martedì 30 giugno 2020

capitare

Oggi pomeriggio mi chiama un ragazzo di 17 anni che scrive poesie e cerca un editore. Stava per firmare un contratto con una di quelle case editrici che per pubblicare ti chiedono l'equivalente di tre mesi di stipendio e quando lo ha detto al padre gli è arrivato uno scapaccione così violento che lo ha convinto a cercare ancora. Mi chiama e la storia dello scapaccione mi fa ridere così tanto che decido di perderci dieci minuti al telefono per spiegargli come funziona questo mondo e a chi dovrebbe rivolgersi per non essere fregato. Grazie, mi risponde, lei è stato gentilissimo! Prima di salutarmi mi chiede: Quindi le posso mandare il mio libro? Non è che me lo rifiuta perché sono poesie? In che senso, faccio io. È che prima di lei confesso che ho sentito altre due case editrici che mi hanno detto che loro non pubblicano poesie. Sì, ma io pubblico solo poesie, gli faccio. Ah, questo NON lo avevo capito!, mi risponde lui. Mi cascano le braccia. Scusa, ma se manco sai che faccio, mi dici come mi hai trovato? E lui: Mi scusi, non la volevo offendere, ho cercato un po' a caso e mi siete capitati voi.

non lo faccio più

Se c’è uno scrittore a cui mi sento affine per spirito e stile, quello è Ennio Flaiano. Sono vent’anni che scrivo e, a parte un paio di amici, ci fosse mai stato un critico che abbia notato questa somiglianza. Qui due sono le cose: o sono io che m’illudo parecchio sui miei mezzi, oppure Flaiano, anche se lo citano in molti, in verità l’hanno letto in pochi. L’altro giorno, in un’intervista, ho fatto io la prima mossa e l’ho citato apertamente fra i miei modelli. Silenzio tombale dall’altra parte. L’intervistatore non lo conosceva, e ha provato a rimediare rilanciando su Woody Allen. Stanotte, in sogno, mi ha chiamato Flaiano stesso, inferocito: «Insomma, la vuoi finire sì o no di mettermi in mezzo? Con le tu uscite mi stai rovinando la reputazione!» E io a piangere e scusarmi: «Mi dispiace Ennio, non ti volevo imbarazzare. È stato un errore, un malinteso. Non lo faccio più!».

lunedì 29 giugno 2020

il venero

Per oppormi con tutto me stesso a questo schifo di censura contro la pornografia mi sono fatto delle foto nudo e ho provato a postarle in rete. Subito i social hanno censurato anche me, dicendomi che non solo non scatenavo gli istinti, ma anzi sono la cosa più vicina alla Venere di Willendorf che abbiano mai visto, ovvero pornografico solo a parole, ma soprattutto tondo e vecchio: e di questi tempi qualsiasi cosa respiri che sembri avere più di 40 anni passa inevitabilmente dall’essere “pornografico” all’essere al massimo “sensuale”, seti va bene e sempre secondo comprovati standard televisivi. Io che non sono più né giovane né bello e nemmeno pornografico ero quindi pronto per essere musealizzato: hanno provato a mettermi in una teca accanto alla suddetta Venere di Willendorf, salvo poi censurarmi anche lì perché, villoso come sono (nel porno sarei etichettato come vintage), spaventavo i bambini.

domenica 28 giugno 2020

amazon

AMAZON forse non è il male, ma più va e peggio diventa. Mi dicono che con chi compra sono gentilissimi, ma io non ci compro mai nulla e non lo so. Posso dire che come venditore mi ha sempre dato rogne, soprattutto negli ultimi mesi. Prima almeno riuscivi a parlare con un operatore telefonico, adesso devi fare tutto attraverso delle domande preconfezionate per te. Se la tua domanda non è conforme a quelle già prestabilite allora parte il delirio. Infatti, con uno dei miei ultimi titoli dove c’è stato un problema nella registrazione che lo rende impossibile da vendere, dopo un mese e mezzo di pratiche online e nervosismi, Amazon mi ha risposto l’altro giorno che probabilmente non sono io l’editore del libro in questione, quindi non ho diritto di lamentarmi se non posso venderlo. Ancora oggi ho avuto con loro un altro problema sulla vendita di un titolo. È finita che il cliente ha rimproverato me; Amazon, che è in parte responsabile, non ha mosso un dito e prenderà comunque la sua commissione sulla vendita; e io che devo sistemare la cosa ci rimetterò per tutti. Un po’ è colpa mia che mi ostino a far tutto da solo, e d'altra parte questo è il nuovo mercato globale a cui ci dobbiamo abituare, però un po’ mi girano. Oggi a pranzo i miei genitori per tirarmi su hanno cominciato a raccontarmi di tutte le volte che hanno perso loro dei soldi quando erano artigiani: significa che se scegli di fare un mestiere sei destinato a un certo tipo di vessazioni a cui non puoi sottrarti. Io, mi ha detto alla fine mio padre, ho cominciato a respirare quando ho mollato ogni cosa e sono andato a fare l’operaio in ferrovia. È vero che i sogni sono finiti, ma almeno c’era qualcuno che mi pagava.

venerdì 26 giugno 2020

michela miti ha scritto anche poesie


feltri si dimette

Leggo come tutti sono contenti che Feltri abbia dato le dimissioni dall'Ordine dei giornalisti, organismo che già di per sé è inutile e deleterio, e nessuno che si chieda come mai a una persona di 77 anni (che sia Feltri oppure un altro) sia consentito di stare a capo di qualsiasi cosa, compresa una testata giornalistica, invece di andare ragionevolmente in pensione permettendo un ricambio generazionale. Feltri, mi pare chiaro, non ha dato le dimissioni di sua volontà: dopo gli ultimi scandali gli avranno consigliato in privato di andarsene con le buone prima di arrivare alle cattive, e lui ha scelto la via più comoda per tutti. Così Feltri si è salvato "dignitosamente" il culo e la questione morale di cosa un giornalista può dire o non dire senza richiami o conseguenze professionali (compresi gli insulti ai meridionali) non è stata ufficialmente affrontata dagli organi compententi con il rigore che avrebbero dovuto mostrare. La deontologia professionale ancora una volta è salva da patate bollenti.

il punto sui giovani (poeti)

Negli ultimi due o tre anni ho come l’impressione ci sia stato un profluvio smodato e a tratti isterico (con persone che se la legano al dito di non esserci rientrate) di libri, saggi e articoli in cui si cerca di fare il punto sui giovani poeti italiani sotto i trent’anni, cercando di analizzare cosa hanno scritto (spesso un solo libro, e non certo il libro, non L’allegria, non Una stagione all’inferno, ma un semplice buon libro) e come scrivono (con le mani con la testa e col cuore, più o meno come tutti gli altri). A tutti loro vorrei dire, dall’alto della mia umile esperienza di terrone: Rilassatevi, lo so anche io che a quell’età il senso della morte incombe e si ha un’ansia tremenda di far presto, di affermarsi prima che sia troppo tardi, ma state tranquilli che nella maggior parte dei casi si arriva in salute anche ai quaranta e, in qualche caso ancora, pure oltre.

giovedì 25 giugno 2020

paese che vai...

Il 5 aprile 2020, meno di 3 mesi fa, ho visto persone che invocavano il sangue di Michela Murgia, definita indifferentemente da uomini e donne come una capra ignorante e presuntosa, una che se la crede troppo, capace solo di proferire "minchiate" per quanto aveva detto con troppa leggerezza su Battiato; oggi, alcune di quelle persone, ma soprattutto donne, le ho viste commentare la notizia in cui la stessa Murgia asfaltava a ragione Morelli che con troppa leggerezza ha parlato dei "codici femminili" con un compiaciuto e compagno: Brava Murgia! Brava Michela! Ci mancava solo un Brava sorella! e anche qui coi codici femminili ci saremmo sprecati.

sondaggi

In questi giorni sono più i sondaggi sullo stato dell'editoria che sto facendo che non le vendite reali. Come tutto questo potrà aiutarmi a superare il momento storico non ho ancora capito. Però da un paio di giorni il mio lato rosselliano ovvero paranoico ha cominciato a sospettare che da qualche parte alcuni agenti della CIA stiano facendo dei controlli incrociati per scoprire che in realtà sono ancora più povero di quanto già dico di essere. Insomma passando, nella considerazione comune, dalla povertà romantica degli editori alla nera miseria degli sfigati.

mercoledì 24 giugno 2020

pandemia critica

Io ho una mia teoria, che i primi 4 dischi di McCartney (da McCarntey del 1970 alla prima versione in doppio vinile di Red Rose Speedway del 1973 che poi venne tagliata e ridotta a disco singolo per imposizione della casa discografica), sono i suoi più belli perché ricchi di una leggerezza e di una grazia senza pari, l'equivalente in musica delle Songs of Innocence and of Experience di William Blake, ma soprattutto quelli dove McCartney ha provato realmente a fare qualcosa di nuovo rispetto ai Beatles, nel segno del minimalismo (oggi Indie) e di un certo dadaismo creativo (col ricorso, ad esempio, al linguaggio allusivo della filastrocca) che non solo non venne compreso, ma anzi venne ferocemente osteggiato e letteralmente affondato dalla critica che non gli perdonava lo scioglimento dei Beatles e fece fronte contro di lui. Per quasi cinque o sei anni questo fronte critico, foraggiato dall’astio con l’ex amico/rivale Lennon gli buttò addosso tanta di quella merda da seppellirlo: articoli che con tono di sufficienza dicevano che la sua musica era pessima, inutile, insignificante, che lui era un musicista finito se non proprio morto, che oltre McCartney c'era il nulla, finché alla fine McCartney (secondo me) si è rotto le palle per davvero, ha smesso di provarci, o forse ha solo perso la bussola e ha finito per dare alla critica esattamente quello che gli chiedevano: dei dischi carini, a volte spudoratamente commerciali, altre volte pregevoli, ma il più delle volte complessivamente insignificanti. Ci sono delle eccezioni ovviamente (io ad esempio ho molto affetto per London Town del 1978), ma è significativo che i dischi prodotti dal Macca da Flaming Pie in poi, anno 1997 (quando sull’onda della commozione per il progetto Anthology, riprese in mano la propria creatività sopita), sono tutti infinitamente superiori a quelli prodotti nei vent'anni prima. Ironia della sorte, oggi la critica, che ovviamente non si rilegge a dovere, sostiene che è un vero peccato che McCartney non abbia più ritrovato la grazia di quei primi dischi che sono stati certamente i suoi più belli (vedi RAM), come chiunque ha orecchie per intendere facilmente intende.

