martedì 2 giugno 2020

perché si scrive?

Perché si scrive? E che bisogno c'è di leggere quello che è stato scritto? Non è già abbastanza complicato mangiare, bere, cagare, lavarsi, trovare qualcuno con cui fare l'amore, guardare la tv, parcheggiare la macchina, addormentarsi? […] 
Ma allora, perché si raccontano delle storie? E soprattutto perché, volenti o nolenti, ne andiamo sempre in cerca? Con il passare del tempo mi sono reso conto di un fatto: è il punto di vista della depressione quello che permette di rispondere, in una certa misura, a domande del genere. Ascoltando una storia, l'orecchio depresso, chiamiamolo così, non sarà certo tanto ingenuo e frettoloso da attribuirle quel significato che, come la depressione non smette mai di insegnargli, manca a tutto il resto. Al centro della percezione, allora, non ci sarà più un significato, ma il fatto che quella storia, in ogni modo, è stata trasmessa: raccontata a voce, trascritta, tradotta, riassunta, fotocopiata, eventualmente ritrovata dopo anni di dimenticanza nelle pagine di un libro… Non nel suo significato, insomma, ma nel puro fatto della trasmissione è possibile riconoscere un residuo calore umano, la vibrazione di un'intimità reale che è passata tra due persone, che si sono incontrate e sono state amiche. E così, mi capita di iniziare a pensare che noi non siamo fatti per capire ciò che ci viene raccontato, ma per spingerlo avanti nel corso del tempo, come un fiume in piena spinge avanti i tronchi degli alberi caduti, o come gli scarabei stercorari spingono avanti, senza troppe domande, le loro palline di merda. 
E io continuo a spingere la mia. 

(Emanuele Trevi, Senza verso. Un'estate a Roma, Laterza 2004)

Nessun commento: