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mercoledì 27 novembre 2024

cercando sergio garufi

Ieri – per quella strana forza che si chiama destino – un amico che non sentivo da un po’ mi scrive per chiedermi se Sergio Garufi fosse morto. Io preso dal panico scrivo un messaggio a Garufi per chiedergli se sta bene. Garufi mi risponde che sta bene – è solo che gli hanno hackerato il profilo Fb e ora tutti gli scrivono messaggi del tipo “Manchi” oppure “Vorrei che fossi qui” che possono ingannare chi non sa, ma Sergio ha scelto di prendere la palla al balzo e invece di farsi un nuovo profilo ha rinunciato ai social. Così gli ho scritto e lui mi ha annunciato che proprio ieri sono usciti due suoi racconti su due diversi libri che ne attestano la buona salute. Uno sta su un libro sul cinema a Milano. L’altro è dedicato alla figura del filosofo Dario Generali e parla del suo rapporto di amicizia con lui, nato quando Generali divenne suo professore al liceo: uno di quei rapporti – nonostante la differenza d’età – profondi, solidi, antichi, che sembrano usciti da un romanzo di Giorgio Bassani, così inusuali oggi in puro clima di svuotamento e contestazione della figura professorale. Generali, spiega Garufi, non mi ha dato soltanto un metodo di lettura e di analisi che poi ho applicato per tutta la vita nei miei scritti, ma mi ha dato anche dei ricordi che sono legati a dei luoghi, a dei discorsi, a delle canzoni. Così Sergio, legando quel rapporto a un tempo e a una canzone che cantavano spesso nei loro giri in auto, “E ti vengo a cercare” di Battiato, fa un paragone con le modalità di amicizia attuali. Oggi, tramite i social, ci si tiene in contatto istantaneamente col telefono, si sta fermi in un punto, il nostro centro, e si scrive all’altro dal proprio centro richiamandolo a sé, come due fari che si guardano attraverso il mare. Ma una volta, prima dei social e degli smartphone, dice Sergio, se volevi arrivare a qualcuno, nell’incertezza della sua presenza, dovevi per forza andarlo a cercare, chiedere di lui, muoverti verso di lui, anche solo per andare a fischiare sotto la sua finestra, o sedersi su un muretto aspettando che passasse, e quel movimento, la sua intensità e durata, misuravano il tuo affetto, il tuo bisogno dell’altro. Allo stesso modo dello scrivere a/di una persona, che è un po’ come muoversi interiormente verso di lei, fare uno sforzo di memoria per rimettere insieme dei pezzi, dare la misura del proprio affetto attraverso la logica di un discorso in uno spazio che è quello del cuore. E questo perché, conclude Sergio, gli amici e gli scrittori, o gli amori, che più contano nelle nostre vite, non sono soltanto quelli che più frequentiamo, ma soprattutto quelli che, in un modo o nell’altro, non smettiamo mai di cercare.

rimozione

Per una serie di motivi legati alla situazione del Libano in questi mesi, negli ultimi giorni mi è capitato di parlare e voler rivedere un film di qualche anno fa, Valzer con Bashir, molto bello, che parla del massacro di Sabra e Shatila nel 1982. Il regista era all’epoca un soldato di diciott’anni arruolato nell’esercito che partecipò a quell’eccidio e poi ha letteralmente rimosso per vent’anni quanto successo fino a dover fare una serie di interviste ad altri soldati per recuperare quei ricordi e rielaborarli in un film, quindi presentare quest’opera che parla del senso di colpa di chi esegue degli ordini che non capisce, occupa un paese precipitando in un clima di follia e anche quando si rende conto del male che accade, pur non partecipando in prima persona alla strage, sceglie di non vedere, di girare la testa dall’altra parte diventando complice. Credo ci sia voluto molto coraggio e maturità per arrivare a fare un film così che scava nella propria carne. Ma il bello è stato questo, negli ultimi giorni, parlando di questo film con tre diversi amici, tutti e tre pur conoscendo il film hanno avuto un moto di stupore nell’accorgersi che il regista Ari Folman fosse ebreo (credo tuttora residente a Tel Aviv) e nessuno sulle prime ha creduto che un ebreo potesse fare un film così: tutti ricordavano l’opera in sé come atto di denuncia, ma avevano dato per scontato che a farlo fosse stato un avversario dello stato israeliano e non un interno, e così a loro volta avevano rimosso l’identità del regista nello stesso modo in cui lui aveva rimosso per anni il ricordo del suo alter ego in divisa in cui non era più riuscito a riconoscersi.