martedì 23 giugno 2020

sognatore e sognatrice

Oggi Lino Angiuli, che non lo dice apertamente ma secondo me spera che io metta la testa a posto e mi accasi, mi ha detto: Antonio, tu sei un sognatore, che di per sé non è un cosa brutta, anzi, il problema è trovarti una zita a cui piacciono i sognatori. A Locorotondo di sognatrici non ce ne stanno?

lunedì 22 giugno 2020

toscanata

Ieri ho letto due articoli che ho trovato a loro modo stupidi. Il primo diceva (più o meno, vado a memoria): Contro Montanelli leggiamo piuttosto Malaparte, che fu suo avversario e scrittore coi fiocchi. Contro? Il secondo (cito sempre a memoria): perché Montanelli no e Pasolini sì? Risposta: Perché Pasolini in vita ha sofferto di più, pagando per le sue colpe. Che sono un po’ delle stronzate. Primo, perché Malaparte fu fascista tanto quanto Montanelli, al punto che partecipò alla marcia su Roma ed ebbe un ruolo attivo nell’omicidio Matteotti, nel senso che non uccise lui Matteotti ma, per mandato di Mussolini, coprì in tribunale gli assassini di Matteotti con una falsa testimonianza, quindi partecipando alla loro impunità e all’affermazione definitiva del fascismo che si poneva al di sopra della Legge dello Stato. Ci sono dei motivi per le sue azioni, ma il peccato rimane. E secondo perché, rispetto a Montanelli che violentò una bambina in Africa, Pasolini dall’agosto 1949, anno del primo processo per corruzione di minori, al giorno della sua morte, nel novembre del 1975, ogni singola notte della sua vita uscì a procacciarsi dei ragazzi (sono 26 anni circa, se calcoliamo uno a notte, per difetto sono circa 7000 incontri). Questi ragazzi erano spesso adolescenti, che adescava nelle borgate povere puntando, per sedurli, sulla sua auto fiammante e pagandone bene le prestazioni; mi pare che anche questo sia un rapporto di tipo padronale: non colonialista certo, ma economico, in cui ti compri le persone in virtù del tuo potere economico. Né mi pare si sia mai pentito, o meglio le uniche scuse che gli ho visto fare, in poesia, per il suo “equivoco amore” sono state verso sua madre, non verso i ragazzini. E va bene che molti di loro erano dei tagliagole, piccoli delinquenti o comunque ragazzi di vita, dei duri, cresciuti per la strada, ma se la pensiamo così che differenza passa, a questo punto, con usare l’espressione “ma lì le ragazze a quell’età sono già donne”? Non è lo stesso tipo di ragionamento? Quello che voglio dire è che leggo Malaparte con piacere immenso perché è scrittore immensamente più grande di Montanelli (e non solo), e questo lo sosterrò sempre indipendentemente dalle sue colpe, perché opero una scelta estetica, ma sulla bilancia dei peccati umani non è che uno sia migliore dell’altro e io questo nella mia testa lo so bene, e lo dico, né cerco giustificazioni morali attraverso la scrittura. E allo stesso modo faccio con Pasolini, di cui ho letto e visto (credo) quasi tutto, ma se dovessi metterli sulla bilancia dei peccati contro i minori non sono affatto sicuro che questa penderebbe dalla parte di Montanelli, anzi, direi l’opposto. Pasolini fu anche una vittima della nostra società, è vero, assai più di Montanelli, è vero. Ma tu, lettore, di fronte a uno dei tanti ragazzi violati da Pasolini, facendo una classica e volgarissima “toscanata” (per dirla come Malaparte), avresti mai il coraggio di dirgli: «Coraggio, poteva andarti peggio, poteva trombarti Montanelli».

domenica 21 giugno 2020

di rabbia, bastardi e omogeneizzato

Da ieri gira in rete questa notizia inesatta, di un gruppo di facinorosi, forse fascisti, che hanno deturpato una statua di Cervantes disegnandoci sopra, con del rosso, delle croci celtiche. È inesatta come notizia perché il gesto di vandalismo non è avvenuto in Europa, come si sarebbe portati a credere, ma a San Francisco, in un parco pubblico, il Golden Gate Park, in un assalto notturno che aveva sì il suo scopo in un attacco iconoclasta ai monumenti del parco, ma contro tutto e tutti e senza nessuna distinzione critica. In questo modo sono state attaccate, allo stesso modo, sia la statua di Junipero Serra, missionario spagnolo da poco proclamato santo ma accusato di genocidio degli indiani d’America (in nome di Dio), sia quella del generale Grant che pose fine alla guerra di Secessione, sancendo di fatto la fine della schiavitù dei neri, ma colpevole di essere nato e cresciuto in una famiglia che aveva avuto a sua volta degli schiavi. Con loro molti altri fra cui il buon Cervantes che probabilmente il gruppo non ha nemmeno riconosciuto, appellandolo come Bastard, avendolo magari scambiato per un qualche conquistador alla Cortez the killer, mentre le croci celtiche che lo imbrattano sembrano più il segno di una ignoranza diffusa di cosa quel segno rappresenta, che non una dichiarazione di fede politica. In questo modo si fa della storia un omogeneizzato senza capo né coda e l’assunto che capire il nostro passato ci serve a vedere il futuro finisce direttamente nello scarico del gabinetto. Infatti, se è vero che questo attacco, come altri, è probabilmente l’espressione di una rabbia sacrosanta e diffusa, determinata dai tanti problemi sociali che affliggono la società americana, il problema è che spesso tale rabbia viene canalizzata in persone che non hanno né i mezzi critici e culturali, né la voglia o il modo o l’interesse per informarsi e interpretare la complessa realtà in cui viviamo. Il problema è che in fatto di numeri loro sono la maggioranza, non più tanto silenziosa, e se c’è una cosa che la storia insegna è quanto sia facile strumentalizzare quella rabbia senza mezzi critici per chiudere una pessima democrazia e sostituirla con una più efficace dittatura. Basta avere il Bastardo giusto al posto giusto nel momento giusto e il gioco è fatto.



