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domenica 17 novembre 2024

da facebook

Ogni giorno su questa povera bacheca leggo stupidaggini del tipo che Trump, almeno lui, non ha mai fatto guerre, per questo è sempre meglio degli altri. Nemmeno Andreotti ha mai fatto guerre, eppure… Eppure Trump vi piace, e allora io penso che forse il problema non è Trump, ma siete voi e i motivi per cui vi piace. Leggo quelli che dicono che appoggiano Trump perché amano la pace e odiano una certa sinistra, e non li capisco, non ha senso per me questo aut aut, la trovo una forma di malattia. Credo che per una persona sana sia normalissimo odiare una certa sinistra così come è impossibile appoggiare uno come Trump, per gli identici principi; e penso che non c’è contraddizione più grande di dire di amare la pace e aspettarsela da un uomo così, uno intimamente convinto che le donne siano esseri inferiori, che i migranti siano esseri inferiori da deportare, che chi ha denaro conta di più di chi non ne ha, che l’ambiente e il mondo siano un ostacolo da abbattere invece di una risorsa da coltivare, che l’ignoranza dei popoli e la menzogna vincono sempre sulla verità, sull’informazione e sulla cultura, per quanto scomode e sgradevoli esse possano essere. L’unica vera contraddizione per me è questa, stare sempre a dire di odiare le menzogne del potere e poi sposare la causa dell’ennesimo re nudo, invece che del bambino che lo sbugiarda senza mezzi termini.

lunedì 11 novembre 2024

lettura come lotta

Leggevo stamattina un articolo del Libraio.it in cui si diceva che sempre meno giovani nel Regno Unito leggono libri. Al momento solo il 34% dei bambini e adolescenti intervistati ama leggere nel tempo libero con una predominante di genere femminile. È lo stesso andazzo della popolazione dei giovani lettori in Italia che paradossalmente stanno un poco meglio (39%) almeno finché non arrivano alle medie, poi c’è il crollo. Con l’Italia che, però, continua ad attestarsi agli ultimi posti nella classifica dei lettori europei, insieme alla Romania e all’isola di Cipro (ultimi 3 posti sui 27 stati membri). La differenza è che nel resto d’Europa la percentuale media dei lettori è di circa il 53%, cioè una metà della popolazione legge e l’altra metà no. In Italia si scende al 35% (lettori che hanno letto almeno un libro all’anno). E il 39% (giovani lettori) del 35% (lettori totali) è effettivamente una cifra ridicola. Il dato più interessante però è un altro. Guardando alla mappa del mondo, viene fuori che i paesi dove si legge di più sono tutti in Asia (India, Thailandia, Cina, Filippine) e subito dopo in alcuni paesi dell’Africa. La media del tempo dedicato alla lettura in India, primo paese al mondo per lettori, è di quasi 11 ore a settimana per un totale di un libro letto ogni due settimane, a fronte della media italiana di un libro letto all’anno (più di un libro da noi fa già un “lettore forte”). È interessante per la percezione che si ha di quei paesi come di economie rampanti che presto controlleranno il mondo a fronte della nostra percezione di paesi in declino. In questo senso si potrebbe dire che si legge di meno anche come effetto del decadimento economico e culturale dell’Europa. Ecco così che mentre leggevo i dati continuavo a pensare a “Fahrenheit 451”, alla scena di quegli uomini che imparavano i libri a memoria per non perderli. E ho pensato all’attività della lettura come a una forma di resistenza contro il decadimento dell’Europa. Chi legge resiste, guarda al futuro, chi non legge, chi non trova più il tempo e la motivazione per farlo, è già stato a modo suo battuto, ha già fatto i conti con la storia e ha perso.

giovedì 15 agosto 2024

il “nemico”