lunedì 28 ottobre 2024

sulla parete della grotta

Ultima serata del festival Disimpegno, con ospite Marco Nero presentato da Roberto Lacarbonara. Durante l'incontro, in cui si parlava dell'inutilità dell'arte, Neri col trasporto sanguigno che gli è proprio, ha usato come esempio quello della grotta di Lascaux. In quella grotta, ha detto, la gente si nutriva, dormiva, si azzuffava, si accoppiava, forse pregava qualche dio, allevava i figli, moriva. Fra gli altri c'era un tipo che guardava il soffitto con l'idea di dipingervi sopra degli animali che aveva visto di fuori. Magari quel tipo era visto dagli altri come perfettamente inutile alla tribù, magari uno scemo, eppure tutto ciò che ci resta oggi di quella gente vissuta lì secoli fa e del loro passaggio sulla terra sono i disegni di quel piccolo umano sulla parete della grotta.

giovedì 1 agosto 2024

la lunga storia di canzone

The patriot game è una canzone scritta dal folksinger irlandese Dominic Beham. Basata sulla melodia del tradizionale della fine del XVII secolo, One morning in may – che nell’originale parla di un soldato che dice addio alla sua bella mentre abbracciati ascoltano il canto di un usignolo – il testo parla della morte di Fergal O’Hanlon, militante dell’IRA in un’azione terroristica contro “la crudele Inghilterra”. Registrata nel 1958, divenne ben presto una delle sue canzoni più celebri. Con alcune censure al testo – che indignarono Beham – in particolare di una strofa che parlava del piacere di sparare ai poliziotti, divenne uno dei cavalli di battaglia nei live del gruppo americano Clancy Brothers. Fu tramite loro che Bob Dylan si avvicinò alla canzone. Nel 1963, riciclandone la melodia scrisse un nuovo testo, With God on our side, creando di fatto una nuova canzone che ne amplificava il messaggio per adattarlo alla realtà americana, criticandone la politica di aggressione adottata lungo l’intero arco della sua storia e giustificata dall’avere “Dio dalla propria parte”, ciò che poi sarebbe diventato il principio di “esportazione della democrazia”. In particolare, con un colpo di genio che Beham non capì e non gradì, ritenendolo una parodia della propria canzone, Dylan riprende alcuni suoi versi rovesciandone il significato. I versi di Beham, dedicati ad una sola persona, dicono esplicitamente: “My name is O'Hanlon, I've just gone sixteen” (“Il mio nome è O’Hanlon, ho appena compiuto sedici anni”) indentificando la voce narrante con quella del ragazzo ucciso nella lotta per la libertà dell’Irlanda. Ne fanno un eroe. Quelli di Dylan invece dicono: “Oh, my name, it ain't nothin', my age, it means less” (“Il mio nome non conta, e la mia età ancora meno”) perdendo nell’anonimato il possibile narratore, perché nella storia di soprusi che sta per raccontare non ci sono eroi, sono tutti indistintamente coinvolti come colpevoli e vittime. Poco dopo averla scritta Dylan incontrò Beham che lo accusò apertamente, assai prima di Joni Mitchell, di essere “un ladro e un plagiario” rifiutandosi di fargli causa per avergli soffiato la melodia, ma minacciando di prenderlo a pugni. Forse per via di quella lite, o forse perché la sentiva ormai troppo politicizzata per i suoi gusti, Dylan da metà anni ’60 in poi, evitò per molti anni di cantarla. La riprese, per quanto sporadicamente, a partire dai primi anni ’80, probabilmente su sollecitazione di Joan Baez che l’aveva in repertorio. Nel 1989 Behan morì, e nello stesso anno i Neville Brothers fecero una bellissima versione di With God on our side prodotta da Daniel Lanois, aggiungendo una strofa sulla guerra del Vietnam che mancava all’originale di Dylan e che egli stesso, ammirato, adottò.