sabato 20 giugno 2020

il danno

Ogni anno c'è qualche ragazzo/a che mi fa leggere la sua tesi di laurea per dei consigli, e ogni volta mi viene da mettermi le mani fra i capelli. Non parlo nemmeno della grammatica spicciola, ché io vengo dal liceo artistico e sono pieno di lacune, ma proprio della maniera barbara in cui viene violentata la logica di certi discorsi, l'indifferenza a fare bene le cose, l'incapacità di mettere insieme due concetti, di comprendere certi meccanismi, anche semplici, o più semplicemente di appassionarsi a un discorso e provare a dire qualcosa magari di imperfetto ma che non sia la solita pappina riscaldata. Nulla di nulla. Da giorni di discute del destino della scuola, ma la verità, mi viene da pensare a volte, è che la scuola che è sottostimata da una parte (nel senso che si fa di tutto per non investirci risorse) è anche sopravvalutata dall'altra, nel senso che molti non dovrebbero nemmeno arrivarci all'università, ma nemmeno alle superiori, dovrebbero impedirglielo, dovrebbero farla finita coi libri e trovarsi una lavoro dignitoso, perché non c'è nulla di male a non essere laureati, il problema è essere laureati senza meritarselo e poi piangere miseria se non si trova lavoro, o peggio ancora, non trovando lavoro fare il concorso per entrare nella scuola, magari passarlo anche, visto come stanno andando le cose, e aggiungere il danno alla beffa.

venerdì 19 giugno 2020

mao


cose brutte

Negli ultimi tre giorni sono morte in Iran Reyhaneh Ameri, decapitata dal padre a 22 anni per essere rientrata tardi (precedentemente per una colpa simile lo stesso padre le aveva spezzato gambe e braccia); e Fatemeh Barihi decapitata a 19 anni dal marito di 17 anni (che era stata costretta a sposare) e ammazzata con la complicità della famiglia della ragazza perché accusata di averlo tradito. Il 27 maggio scorso invece è morta, con grande scalpore pubblico, Romina Ashrafi, decapitata dal padre a 13 anni per essere scappata di casa con un uomo di 35 anni del quale si era innamorata. In Iran, secondo l'articolo 630 del codice penale, l'adulterio giustifica il delitto: nel senso che se un marito scopre la moglie a tradirlo può ucciderla senza subire pena. Mentre, sempre secondo il codice penale islamico, se un padre o un nonno uccide un figlio è condannato al pagamento di una multa in denaro.

un bugiardo patologico

Qui viene messa in discussione l’esistenza stessa di Destà, la sposa bambina di Montanelli. In altre parole non sarebbe mai esistita: Montanelli, bugiardo patologico, si sarebbe inventato tutto, ogni particolare. Si sarebbe in altre parole divertito alle spalle dei suoi lettori. Ad anni dalla sua morte forse ci si sta scapigliando per uno stupro mai avvenuto, se non nelle sue storie (e in effetti, a parte quello che ci ha detto lui, chi ha mai fatto ricerche sulla bambina?). Quando l’ho letto mi si è spalancato un mondo. Se fosse vero Montanelli passerebbe in un sol colpo dall’essere un grande giornalista all’essere (forse) un grande scrittore, un truffatore, o meglio ancora uno sceneggiatore finissimo, nel senso che se ha fallito in tutto e per tutto come giornalista, il cui dovere assoluto è raccontare i fatti, per riuscire a far credere a così tanta gente per decenni una menzogna così grande, scatenando accese discussioni, commozioni, disgusto e rancori costruiti su niente altro che su quello che ci ha raccontato lui, ci vuole talento come scrittore, oltre ovviamente a un ego ipertrofico e a una buone dose di cinismo, in ogni caso qualcosa di più che “saper scrivere bene”! E anche qualora non fosse stato un grande scrittore (possibilissimo) sarebbe già di suo un personaggio letterario fatto e finito. Anzi, confesso che dal mio punto di vista, adesso, diventa più interessante come personaggio letterario che come uomo...