 Si può essere, da antifascista, amico di un fascista? Me lo chiedeva un amico un po’ di tempo fa? – Se il fascista è intelligente sì, rispondevo. – E lui incalzava: Ma ci sono fascisti intelligenti? Io non credo. – Mi è tornato in mente stamattina, mentre leggevo dell’incredibile amicizia fra Piero Gobetti e Curzio Malaparte, che ha un doppio livello di lettura. Sul piano pubblico era pungente, severa e sarcastica, specie da parte di Gobetti, oppure assai prudente, specie da parte di Malaparte; su un piano privato era un’amicizia più intima, onesta ed affettuosa. Nelle loro lettere, lettere di due ventenni che guardano il mondo da punti di vista opposti, riescono a parlarsi in nome del talento che entrambi riconosco all’altro. Malaparte, acutamente, dice che quello che li separa è l’esperienza della guerra, che lui ha fatto, segnandolo nel profondo, e il poco più giovane Gobetti no, lasciando puro il suo idealismo. Gobetti predice a Malaparte che, con la sua intelligenza e col suo carattere così bizzarro, non gli ci vorrà molto prima di litigare coi fascisti, ma questo non potrà che fare bene alla sua scrittura, liberandola dalla brutta retorica del regime. Malaparte si preoccupa per lui, lo mette in guardia, implora di lasciar perdere l’editoria politica e dedicarsi esclusivamente all’arte e alla letteratura, prima che i fascisti lo facciano fuori. Gobetti invece sceglie di emigrare a Parigi per continuare da lì la sua lotta e viene ucciso nel 1926. Malaparte non commenta in alcun modo la sua morte e scriverà solo anni dopo, a guerra finita, quasi come un tributo postumo per quanto tardo, che “senza dubbio Piero Gobetti è l’uomo che, in senso antifascista, ha avuto maggiore influenza sulle giovani generazioni”, facendo di lui “il capo riconosciuto dell’intellettualismo antifascista”, più ancora di Gramsci, insomma. Nel 1925, a testimonianza della sua grandezza l’editore Gobetti pubblica due libri diversissimi fra loro. Uno di un giovane e riottoso poeta genovese alla sua prima pubblicazione, uno dei pochi intellettuali italiani che non aderì al fascismo, gli “Ossi di seppia” di Eugenio Montale; e l’altro di Curzio Malaparte, prima ancora che prendesse quel soprannome, una raccolta di saggi e articoli sul fascismo, chiamato “Italia barbara”. Gobetti lo presenta con una nota in copertina scritta di suo pugno, e degna di quella che vent’anni dopo Vittorini avrebbe riservato a Fenoglio per “La malora”. Scrive Gobetti: “Presento al mio pubblico il libro di un nemico. Coi nemici si vuole essere generosi: qui poi Curzio Suckert ci aiuta a combatterlo. Mi piace essere settario-intransigente, non settario-filisteo. Ho giurato di non rinunciare mai a capire né ad essere curioso. Curzio Suckert dunque è la più forte penna del fascismo: io non gli farò l’oltraggio di confutarlo. Completare immagini, opporre politica a variopinta fantasia e a stile pittoresco non è di mio gusto. Il mio antifascismo non combatte mulini a vento. Gli spiriti bizzarri amo lasciar sbizzarrire e anche della loro faziosa toscana letteratura, quando è letteratura, applaudirli. Sono oppositore; né melanconico, né pedante”. L’anno dopo Gobetti verrà ucciso. Nel 1928, Malaparte gli dedica un libro che Gobetti aveva letto in anteprima e che avrebbe voluto pubblicare, una raccolta di scritti satirici intitolata “Don Camaleo” dove si descrivono le malefatte di un fascista che, proprio come un camaleonte, riesce a cavarsela sempre in virtù della sua innata capacità di trasformismo. Da un verso è una presa per il culo di Mussolini, e a suo modo di Malaparte stesso, dall’altro è un sentito ‘mea culpa’ indirizzato alla coraggiosa intransigenza del “nemico” Gobetti.