sabato 6 gennaio 2024

per il compleanno di bogdan

Oggi è (o sarebbe stato) il compleanno di Bogdan. Pubblico, come ricordo, le foto che gli ho fatto esattamente un anno fa di oggi, quando andammo a trovarlo con Pino Incredix. Non sono belle foto, ma sono le ultime foto che ho di lui. E devo dire che sono grato a Pino perché se non fosse stato per lui forse non ci sarei mai andato. È stato lui a mettere in moto una serie di azioni per cui, quando siamo andati lì, e io mancavo da casa di Bogdan da parecchio, ci siamo accorti che non stava bene, così il giorno dopo ho fatto un appello per chiedere ai servizi sociali di intervenire; Paolo Giacovelli, assessore, si è preso a cuore la cosa e mi ha chiesto di contattare la famiglia per ottenere dei permessi, io ho trovato i contatti grazie a Roberto Bancora, che si era già occupato di Bogdan alcuni anni prima; e così ho scritto a suo figlio Ned e a sua moglie Mariarosaria, che anche se viveva separata da Bogdan, ha avuto la forza, la generosità, il coraggio e l’affetto di venire qui a dargli una mano e provare a salvare il salvabile. E anche se non siamo riusciti a fare granché per lui, perché la situazione è precipitata in pochissimi mesi, siamo almeno riusciti a fare in modo che Bogdan, poco prima dell’ultima crisi, avesse modo di conoscere i suoi nipoti. Lui si vergognava, per cui si era chiuso in casa con una scusa. Noi organizzammo apposta un blitz famigliare, a cui partecipai anch’io, e mi ricorderò per sempre, quando li ho accompagnati da lui, questi due bambini che mi chiedevano com’era fatto il loro nonno e io dicevo loro: “Ha la barba lunga e porta dei cappelli strani, e vive in una casa tutta di legno, è come uno gnomo!” e loro ridevano contenti. E ora posso dire che è stato un bene, perché mentre me ne andavo per lasciarli da soli, mi sono girato e ho visto Bogdan seduto sulla sua sedia viola in giardino che abbracciava teneramente questi due bambini ed è l’ultima immagine bella che ho di lui.   

martedì 2 gennaio 2024

chet un poco loco

A riprova che la vita culturale nei paesi è sempre stata la stessa, pubblico questa foto scattata da Nuccio Chialà a metà degli anni ’80, in cui Nuccio immortala Chet Baker durante un concerto a Locorotondo. Stamattina Nuccio mi ha raccontato la storia di questa foto. «Oggi ci sono almeno 40 persone pronte a giurare che erano presenti a quel concerto, ma in teatro eravamo 8 o 9. In realtà prima del concerto c’erano circa 30 persone ad aspettarlo, ma lui fece un tale ritardo che alla fine rimasero in pochissimi. Il merito di quel concerto fu dei socialisti… i comunisti erano quelli nudi e puri, i socialisti erano più pratici, così i socialisti, per dargli una mano, avevano “adottato” questo musicista tossico e gli avevano organizzato una dozzina di date in Puglia che i vari comuni poteva acquistare gratuitamente. Il sindaco di allora, Michele Gianfrate, afferrò l’occasione al volo per prenotarsi una data. Il problema fu che la locandina riportava come orario di inizio le 19.00, che dal punto di vista del sindaco era una scelta giustissima, perché in un paese di provincia com’era Locorotondo negli anni ‘80, le sette di sera in inverno erano già notte! Chet Baker, invece, si presentò sul palco alle 21.30, quando nessuno lo aspettava più. Arrivò barcollando, accompagnato da una donna sui tacchi che non si reggeva in piedi. Fece una battuta sul fatto che era la prima volta che gli capitava di suonare alle sette di sera – anche se erano già le nove e mezza – poi suonò cinque pezzi, durante i quali ho scattato un paio di foto compresa questa dove si vede il “buco” sul polso, salutò e andò via».
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domenica 26 novembre 2023