martedì 16 giugno 2020

i mostri

Le cose che sto leggendo/ascoltando in questi giorni talvolta mi fanno rizzare i peli sulle braccia. Ieri una che diceva che il nonno era stato in guerra in Africa, proprio come M., aveva ammazzato un po’ di persone, ma si era in guerra e non si poteva farne a meno, ma lui bambine mai toccate. Un altro che ammetteva candidamente (come fanno troppi) di non aver mai letto un libro, perché per leggere serve il tempo e lui non ne ha, ma si diceva convinto che M. non sapeva scrivere perché uno così gli dava il voltastomaco. Un altro ancora che i brigatisti non sono serviti veramente a nulla, manco ad ammazzare uno così. Poi ci sono quelli che hanno fatto l’università, rivestono ruoli professionali, e confondono il significato della parola “pedofilo”. Più si spalanca il vaso di Pandora di quella storia e più ne viene fuori un nido di piccoli mostri, pochissimo interessati ai problemi reali che una questione tira fuori, ma desiderosi soltanto di vomitare, qui e ora, il loro odio, fino al prossimo bersaglio (che verrà fuori domani col TG e allora ci scorderemo tutti di M. fino all’anno prossimo o al prossimo buco nei nostri discorsi). E io, che vedo come ogni volta l’ennesima occasione persa di una discussione seria, ampia, civile, dovrei farci il callo a questa cosa, e invece mi dispero e ammetto che forse l’unico modo di crescere qui, di venire a patti con le nostre contraddizioni irrisolte, e fare come negli USA, serve una rivolta violenta, per le strade e non sui social, serve il sangue, "perché solo il sangue, solo sul sangue viaggia la barca della rivoluzione, hai capito adesso?"; o forse aveva ragione Giorgio Bocca quando parlava con un ghigno di disgusto di Napoli sommersa dai rifiuti – ma il suo discorso andrebbe applicato all’intero paese, come già aveva capito Elio Petri nel 79 – che non potendola salvare era meglio bombardare e radere al suolo la città con tutti i filistei. Ma poi, per la cronaca, chi è che legge ancora Giorgio Bocca?

lunedì 15 giugno 2020

la parte marcia

Oggi durante la solita fila in posta mi sono messo a parlare con questo vecchio signore, amico di mio padre, che ha fatto il contadino per tutta la vita ed è uscito dal paese solo una volta, negli anni ’50, per fare il militare, non ha mai usato un computer e per questo non ha partecipato a una sola discussione di quelle degli ultimi giorni sui social; ma stamattina mi ha chiesto, dopo averlo visto in TV, chi fosse quel tipo tinto di rosso a Milano, perché lui Montanelli non sa nemmeno chi è, non ha mai letto un giornale, e quando ho provato a spiegarglielo mi ha frainteso e ha capito che a danneggiare la statua è stato un gruppo di neri (i gnùre), e ha aggiunto, con lo schifo nella voce: Speriamo che li rimandano tutti in Africa, i gnùre. E io lo ascoltavo e non sapevo come dire a questa persona che ha ottant’anni e la terza elementare, che si è spaccato la schiena come un mulo da quando ne aveva dieci e ora prende quattro soldi di pensione, che forse anche lui, con tutta la sua innocenza e la sua ostinazione a non capire cosa gli è successo intorno per tutta la vita, è parte stessa del problema ed è, come tantissimi altri uguali a lui, la parte marcia di questo Paese.

domenica 14 giugno 2020

anche le statue sentono dolore

Questo, credo, sarà l’ultimo post che scrivo su Montanelli e la statua, un po’ perché mi sono rotto di tutte le polemiche in merito e un po’ perché sapevo già come andava a finire e quindi è inutile continuare. Però volevo dire un’ultima cosa, e cioè che spesso per le cose che diciamo/facciamo ci sono anche altri motivi che non vengono subito in superficie, ma stanno un po’ più a fondo e magari toccano solo in parte il nocciolo delle questioni. Così, leggendo le tante opinioni in merito, mi sono chiesto anch’io perché per certi versi mi toccasse così tanto questa faccenda della statua di Montanelli. E credo succeda anche perché quella statua non mi dice nulla come simbolo istituzionale, ma piuttosto mi parla come immagine. Tu guardi quella statua e pensi “Ecco Montanelli, fascista, colonizzatore africano, che comprò e stuprò una bambina”; io la guardo e non ci vedo un uomo che stupra una bambina (forse servirebbe Cattelan per quello), ci vedo solo l’immagine di un uomo seduto – come sul cesso – che sta scrivendo sulla macchina da scrivere, che potrebbe essere anche un pc. Lo so che manco di fantasia, e che qui vale un po’ il fenomeno del quadro di Magritte, “Ceci n’est pas une pipe”: poiché io ti scrivo sotto che quello è Montanelli tu ci infili dentro tutta la vita di Montanelli, e se è un’altra cosa tu penserai che è un’altra cosa, ma io non ho tutta questa fantasia e quindi se mi metti davanti un uomo seduto che scrive, anche se sotto ci scrivi “Montanelli” oppure “Filippo” oppure “Elefante a pois in volo”, io vedo solo un uomo seduto come sul cesso che scrive. È un mio limite. Ed eccone un altro: poiché io faccio la stessa identica cosa ogni singolo giorno per dieci ore al giorno, stare seduto come sul cesso a scrivere, inevitabilmente mi identifico in quell’immagine, che diventa una metafora della mia vita. Gli altri, più furbi di me, hanno delle vite, dei lavori, una famiglia, una identità alternativa alla scrittura, scrivono nei ritagli di tempo e sperano in uno spazio di attenzione che li risollevi dalla quotidianità. Io faccio solo quello dalla mattina alla sera, sto seduto a scrivere, dedicando tutta la mia vita alla scrittura mia e degli altri, pieno di dubbi e circondato da gente che ogni singolo giorno mi chiede: “ma è possibile, è reale, riesci davvero a viverci?” perché in fondo sono tutti convinti, anche chi mi vuol bene, che sto sbagliando, che sto peccando di presunzione. Ogni volta che qualcuno mi fa quella domanda io sorrido, farfuglio una battuta per stemperare il fastidio, ma in fondo mi sento come quella statua che si prende una secchiata di vernice in faccia. Un po’ come Montanelli, in cui non mi riconosco, ma che bene o male ha dedicato tutta la sua vita al giornalismo e si era illuso che questo bastasse a cambiare il giudizio della storia su di lui; anche io mi sono illuso che a furia di fare soltanto una cosa, stare seduto come sul cesso a scrivere, ne avrei fatto un’arma utile, sarei stato in grado di cambiarmi la fedina di fallito, almeno a posteriori. Invece proprio Montanelli ci insegna che non funziona così, che quello è destino di pochi eletti, tutti gli altri verranno ricordati per ciò che hanno fatto quando non scrivevano e resteranno, chi più chi meno, soltanto degli stronzi. "Ma che dici, tu sei bravo, tu non hai mica stuprato una bambina" mi direte. Ma nemmeno quella statua lo ha fatto. Quello che ha stuprato la bambina ora sta in un cimitero. La statua sta seduta in un parco e scrive e si prende le secchiate per tutti, proprio come sto facendo io. E anche se lo so che forse sto dicendo un mucchio di fesserie e non capisco la gravità dei peccati di Montanelli, probabilmente mi ha fregato il mio amore per “Il principe felice” di Wilde, che è il primo libro che mi ricordo di aver letto, regalo di mio padre, e con cui ho imparato che anche le statue sentono dolore.

sabato 13 giugno 2020

muzio scevola

Stamattina ho letto il post di una casa editrice che prendeva pubblicamente le distanze dal post di un suo collaboratore su Montanelli, e ho pensato che siamo tornati ancora una volta a questo assurdo della gente che si scanna per un illustre sconosciuto in nome di quella cosa che è il revisionismo storico, che però in questo caso è ancora ben lontano. Chi era Montanelli? Chi si ricorda la sua storia? Chi ha letto i suoi libri? Io no, come credo la maggior parte di voi, ma ci sono i video su YouTube che fanno il sunto. Ovvero la maggior parte delle persone che dibattono da anni su di lui, pensa di fare un’azione di revisionismo storico andando a dire di uno che conosciamo vagamente, così come conosciamo vagamente il ‘900, che era uno stronzo, senza cambiare di una virgola né la storia né le abitudini degli italiani, visto che buona parte del turismo sessuale minorile nei paesi dell’Asia è alimentato da loro. E io continuo a pensare questo, che il revisionismo è un’altra cosa, è ammettere che questa abitudine era una consuetudine di guerra e non del solo di Montanelli, che c’erano interi squadroni di italiani incentivati a comprarsi o stuprare le bambine, e pochissimi di loro si sono pentiti; la colpa maggiore di Montanelli è di averne parlato in TV, lì dove se fosse rimasto tutto nel chiuso delle case dei nonni non sarebbe successo un bel nulla. E penso questo: vuoi dare un segno, allora fai un contro-monumento, come ha proposto Banksy per quello di Colton, e mettilo sì al posto di quello di Montanelli a Milano, un contro-monumento in cui scrivi uno per uno – così come si fa in tutte le piazze d’Italia per i caduti delle guerre – i nomi di tutti gli italiani che in guerra hanno comprato o stuprato delle bambine, magari cambi il nome alla piazza: PIAZZA DEI SOLDATI STUPRATORI ITALIANI; oppure fai un monumento con tutti i nomi delle bambine, di tutte le bambine violentate: PIAZZA DELLA BAMBINE VIOLATE IN GUERRA, e istituisci un giorno come il 25 aprile o il 2 giugno in cui commemori le vittime degli stupri dei soldati italiani, quello è revisionismo; e facci un film serio, duro, come si facevano negli anni ’70, dagli una distribuzione come si deve, uno in cui metti una serie di attori amati dal pubblico, in cui il pubblico si identifica, gente come Favino, Germano e Santamaria che invece di fare gli italiani brava gente, fanno solo i soldati italiani in guerra e comprano delle bambine, qualcosa da cui lo spettatore non può scappare e deve fare i conti con se stesso, quello è revisionismo. Un’assunzione di responsabilità collettiva di fronte alla storia, altrimenti uno può parlarmi di valore simbolico di Montanelli quanto vuole, ma a me resta sempre il sospetto che sia la solita vecchia storia del capro espiatorio che muore per tutti senza cambiare la vita di nessuno. Mio padre, che ha studiato alla vecchia scuola elementare, non sa nulla dell’Impero Romano e dei fenomeni che lo portarono alla caduta, però conosce a memoria la storia di Muzio Scevola che si bruciò la mano per un errore. Ecco, io penso che noi ora siamo più o meno a quel livello di pensiero e consapevolezza. Cosa sappiamo noi della nostra storia coloniale e di come quella storia ancora influenzi l’odierna, a cominciare dai flussi migratori nel Mediterraneo? Poco o nulla, così come poco o nulla sappiamo del nostro ‘900, o come chiosava Altan in una famosa vignetta: meno ne sapete e più siete al sicuro. Però sappiamo tutto di Montanelli e della bambina, ma come se fosse una canzone di Dalla, e pensiamo che sapere quello ci basti a risolvere i problemi di un secolo e andare avanti.