giovedì 1 agosto 2024

la lunga storia di canzone

The patriot game è una canzone scritta dal folksinger irlandese Dominic Beham. Basata sulla melodia del tradizionale della fine del XVII secolo, One morning in may – che nell’originale parla di un soldato che dice addio alla sua bella mentre abbracciati ascoltano il canto di un usignolo – il testo parla della morte di Fergal O’Hanlon, militante dell’IRA in un’azione terroristica contro “la crudele Inghilterra”. Registrata nel 1958, divenne ben presto una delle sue canzoni più celebri. Con alcune censure al testo – che indignarono Beham – in particolare di una strofa che parlava del piacere di sparare ai poliziotti, divenne uno dei cavalli di battaglia nei live del gruppo americano Clancy Brothers. Fu tramite loro che Bob Dylan si avvicinò alla canzone. Nel 1963, riciclandone la melodia scrisse un nuovo testo, With God on our side, creando di fatto una nuova canzone che ne amplificava il messaggio per adattarlo alla realtà americana, criticandone la politica di aggressione adottata lungo l’intero arco della sua storia e giustificata dall’avere “Dio dalla propria parte”, ciò che poi sarebbe diventato il principio di “esportazione della democrazia”. In particolare, con un colpo di genio che Beham non capì e non gradì, ritenendolo una parodia della propria canzone, Dylan riprende alcuni suoi versi rovesciandone il significato. I versi di Beham, dedicati ad una sola persona, dicono esplicitamente: “My name is O'Hanlon, I've just gone sixteen” (“Il mio nome è O’Hanlon, ho appena compiuto sedici anni”) indentificando la voce narrante con quella del ragazzo ucciso nella lotta per la libertà dell’Irlanda. Ne fanno un eroe. Quelli di Dylan invece dicono: “Oh, my name, it ain't nothin', my age, it means less” (“Il mio nome non conta, e la mia età ancora meno”) perdendo nell’anonimato il possibile narratore, perché nella storia di soprusi che sta per raccontare non ci sono eroi, sono tutti indistintamente coinvolti come colpevoli e vittime. Poco dopo averla scritta Dylan incontrò Beham che lo accusò apertamente, assai prima di Joni Mitchell, di essere “un ladro e un plagiario” rifiutandosi di fargli causa per avergli soffiato la melodia, ma minacciando di prenderlo a pugni. Forse per via di quella lite, o forse perché la sentiva ormai troppo politicizzata per i suoi gusti, Dylan da metà anni ’60 in poi, evitò per molti anni di cantarla. La riprese, per quanto sporadicamente, a partire dai primi anni ’80, probabilmente su sollecitazione di Joan Baez che l’aveva in repertorio. Nel 1989 Behan morì, e nello stesso anno i Neville Brothers fecero una bellissima versione di With God on our side prodotta da Daniel Lanois, aggiungendo una strofa sulla guerra del Vietnam che mancava all’originale di Dylan e che egli stesso, ammirato, adottò.

chi cambierà il mondo?

KUHLE WAMPE: O A CHI APPARTIENE IL MONDO? è un altro film pochissimo conosciuto in Italia, ed è uno dei capolavori del cinema proletario tedesco. Girato nel 1932 da Slatan Dodow col fortissimo coinvolgimento di Bertolt Brecht, che firma la sceneggiatura, è un film che parla di un tema tanto attuale negli anni Trenta del secolo scorso, all’indomani della crisi del ‘29, quanto lo è ancora oggi, a un secolo di distanza: la mancanza di lavoro. Per la sua dichiarata denuncia dei meccanismi speculativi che impoverivano e sfruttavano a fini politici la popolazione affamata, il film venne censurato in patria dai nazisti, poi distrutto e restaurato attraverso alcune copie circolate all’estero. Suddiviso idealmente in cinque parti, più o meno autonome, appare particolarmente coinvolgente la prima, in cui il regista dimostra di aver assimilato l’estetica del cinema russo: un ragazzo cerca lavoro, ma nonostante passi le sue giornate girando come un forsennato per Berlino (in bicicletta, sulle musiche bellissime di Hanns Eisler) non ne trova uno: rientrato, rimproverato persino in famiglia di non impegnarsi abbastanza e incolpato del fatto che presto verranno tutti sfrattati per colpa sua, si suicida gettandosi dalla finestra, al che una vicina commenta “un disoccupato di meno”. A questa parte, quasi completamente priva di dialoghi, si contrappone l’ultima, tutta parlata e girata in metropolitana, dove un gruppo di socialisti, fra cui la sorella del ragazzo morto – interpretata da Hertha Thiele, già protagonista di Ragazze in uniforme, altro grande film di denuncia – dopo aver partecipato a una manifestazione di protesta, tornano a casa in un vagone gremito all’inverosimile. I corpi dei borghesi e dei manifestanti sono addossati l’uno all’altro e non c’è possibilità di azione, solo primi piani e dialoghi. A partire dalla lettura di un articolo di giornale che descrive una crisi del caffè in Brasile, comincia una lunga discussione, di carattere tipicamente brechtiano, sulle manovre speculative che usando questa crisi all’apparenza lontanissima come scusa porteranno ad affamare ancora di più il popolo tedesco. I pareri sono divergenti. A un certo punto un borghese, interrogato da un amico su cosa ne pensa, dice che non potranno certo essere loro due a cambiare il mondo, ma allora, ci si chiede tutti, chi sarà a cambiare il mondo? – Quelli a cui non piace, risponde una ragazza socialista sul finale.
 



giovedì 4 gennaio 2024

gli imprenditori...