pensierino sulla rimozione di certa memoria storica

 Ho visto la registrazione di un intervento di Barbero all’università di Bologna dove parlando dei vari conflitti fra israeliani e palestinesi o fra russi e ucraini dice che spesso ci riesce così facile parlare di “pace” rispetto a loro perché fondamentalmente non ci ricordiamo che fino al secolo scorso avevamo in Europa situazioni molto simili per intensità di risentimenti fra paesi e popoli che scatenavano guerre sanguinose e narrazioni interne votate alla divisione e all’odio dello “straniero” (dove per straniero si intendeva l’austriaco, il francese, il tedesco, l’inglese, lo spagnolo, il musulmano, l’ebreo, ecc.). La seconda guerra mondiale e ciò che ne è seguito hanno innescato in noi un processo congiunto di “rimozione della memoria” o “del conflitto” che ci ha portato un lungo periodo di pace e per il quale non riusciamo più a concepire che simili “narrazioni” possano determinare delle guerre fra popoli. Se succede, anzi diciamo, è sempre perché qualcuno – il cattivo di turno – ci mette lo zampino, altrimenti tutti i popoli per loro natura vogliono vivere in pace. Non è proprio così (vedi serbi e croati). O non per tutti è così. Prova ne sia anche ancora in Russia e Ucraina si rivanghino oggi, come motivi d’odio bruciante, dei fatti che almeno ai miei occhi, ma evidentemente non ai loro, sembrano storia vecchissima. Mi fa sempre specie, ad esempio, vedere Zelensky, che ha la mia età e quindi non ha realmente vissuto quella storia, appellarsi alla sua nazione parlando di lotta al nazismo: eppure nel suo paese quel racconto non è solo retorica, ha un senso, ha un peso determinante. Esattamente come per i miei nonni o per mio padre poteva averlo parlare di Risorgimento, di Garibaldi o di Cavour, quando ormai per buona parte di noi la storia del Risorgimento non solo è acqua passata, inutile a raccontare un’unità italiana ancora aperta, al massimo viene ridiscussa per svalutarne l’importanza (come ben si sa all’epoca ci hanno messo lo zampino gli inglesi, che erano "gli americani" dell’epoca). Non parlo nemmeno delle lotte sociali di ieri i cui temi tornano oggi alla ribalta perché nel frattempo ce ne siamo dimenticati le conquiste. Ancora il discorso di Barbero implica un altro scorcio interessante, quando dice che le nazioni europee di oggi “apparentemente” sono in pace. Questo perché la rimozione della memoria ha una contropartita a cui non vogliamo pensare. Così come il Risorgimento, anche la Resistenza, che per la mia generazione ancora significa qualcosa, per quello stesso processo di “rimozione della memoria” o “del conflitto” a breve verrà inevitabilmente messa da parte, dimenticata, o accantonata, dai più giovani. Questo, mi si dirà, è un processo inevitabile del tempo; invece, ci insegnano proprio i conflitti in corso che vivono su retoriche vecchie di ottant’anni, è un problema di trasmissione culturale di determinate narrazioni. Così come le storie che si tramandavano oralmente i nostri nonni analfabeti per secoli anche noi avremmo il potere di trasmetterle, ma abbiamo abdicato quel tipo di trasmissione della memoria ad altri mezzi più veloci, rapidi, inoffensivi, che passano senza lasciare traccia. A questo punto tutta la retorica del “per non dimenticare” su cui da anni le uniche a far fortuna sono le case di produzione cinematografiche che ne traggono dei film tanto istruttivi e commoventi quanto inapplicati nel concreto (vedi il trattamento dei migranti), non avrà più senso, non uno agganciato alla nostra comprensione della realtà. Il rischio è ovviamente uno e uno soltanto: se, al riparo nel tuo angolo di confort, ti scordi cosa è stato il fascismo quando era ferocemente presente, cosa ti fa pensare che un giorno non si possa ripresentare alla tua porta per ricominciare tutto da capo?

sabato 26 agosto 2023

senilità

Primo amore (1978) di Dino Risi, con un grandissimo Ugo Tognazzi e Ornella Muti è uno dei tanti film minori ma dignitosi dell’ultimo Risi in cui descrive il confronto spietato col tempo al sopraggiungere della vecchiaia. Lo fa attraverso il più classico dei soggetti, l’ultimo amore di un vecchio artista per una giovane ragazza. La storia, tutta basata sulle atmosfere invernali, sul lento senso di disfacimento dell’uomo distrutto da una passione eccessiva, va come deve andare fino a che i due inevitabilmente si lasciano. In un successivo incontro, poco prima del finale, lei cerca di rievocare momenti intimi che per lui, che ormai soffre di gravi vuoti di memoria, non hanno più significato. “Roberta, ecco come si chiamava” dice ricordandosi il suo nome poco dopo che lei se n’è andata, ed è una di quelle battute che ti spezzano il cuore. Dopo essersi giocato l’ultima chance di felicità puntando su un amore impossibile, assoluto, quella battuta dimostra che è stato tutto inutile, il sogno, l’amore, il coraggio, tutto inutile se manca la memoria. Lei non lo sa ancora, lui questo lo sapeva, ma per un attimo ha abbassato la guardia e se l’è dimenticato, e poi ormai sconfitto dalla vita, dall'età, ha finito per dimenticarselo per sempre.

