Incontro due artisti di strada, due ballerini, lui più selvaggio e fissato con la break dance, lei più esotica ma con un nome assai particolare, Santa Caterina. Non parlano e perciò fanno un duo muto assai celebre in provincia, in cui mischiano linguaggio dei mimi e movenze audaci di grande sensualità. Passo con loro delle ore appassionate e piene di meraviglia, seguendoli fiducioso mentre si muovono senza musica, ma come se ci fosse musica, fra i vicoli del borgo. E sento quasi nascere fra me e lei, nelle pause della danza in cui lui sembra allontanarsi perduto nella propria ombrosità, una forma di complicità, mentre le chiedo se posso offrirle da bere e lei scoppia a ridere – una risata muta – del mio rossore.
Poi lei scompare, senza spiegazioni. La perdiamo dietro una curva dopo una lunga ricorsa, e la cerchiamo a lungo, ma senza riuscire a comunicarci la nostra disperazione per la vergogna di essere due maschi abbandonati dalla stessa donna.
Va avanti così per l’intero pomeriggio, fra rabbia e lacrime mute, sospetti e abbracci consolatori. Infine, non sopportando più il peso di quella solitudine, lui mi trascina in piazza, sotto le arcate, verso la cabina di un vecchio telefono pubblico in disuso. Afferra la cornetta e me la passa, facendomi segno di avvicinarla all’orecchio. Gli obbedisco e sento, per la prima volta, la sua voce diafana, provenire non dalla cornetta, ma da molto più lontano. Mi parla da ventriloquo, senza scomporsi, senza deformare un solo muscolo del viso piatto, senza spalancare le sue labbra secche.
E mi ripete, con una voce graffiata che non capisco più se è certezza maturata in anni di fughe, tradimenti e ritorni, oppure di speranza senza cedimenti, ma carica di sospiri ricacciati in gola: «Lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà», cercando di convincermi.
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