, e ti dico che è una brava persona, una persona saggia, che pensa la vita in maniera completamente diversa da noi, meno basata sulle grandi visioni e più intenta a risparmiare energie mentre si muove di passo in passo verso la prossima porta. Vedi, per lui ogni passo ha la sua importanza, la sua economia, mentre noi ci affanniamo un po’ alla rinfusa, zigzagando fra le scartoffie, aspettando di spiccare il grande salto verso la storia. So che anche in questo mi assomigli, è inutile negarlo, chi vive di libri prima o poi ci affonda.
Così, forse, mi rifiuterai, mentre aspetti il manoscritto perfetto, cioè quello che ti scatenerà un brivido lungo la schiena e ti spingerà a volerci mettere le mani sopra, a contribuire all’opera che come un gommone ci trasporterà tutti, sani e salvi, dall’altra parte del mare.
Per giustificare questo tuo rifiuto – l’esperienza insegna – tirerai fuori alcune logiche considerazioni alle quali, però, vorrei opporre delle logiche risposte. Mi dirai, per prima cosa, che manca un filo rosso che tenga uniti i racconti, ma caro editor, io non faccio mai nulla a caso e non sempre quello che cerchi deve saltarti in faccia per segnalarti la sua presenza: talvolta serve più impegno di quel che sei disposto a metterci, ma se non vedi una cosa non significa che non ci sia. Mi dirai poi che c’è troppo autobiografismo, ma caro editor, i miei non sono racconti autobiografici, se lo sembrano è solo perché sono molto bravo a inventare. Ovviamente c’è sempre un pizzico di vissuto, in base al noto imperativo “scrivi solo di ciò che sai”, lo conosci, vero? Mi dirai infine, perché so le tue obiezioni a memoria, che nelle mie storie non succede mai nulla, non c’è “azione”, ma caro editor, io scrivo racconti, non sceneggiature per film, quelle le lascio a chi vuol far soldi e basta, quanto a me, sono ancora concentrato sul gommone, ricordi? E tu, da che parte stai?
È stato davvero piacevole, stavolta, per me, questo scambio di idee, in cui non mi sono dovuto trattenere per cercare di venderti il mio prodotto. Lo sai, è stato il postino a insegnarmelo, mi ha detto: “Che ti frega? Tanto se ti vogliono ti prendono lo stesso, almeno ti togli i sassi dalle scarpe!” Questi suoi piedi che ritornano, c’è da pensarci! Io ci penso almeno.
Tu, immagino, te ne stai lì nel tuo ufficio e non mi risponderai, forse non arriverai nemmeno in fondo a questa lettera, che senza accorgermene è diventata troppo lunga. Non hai più tempo da concedermi, lo so, devi cestinare ancora dieci manoscritti oggi, ma nel caso tu sia arrivato fin qui e ora stia per cestinare anche il mio, volevo dirti che ti auguro comunque una buona vita, dovunque tu sia e qualsiasi cosa tu stia facendo per tirare avanti la carretta.

domenica 8 maggio 2011

la casa di mario

Hanno riaperto la casa di Mario. Passando stasera sotto il suo balcone, ho visto le persiane aperte ed un bambino ed una voce, da dentro, in un bell’albanese squillante lo richiamava per la cena.
Mario se ne è andato chissà dove un bel mattino di due anni fa, e di lui non si è saputo più nulla se non per un cartello affisso sulla porta per mesi, sotto il battente antico, con su scritto “vendesi”. Di lui non restavano che i muri della casa ed ora le risate di un bambino che della sua vita nulla sa, se non per la curiosità suscitata forse da qualche scatolone dimenticato in soffitta.
Era così tanto che la vedevo chiusa quella porta che mi era quasi parso di perdere anch’io ogni ricordo, andato con la vista dello scorcio di muro che dal basso notavo attraverso le persiane, quando passavo per strada e notavo l’angolo di volta dalla finestra e il lampadario acceso oppure le scale, se la porta era aperta sulla strada, come ogni volta che rientrando dal mercato Mario portava su la spesa in più viaggi.
Certo è strano sentire tanta nostalgia per una casa in cui in fondo non sono mai entrato, ma è che a volte la vita si dipana pure in questi particolari fuggevoli, a volte irrisori, che nulla cambiano del destino di un uomo, appena un briciolo di prospettiva. Io di Mario sapevo così poco, se non per le sue storie d’infanzia o per i racconti commossi che ci faceva dei suoi genitori, vittime coraggiose del fascismo, e soprattutto della madre, che in quella casa ci è morta.
Sapere che dopo tanto dolore la vita continua e si dimentica di noi, del dolore sedimentato sui muri, con un po’ d’acqua e candeggina, un po’ mi terrorizza e un poco mi conforta, in parti uguali.