domenica 6 agosto 2023

dieci anni

Mi sono appena ricordato, forse per via di tutto questo bailamme sul reddito di cittadinanza, che sono passati dieci anni esatti da quando Luigi Preiti, disoccupato calabrese, tentò da solo, armato di pistola, un assalto a Palazzo Chigi durante l'insediamento del Governo Letta. Si sa che poche ore prima della sparatoria in cui ferì gravemente un carabiniere, Giuseppe Giangrande, rendendolo tetraplegico, per poi venire fermato e condannato a 16 anni di carcere, fece una serie di telefonate anonime in cui avvertiva delle sue intenzioni aggiungendo: «Dovete aiutare la Calabria, dovete dare soldi alla Calabria». Le telefonate rimasero inascoltate, il carabiniere ferito non ha mai perdonato Preiti, che invece è stato presto dimenticato, così come il Governo Letta e la Calabria tutta.

martedì 11 luglio 2023

la valigia dei sogni

Siamo così abituati a pensare a Luigi Comencini come “il regista del bambini” o quello degli estivi Pane, amore e fantasia e Pane, amore e gelosia o ancora di Pinocchio o di Tutti a casa, da scordarci a volte di quanto il suo percorso artistico sia stato ancora più sfaccettato di così. Comincia infatti con due notevoli noir (Persiane chiuse e La tratta delle bianche) che strizzano l’occhio ai gangster movie americani ma sono soprattutto pregni di umori francesi e tedeschi, con veri e propri omaggi al cinema di Fritz Lang, ma sorprende ancora di più in una pellicola quasi sperimentale e di nessun successo commerciale, La valigia dei sogni del 1953, che nella sua commovente dichiarazione d’amore al cinema muto italiano è quasi un antecedente diretto di Nuovo cinema paradiso. Il film comincia e finisce con un breve documentario del 1949 dello stesso regista (Il museo dei sogni) e racconta la storia di un vecchio proiezionista che, per passione, salva dal macero vecchie pellicole che per gli altri non hanno nessun valore né artistico né documentario (si parla del dopoguerra). La maggior parte della pellicola è costituita dalla proiezione degli spezzoni salvati di questi vecchi film che vengono descritti e analizzati dalla voce del proiezionista, e assicuro che sono la parte più bella dell’opera. Ma i film, girati nei primi del ‘900, sono tutti realmente esistiti e fanno di questo lavoro un vero e proprio tentativo di meta-cinema il cui apice è l’emozionante proiezione dei frammenti dell’unico film girato con Eleonora Duse, Cenere del 1916. Parlando di meta-cinema, lo stesso Comencini fu un collezionista accanito di vecchie pellicole e insieme al regista Alberto Lattuada tra i fondatori della Cineteca di Milano.

domenica 19 marzo 2023

la macchia

Guardando le immagini di Palazzo Vecchio imbrattato di arancione mi i sono appena ricordato della mia prima azione dimostrativa, attuata contro le forze di potere di casa mia, ovvero mio fratello appena nato, che mi toglieva tutte le attenzioni dei miei genitori quando avevo tre anni. Non mi andava proprio giù, così presi una scatola di pastelli a cera e imbrattai i muri di casa con quello che a conti fatti fu la mia prima opera d’arte, un pastrocchio a colori che si stendeva in basso lungo tutta la parete del salotto e per la quale mi presi due sonori schiaffoni da mio padre da cui mi derivò, in tutte le foto dell’epoca, l’espressione ferita e piena di triste rassegnazione per il destino che mi aspettava di eterno secondo, pur nella mia primogenitura, verso mio fratello. Dopo mia madre si sforzò a lungo di lavarla via, senza mai riuscire a cancellare del tutto quella macchia, che rimase lì come traccia di quel mio primo malessere esistenziale, ma sparì dalla nostra vista soltanto anni dopo, quando cambiammo casa.