giovedì 11 giugno 2020

2+2


Ecco due articoli interessanti che andrebbero letti insieme. 
Il primo (LEGGI QUI) è un articolo in cui si analizza, con l'esempio del comune di Corvara (tre abitanti), il progetto da parte del Ministero dei Beni Culturali di rivitalizzare i borghi abbandonati del centro-sud con dei piani di investimento turistico per aprire degli alberghi diffusi inseriti in percorsi di turismo internazionale; piani che però, si vede, non funzionano perché interessano solo delle piccole parti dei borghi, quelle rilevanti a livello economico, lasciando al degrado le altre. 
Nell'altro (LEGGI QUI) si parla dell'annullamento del Consiglio di Stato del provvedimento operato dall'allora ministro Salvini per l'espulsione dal sistema SPRAR di Mimmo Lucano e del modello Riace. Perché Lucano aveva ragione, per salvare i borghi abbandonati non basta trasformarli in alberghi a cielo aperto, si deve ripopolarli, renderli vivi e non meta di una toccata e fuga, e se c'è qualcuno che ha bisogno di una casa è meglio darla a quel qualcuno che lasciarla vuota ad ammuffire. Perché se la casa è piena vive, e se vive ci sarà anche spazio per l'albergo diffuso. 
Il classico 2+2=4.

mercoledì 10 giugno 2020

il potere

Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli. Cinquant'anni fa usciva questo piccolo film (11 min) di impostazione brechtiana che, fatalmente, resta ancora attuale, dalla brutalità dei metodi della Legge alla incapacità quasi kafkiana di arrivare mai a una verità assoluta sui fatti che proprio l'amministrazione della Legge riguardano. Regia di Elio Petri affiancato da Ugo Pirro e poi montato insieme a un altro girato da Nelo Risi. Interpretato da Gian Maria Volonté con altri attori volontari. Nello stesso anno usciva Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di cui questo filmato è quasi un cartone preparatorio, e da allora il Potere, inteso come "parte di quella forza che vuole costantemente il male e opera costantemente il bene" divenne il tema centrale (e irrisolto) di tutta l'opera di Petri. 

sabato 6 giugno 2020

lista

Se dovessi mai stilare una mia lista delle cose belle per cui vivere ci infilerei senz'altro i dialoghi di Salvo Randone e Gian Maria Volonté nei film di Elio Petri; il sorriso di speranza di Woody Allen che chiude Manhattan; Otto e mezzo di Fellini; la sparatoria finale negli Spietati di Clint Eastwood; e poi Grand Tour di Gerry Mullingan; la versione del 1991 di First Song di Stan Getz e Kenny Barron; e Pannonica di Monk contenuta in Alone in San Francisco; Bob Dylan e Lou Reed; L'avvelenata di Guccini; Il polverone di Tonino Guerra; la Ferrara di Bassani; Giorgio Caproni; Moammed Sceab; Ballata scritta in una clinica; Gatto sotto la pioggia e Pioggia e la sposa; tutti i racconti di Salinger e alcune vecchie cartoline dalla Finlandia, quando sognare un amore era ancora possibile.

quarto libro

«Anche i rami perfino i muschi 
fanno ideogrammi» 
(versi finali di Arresti frequenti).

C’è il quarto libro di Mario Benedetti, che non è Questo inizio di noi (piccola appendice a Tersa morte del 2013), ma Arresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006, volume che raccoglie le traduzioni di poesie del francese Michel Deguy pubblicato nel 2007 da Luca Sossella, che mi pare fondamentale per la creazione della sua seconda, centrale opera, scritta in contemporanea a quello e pubblicata nel 2008, Pitture nere su carta. Raramente un libro di traduzioni viene citato nella bibliografia fondamentale di un poeta. Eppure, al di là della semplice bellezza del libro di Deguy, mi pare evidente che senza quello non avremmo avuto la forte sferzata astratta di Pitture nere rispetto ai paesaggi più colloquiali, per quanto in chiaroscuro, di Umana gloria (2004). In Pitture nere su carta Benedetti raggiunge – a mio avviso – i suoi massimi esiti artistici, andando al cuore della parola stessa, come del resto suggerisce già nel titolo: pittura nera, ovvero immagine, ombra, allusione, ideogramma alla maniera giapponese: lì dove due ideogrammi di diverso significato, messi l’uno accanto all’altro formano una terza parola, terza immagine, terza direzione. Mai come in questo libro la sua poesia si fa disarticolata, spezzata, allusiva, proiettata sull’evidenza del nome inteso come segno puro in cui significante e significato coincidono alla perfezione: nome spesso sviscerato in elenchi e non come elemento costruttivo di una frase, di un verso, con una potenza evocativa che personalmente ho ritrovato solo in Nico Orengo. Stando in piedi, di fronte a questa scrittura-pittura scevra di abbellimenti discorsivi, tesa al grado zero della comunicazione col lettore, a una chiusura/apertura di significati correlata a una dimensione intima, spartana e quasi monastica della vita del suo autore, espressa sottovoce – e non a caso referente della raccolta è l’isolato e sordo Goya – si comprende paradossalmente come per spingersi a tanto serva un’assoluta fiducia nella capacità e nella forza della parola di esistere da sé, oltre l’autore, di significare in se stessa nuda e luminosa. Parola come eredità, testamento. E pensavo a come arrivare a tutto questo è stato in parte possibile proprio attraverso il filtro della poesia tradotta di Deguy, che segue gli stessi dettami ma su un piano forse più mondano, meno chiuso ed esistenziale. Pensavo alla bellezza di questo esercizio necessario di umiltà e amore per la parola che è la traduzione, in cui un autore mette in discussione se stesso e i proprio limiti attraverso il confronto con l’altro, di cui si fa spalla, complice, scalino; spesso è un altro scelto per affinità elettive, simile a sé ma non uguale, leggermente spostato in modo tale da offrire delle varianti, degli scarti minimi che possano stimolarci a nuovi percorsi e allo stesso tempo tesi ad arricchire il suo. Per cui la lingua di Deguy, pur restando fondamentalmente di Deguy, non sarebbe stata quella appena più asciutta e secca, intima e meno smaccatamente seduttiva di Arresti frequenti senza lo zampino di Benedetti e di contro, per un breve perfetto intervallo, la lingua di Benedetti, pur restando tutta di Benedetti, senza lo zampino di Deguy non sarebbe stata quella più arditamente sperimentale, verticale, lucida fino a essere (quasi) emotivamente distaccata di Pitture nere su carta.

martedì 2 giugno 2020

perché si scrive?