martedì 14 settembre 2010

diario d'autunno

Parlare di autunno non è corretto. C’è ancora un sole che picchia e picchia giù duro. Eppure basta un semplice rovescio per far tornare in gola la malinconia, in forma di brutti rospi saltellanti e che mai mi staranno simpatici.
Sarà Paolo, che mi ha chiamato per dirmi che è di nuovo in ospedale e ha deciso, ormai è sicuro, che come esce prende, si licenzia e torna in Jugoslavia, lì dove sono cominciati i suoi problemi, e io non so se essere più contento o triste, perché lì non ha davvero nessuno che gli starà accanto e quindi o la va o la spacca. O fa pace coi suoi demoni oppure si spara un colpo in fronte e la fa finita. E in tutto questo, non sapendo come comportarmi, io non dico nulla. Sto qui e lo guardo partire e comincio a credere che forse è meglio questo che restarsene a galleggiare in una bottiglia tutto triste e infelice com’è. Così non va bene.
Sarà che vado ubriaco io, perché qui vicino a cinquecento metri c’è una cantina che lavora a massimo regime per la vendemmia e dall’alba al tramonto non faccio che respirare aria di mosto. In fondo però tutto va bene. A guardarsi indietro, solo un anno fa stavo molto peggio di adesso. Non dovrei nemmeno lamentarmi. Qualcuno potrebbe anche arrivare a pensare che lo faccio per ottenere in cambio qualcosa, un po’ come i bambini che frignano perseguendo il loro scopo.
E infatti, il mio buon amico Martino, che ha fatto? Come ha visto che cominciavo a fare il bambino lunatico e un po’ troppo erratico, ha preso e, per infondermi energia, mi ha regalato l'intera discografia di Bruce Springsteen, che finora avevo sempre snobbato per quella menata che è un po’ troppo “americano”. E devo dire che ci sono cascato di nuovo. Nel senso che, almeno il primo Springsteen (il classico 1975-87, da Born to run a Tunnel of Love, e con una strizzata d’occhio a Lucky Town del ’92) mi piace molto, anzi moltissimo. Come ho fatto a perdermelo per tutto questo tempo non lo so. Bruce Springsteen è un grande, e anche se voi ora mi direte “sai che bella scoperta” io ve lo dico uguale per lanciare questa semplice e fondamentale verità al mondo, e cioè: non è mai troppo tardi. Ci vuole solo un pizzico di fiducia e la musica giusta per darsi la carica.
Ascolto musica ad alto volume in questo autunno malinconico, Neil Young pre-grunge di fine ’80 inizi ’90 e ovviamente il Boss. Con degli amici stiamo anche organizzando un concerto per domani sera: Steve Potts trio. Steve Potts è un sassofonista americano, nato nel 1943, molto nero e molto cazzuto, che ha studiato con Eric Dolphy e, fra i tanti, ha suonato con John Coltrane ed Herbie Hancock, beato lui.
Lavoro senza sosta al giornale. Nelle pause da lavoro sogno una rivista tutta mia che raccolga esclusivamente racconti di viaggio. Qualcosa di molto americano con una grafica elegante e rigorosa, belle foto grandi a mezza pagina e in bianco e nero e i testi a fronte in lingua originale. Ce l’ho tutta in testa e se non le ho dato ancora forma è solo perché mi manca il nome. Io credo molto nei guizzi d’illuminazione per queste cose, nei colpi improvvisi di genio. Perciò aspetto il momento ma ancora non mi è venuto niente di buono.
Altro progetto: scrivere un romanzo. So già che parlerà di un ragazzino che ha la barba bianca, ho in mente l’idea ma sto ancora cercando il modo di svilupparla al meglio. Amanda mi ha detto che già qualcuno ha usato un’idea simile alcuni anni fa per un film con protagonista un bambino coi capelli verdi. Non che questo mi preoccupi troppo. Alla fine non è il tema a fare la differenza fra le storie, ma il modo in cui lo svolgi. È una questione di stile.
Ho un solo problema adesso, ed è il rumore intorno. C’è troppo rumore dove vivo e per scrivere serve silenzio e concentrazione, lo sanno tutti. Devi poter ascoltare le tue idee. Non come qui che è un continuo correre di macchine e vociare e lo scavatore sempre acceso dal cantiere di fronte. Così, se qualcuno vuole fare un atto de mecenatismo puro e disinteressato, può prendere e invitarmi a casa sua per un mesetto circa, il tempo di buttare già la prima bozza (la più dura) e poi gli prometto che gli dedico il mio libro. A me pare uno scambio equo. Cos’altro si può volere di più dalla vita che una dedica su un libro?

giovedì 3 settembre 2009

notiziario del mattino

Mi preparo un caffè prima di uscire e accendo la tv per riconnettermi col mondo. Ascolto: Berlusconi vuole far causa all’Unità per diffamazione e se vince sarà una nuova era nei rapporti fra politica e giornalismo, un’era vecchia di ottant’anni. Migliaia di poveracci in sciopero perché buttati fuori dalla scuola, molti miei amici fra loro, sanno che non risolveranno niente marciando ma comunque si aggrappano alla debole speranza che se stiamo insieme ci sarà un perché. Intanto a Napoli un gruppo di minorati psichici, o branco di stronzi se preferite, ha ripetutamente abusato di una ragazzina e quando senti una cosa così cosa puoi dire? Che forse le ronde non sono poi una così cattiva idea, soprattutto se ben armate, e nemmeno la castrazione chimica ma se lo dico non mi riconosco e allora sto zitto e mi bevo il mio caffè e mi affaccio sul giardino e vedo il sole e non ho voglia di andare a lavorare e mi chiedo se serve a qualcosa andarci e mi dico che il mondo è troppo feroce e soprattutto va troppo veloce per me e c’è il sole e quasi quasi stacco la spina dal mondo stamattina e me ne vado in campagna a rubar fichi. Fino a domani.