mercoledì 11 gennaio 2023

la verità nascosta nel romanzo

Una volta, durante una discussione sul romanzo italiano, Carlo Bordini mi disse che per lui il più importante romanzo del ‘900 e certamente il suo preferito era “Il fu Mattia Pascal”, seguito a ruota dal “Gattopardo”. All’epoca mi fece strano questa predilezione per la cultura siciliana da parte di un romano, ma avendo letto quei libri al liceo non me ne restava che la patina e quindi presi per buona la cosa e lasciai perdere. Eppure la cosa ha continuato a razzolarmi dentro per anni fino al punto che di recente ho ripreso in mano “Il fu Mattia Pascal”, più per curiosità che per altro, e mi sono sorpreso, nel rileggerlo, di quanto Bordini se ne sia servito per modellare il suo “Memorie di un rivoluzionario timido” che pure è un libro fortemente sperimentale sul piano del linguaggio – non a caso, credo, il titolo omaggia e fonde ironicamente “Memorie di un rivoluzionario” di Victor Serge e “Memorie di un pornografo timido” di Kenneth Patchen – lì dove Pirandello, all’opposto, era per una chiarezza assoluta dello stile a favore dell’innovazione apportata dall’impianto narrativo. Insomma, pur con le evidenti differenze di scrittura, entrambi i libri si declinano in tre tempi con un primo tempo dedicato alla vita di un uomo più che inetto (peraltro una finta vittima, venata com’è di punte di masochismo nel descriversi nelle proprie mancanze), che viene ingabbiato in meschine logiche famigliari che lo incanagliscono e lo sviliscono fino al punto di attuare sottili rappresaglie; poi per una serie di cause accidentali che subisce quasi con un moto di accidia, perviene a una prima morte che lo rilancia in una seconda vita semiclandestina (a Roma!) che lo avvolge nella sua cupezza crepuscolare e irrisolta; infine sceglie di morire una seconda volta per tornare alla sua vita precedente che nel frattempo, datolo per morto, l’ha chiuso fuori da qualsiasi sviluppo, lasciandolo in uno stato di morte raddoppiata a cui si arrende con una consapevolezza e una rassegnazione quasi sospirate, che lo sollevano da qualsiasi responsabilità e lo accompagneranno nell’attesa dell’ultima e ormai quasi inutile morte fisica. I due romanzi si appaiano così in questa sorta di ultra-morte venata sempre di ironia. Con la differenza che quella di Mattia Pascal è una invenzione che si fa vera nella vita vissuta da Carlo Bordini che vi si identifica fino al punto da riscriverla nella propria autobiografia immaginaria (autofiction come si dice oggi) che mi è servita per cogliere la verità nascosta nel romanzo.

mercoledì 2 novembre 2022

la forza del passato

Viene a trovarmi in sogno Ciriaco De Mita. Mi cita frasi e versi non suoi, spacciandoli per suoi, opere di Monet che dice sono sue e che sarebbero perfette, aggiunge, come cover per i miei libri. Poi mi lancia questa massima: “Avevo ragione io, anche nell’errore avevo ragione io”. Non so cosa rispondergli, non ricordo niente di cosa ha fatto. “La forza del passato è che tanto ci si scorda tutto!”.

domenica 10 luglio 2022

ninella

Il vecchio filmino del matrimonio dei miei genitori è l’unica traccia rimasta, per pochi secondi, dello sguardo tenace e di un gesto di mia zia Ninella che già vecchia, e con l’ansia di una morte che si sarebbe presentata trent’anni dopo, con una mano si tiene passando al braccio di mio padre e con l’altra, le dita di gesso, fa i corni per allontanare il malocchio.