Perché si scrive? E che bisogno c'è di leggere quello che è stato scritto? Non è già abbastanza complicato mangiare, bere, cagare, lavarsi, trovare qualcuno con cui fare l'amore, guardare la tv, parcheggiare la macchina, addormentarsi? […] 
Ma allora, perché si raccontano delle storie? E soprattutto perché, volenti o nolenti, ne andiamo sempre in cerca? Con il passare del tempo mi sono reso conto di un fatto: è il punto di vista della depressione quello che permette di rispondere, in una certa misura, a domande del genere. Ascoltando una storia, l'orecchio depresso, chiamiamolo così, non sarà certo tanto ingenuo e frettoloso da attribuirle quel significato che, come la depressione non smette mai di insegnargli, manca a tutto il resto. Al centro della percezione, allora, non ci sarà più un significato, ma il fatto che quella storia, in ogni modo, è stata trasmessa: raccontata a voce, trascritta, tradotta, riassunta, fotocopiata, eventualmente ritrovata dopo anni di dimenticanza nelle pagine di un libro… Non nel suo significato, insomma, ma nel puro fatto della trasmissione è possibile riconoscere un residuo calore umano, la vibrazione di un'intimità reale che è passata tra due persone, che si sono incontrate e sono state amiche. E così, mi capita di iniziare a pensare che noi non siamo fatti per capire ciò che ci viene raccontato, ma per spingerlo avanti nel corso del tempo, come un fiume in piena spinge avanti i tronchi degli alberi caduti, o come gli scarabei stercorari spingono avanti, senza troppe domande, le loro palline di merda. 
E io continuo a spingere la mia. 

(Emanuele Trevi, Senza verso. Un'estate a Roma, Laterza 2004)

intorno al nulla


Stamattina, rileggendo questa sua poesia, pensavo a D’Annunzio, idolatrato in vita e poi rifiutato in morte, e persino come scrittore ritenuto tronfio, vuoto e illeggibile soprattutto da chi i suoi libri non li ha mai nemmeno aperti. Io nemmeno li ho mai letti per intero e di lui conosco solo le poche poesie scolastiche, La pioggia nel pineto ad esempio, che forse è la poesia più parodiata del ‘900, segno forse che è molto meno fatua di quanto si crede se poi non riesci più a dimenticartela. Ma tutto D’Annunzio è così, insinuante e nascosto, e te ne accorgi soprattutto negli indizi lasciati fra le pagine da chi più lo ha tenuto a distanza, Malaparte e Pasolini, persino Montale. E pensavo anche al miracolo di quell’ultima poesia, Qui giacciono i miei cani, scritta nel 1935 e ritrovata fra le sue carte come un appunto, riemersa oggi, poco prima che venisse definitivamente relegato nei manuali scolastici come un residuo bellico, e invece citata apertamente, in tutto il suo puro nichilismo, da tanti nuovi autori come Magrelli (che la inserisce in un suo canone) e Trevi (che le dedica un libro). Si potrebbe mai dire di questi versi – che sono il corrispettivo novecentesco del quattrocentesco Trionfo della Morte di Palazzo Sclafani a Palermo – che sono tronfi e vuoti? All’improvviso D’Annunzio ritorna attuale e vivissimo proprio perché va fuori dal tempo e ancora di più, mi accorgo, c’è l’ironia di questo ex-poeta, a cui hanno tolto da tempo e con disprezzo lo status di vate, che viene salvato in extremis dal nulla, proprio da una sua poesia intorno al nulla che già si prefigurava.

lunedì 1 giugno 2020

ungaretti, uomo di penna

Cinquanta anni fa moriva Ungaretti, senza il quale oggi semplicemente non scriverei poesie. E L'allegria per me resta un libro spledido e di rottura (con più debiti verso la poesia orientale che francese ed europea), ma aggiungo che col senno di poi non tutto ciò che ha scritto mi piace più. Di lui restano anche alcune spiritate interviste di quando i poeti ancora andavano in TV e una comparsata in un film di Pasolini in cui parlava del suo approssimarsi alla morte. Restano l'amicizia pura con Apollinaire, di cui fu al capezzale di morte, la prefazione di Mussolini, l'odio per Quasimodo che considerava un imitatore, e di contro alcune bellissime e appassionate lettere d'amore per la giovane Bruna. Era un uomo ambizioso, vitale e pieno di contraddizioni, ma va detto che di fronte a Ungaretti non si poteva restare indifferenti, ti spingeva a prendere una posizione. Per questo lo voglio ricordare anche con una parodia di alcuni suoi celebri versi scritta da Giacomo Noventa (che, va detto, ne dedica una gemella a Montale che gli stava ugualmente sulle scatole, in quanto poeta di successo e quindi di potere, in un'epoca in cui i poeti contavano ancora qualcosa nel mondo editoriale). 

Ungaretti 
uomo di penna 
ti basta un’Accademia 
per farti coraggio.