sabato 4 giugno 2022

memoria corta

Esce in questi giorni, per Progedit, un libro firmato da Nicola Fanizza (Araldo di Crollalanza, Un ministro all’ombra del duce) di cui un capitolo è incentrato sull’amicizia fra Gabriele D’Annunzio e Araldo Di Crollalanza, fascista barese della prima ora e poi Ministro del Lavori Pubblici sotto Mussolini, a cui il poeta venne mollato come una patata bollente perché il Ministro ne soddisfacesse ogni capriccio in merito alla costruzione del Vittoriale, comprando così il suo silenzio – certo indignato, ma comunque silenzio – sulla sempre più insoddisfacente e corrotta politica fascista che era nata con l’ideale di cambiare l’Italia con una rivoluzione – rubando molta della sua retorica proprio a D’Annunzio – e si era ritrovata, una volta al potere, a incarnare la più squallida dittatura. L’amicizia fra i due fu fredda, interessata e oltremodo formale, caratterizzata dalla vanità di entrambi che facevano a gara nel pavoneggiarsi. Mi tocca in un certo modo per il semplice fatto che io vivo in Via Araldo di Crollalanza, strada che si incrocia ironicamente con Via della Resistenza. All’incrocio delle due c’è casa mia, che di mestiere scrivo poesie. Quando D’Annunzio venne invitato in Puglia da Crollalanza fu ospite di un proprietario terriero amico del fascismo, Tommaso Cassano, che aveva partecipato all’omicidio di Giuseppe Di Vagno, sindacalista e primo parlamentare italiano ucciso dal fascismo, nel 1921, di cui campeggia in piazza nel mio paese una targa commemorativa. Quando poi, caduto il fascismo, si decise di procedere contro Cassano per quel delitto, non si riuscì a condannarlo per via dell’amnistia voluta da Togliatti. All’epoca si voleva soprattutto la pace e la ricostruzione, e si pensò che il tempo sarebbe stato galantuomo. Oggi sappiamo che il tempo ha la memoria anche troppo corta.

giovedì 27 gennaio 2022

rancore

La mia giornata della memoria la chiudo con l’invito a leggere una poesia di Giorgio Bassani chiamata GLI EX FASCISTONI DI FERRARA in cui, nel clima di distensione della sua città e di tutta Italia dopo la guerra, Bassani parlava con disgusto degli ex fascisti che facevano finta di non ricordare e gli gettavano le braccia al collo da buoni amici ora che era uno famoso. Del resto, in tutto il paese la scelta più o meno unanime era stata quella: chi, arrivati al bivio della Repubblica di Salò, aveva scelto Salò era da condannare come fascista, chi invece aveva rinnegato o scansato quel passaggio si era ripulito la fedina. Qualcuno, più cinico e smaliziato, gli sussurrava all’orecchio: “Ma sì Bassani, smettila con questo atteggiamento di arroganza e perdonaci una buona volta. Dopotutto è scrivendo quei tuoi libri pieni di balle su di noi che ti sei fatto ricco, dovresti quasi ringraziarci, senza di noi tu nemmeno esisteresti come scrittore”. E Bassani, con tutta la sua acredine, rispondeva: “Perdonarvi? Certo, ma soltanto dopo che saremo tutti morti.” Perché una vera giornata della memoria, non andrebbe mai scordato, non si nutre soltanto di pietà e di buoni sentimenti, ma anche di rancore cieco, sordo e irrimediabile. E in questo rancore la differenza la fa da che parte stai.


 

domenica 12 settembre 2021

spina

Mi ha detto suo fratello che Peppe negli ultimi tempi aveva il cuore ingrossato. Ho pensato che era proprio da lui, morire per un eccesso di cuore. Stava tutto lì Peppe, in queste due parole, “cuore” ed “eccesso”, non era uno che faceva le cose a metà, persino la sua risata era fragorosa. Poco fa, guardandolo durante la veglia, ho pensato con rimorso che un’amicizia è fatta non solo di tutte le esperienze che creano un ricordo, ma anche di tutte quelle che non hai mai fatto e sono rimaste in sospeso come piccoli debiti insoluti. Peppe, ad esempio, sognava di fare una pantagruelica mangiata di pesce, innaffiata da litri di vino bianco, e ci teneva ad avermi come ospite. Ma non l’abbiamo mai fatta quella cena, per colpa mia che di fronte agli inviti mi tiro sempre indietro. Un’altra volta mi aveva chiesto di trovargli una copia del libretto rosso, che non aveva più. Voleva rileggerselo da capo, ritrovare le parole che lo avevano infiammato da ragazzo. Gliela avevo anche trovata, solo che poi mi sono dimenticato di portargliela e anche quella è stata una promessa mancata che mi è rimasta come una spina in gola.

mercoledì 31 marzo 2021

poesia di dario bellezza


Sono, ahimè, 25 anni oggi che è morto Dario Bellezza. Dico ahimè soprattutto perché per me la scoperta di Bellezza coincide con i miei anni di formazione, e quindi con la scoperta della vita. L’ho amato e lo celebro, nel mio piccolo, con la poesia (inedita in rete, mi pare, ma perfetta per i tempi) che chiude il primo libro suo che ho comperato, Poesie 1971-1996 (Mondadori). In tal senso, la prima vera poesia che ho amato è stata quella di Ungaretti, ma il primo poeta in carne e ossa è stato Dario Bellezza: da allora, nella mia testa, l’immagine di un poeta coincide fortemente con la sua. Bellezza era bello, cecato, bohémien, gattofilo, seduttore, pornografo, classicista e scroccone, tutte cose che nella vita ho provato a essere anch’io con minore classe e fortuna. Paradossalmente, l’ho visto in TV, al Maurizio Costanzo Show – e a Costanzo, nonostante molti oggi lo disdegnino, vanno riconosciuti questo e altri incontri fondamentali per la mia generazione, come quello leggendario con Carmelo Bene. Ecco quindi la poesia che chiude il libro. Viva la vita, la tua vita, angelo.

Di nuovo ecco la ripetizione:
non so a chi potrà interessare, detto
in prosa, dopo aver fornicato con pentole
e fornelli. Sono diventato un perfetto
casalingo, chiuso in casa, sognando
Dio o il misticismo. Scorro le novità
librarie: Teresa D’Avila, San Giovanni
della Croce: ma la mia croce qual è?
I gatti ridono sornioni, dentro
una cassetta, la loro casetta:
i giochi di parole mi stuccano, le rime
mi inquietano come muse spente e annegate:
la vita passa davanti alla stufa
di ghisa, eroina delle mie giornate.
Non so abbandonarmi al flusso del tempo:
la poesia è tutta digerita. Fuori
febbraio annuncia primavera;
partirò per la Sicilia, la Poesia
resterà unica padrona di Roma.
Telefonando avrò notizie,
scongiurerò eventi, crescite e rinascite,
sempre di meno in questo mondo infetto.

(Dario Bellezza, da Proclama sul fascino, 1996)

domenica 27 dicembre 2020

déjà-vu

Ieri sera ho visto la versione europea di The Grandmaster di Wong Kar-wai, film del 2013 che, secondo me, è un clamoroso omaggio a C’era una volta in America di Sergio Leone (il quale si sa era, a sua volta, grandissimo ammiratore di Akira Kurosawa). Ho scoperto che ci sono tre versioni di questo film, per tre mercati diversi, una cinese da 130 minuti, una europea da 122 minuti, e una americana da 108 minuti, tutte e tre riconosciute come valide dal regista. Ogni versione ha un diverso montaggio, un diverso finale e contiene delle scene non presenti nelle altre, disseminate come indizi, ma solo la somma di tutte le scene permette di ricostruire determinate vicende o presenze, come quella, più sfuggente, del personaggio chiamato Il Rasoio (sul quale molti spettatori si sono, di volta in volta, interrogati). In altre parole il regista, già avvezzo a soluzioni simili ma con più discrezione, qui chiede allo spettatore lo sforzo intellettuale di rivedere per tre volte di fila lo stesso film (sei ore di visione) per cogliervi, fra le altre identiche, alcune scene che permettono di chiarire determinate storie, alcune minori, e come molte di queste storie cambiano di senso a seconda del montaggio, di come cioè te le raccontano, e del fatto che nella narrazione siano rivelati o taciuti determinati particolari. Che è in pratica lo stesso meccanismo della memoria, qui non soltanto sublimato dal meccanismo cinematografico, ma reso addirittura tangibile dall’espediente di Kar-wai che obbliga lo spettatore non solo a cercare le tre versioni, ma anche a un cosciente e reiterato déjà-vu, sull’esempio dell’ultimo film di Leone ma più ancora sul modello di Rashomon di Kurosawa, in questo immenso affresco sul tempo e sulla fine di un’epoca, paradossalmente alleggerito dai numerosi combattimenti di Kung Fu.