Dopo mia cugina, oggi è il turno di mio fratello che come ogni volta mi consiglia di mollare quest’idea di fare l’editore per fare invece un concorsino e infilarmi in qualche ufficio come dipendente. – Tu non sei buono a fare il libero professionista. Gli imprenditori veri sono figli di puttana, è gente che ti fa un culo così su tutto. Un professionista se gli chiedi qualcosa ti dice sì, so tutto io, faccio tutto io, 2000 euro! Tu se ti chiedono qualcosa rispondi sempre forse, boh, non lo so, vediamo, e preferisci perdere soldi piuttosto che avere problemi. E poi un imprenditore è un intrallazzino, dove stanno i soldi lì sta un imprenditore, tu invece sei l’opposto, te ne stai sempre per i cazzi tuoi e se arrivano i soldi te ne vai proprio. E poi hai un carattere di merda, sei un finto buono, per questo in paese non ti sopportano. Perché i buoni sono fessi, ma tu invece ci vedi benissimo, solo che per non avere problemi ti nascondi dietro quell’aria da artistoide sognatore e fai finta di non vedere le cose per non litigare. Solo che gli altri lo capiscono che fai finta e litigano lo stesso. – E oggi mio fratello era di buon umore.

lunedì 23 ottobre 2023

due poesie di cassiano ricardo

Cassiano Ricardo è uno splendido poeta brasiliano della prima metà del '900, mai tradotto in Italia, un cui testo però è stato tradotto e musicato da Enzo Jannacci in una canzone assai bella è sempre molto struggente, Giovanni telegrafista (quello dal cuore urgente)... La traduzione di entrambe è mia. La prima poesia viene dalla raccolta Un giorno dopo l’altro (1947), la seconda da Montagna russa (1960).

ELEGIA PER MIA MADRE

Ora, ciò che mi resta
è questa triste grazia
di aver aspettato che tu
ti addormentassi per prima.

Ora ascolto di notte
la voce delle radici,
anche quella delle formiche
immense, numerose,
che stanno, tutte, mangiando
le spighe e le rose.

Io sono un ramo secco
sul quale due parole
gorgheggiano. Nulla di più.
E so che ormai non ascolti
queste parole vane.
Un fitto universo
mi ferisce con radici
di tristezza e di gioia.
Ma non vedo che le facce
della notte e del giorno.

Non ti ho dato il dolore
di andarmene io per primo.
Non ti ho freddato le labbra
col gelo del mio viso.
È stato saggio il destino:
tra il dolore di chi parte
e quello più grande di chi resta
a me ha dato quello – che più dura –
che non volevo darti.

Che mi importa di sapere
se al di là delle stelle
ci sono altri mondi
o se ciascuno di essi
è fatto di luce o è uno stagno?
L’universo, nel suo cerchio,
brilla alto e complesso.
E al centro di tutto
e di qualsiasi sole
che sia giorno o notte
un’unica cosa esiste.

È questa grazia triste
di aver aspettato che tu
ti addormentassi per prima.
È una lapide nera
sulla quale, giorno e notte,
brilla verde una fiamma.

***

CANTO INCIVILE

Basta essere vivi
per essere sovversivi.
(O sottovivi).
Basta non figurare
nel registro civile
per essere incivili.
(O vili, per dirla in breve).

Basta essere incivili
per non essere nessuno.
Basta non essere nessuno
per avere il soprannome
che dà la polizia
a chi non è nessuno.

Io avevo due nomi:
Zebedeo,
che mi ha dato la povertà.
E “elemento sovversivo”
che mi ha dato la polizia.

E soltanto un dolore:
che mi ha dato la vita.

E ora eccomi qua, incivile,
(o vile, per dirla in breve).
Scalciato da un cavallo
a metà del corteo
eccomi qua, steso lungo per terra
sulla schiena.

(O già tagliato a metà,
senza dolore, né sale).

domenica 4 dicembre 2022

coraggio

Sapere che oggi in Iran hanno soppresso la polizia morale è una di quelle cose che ti fa star bene, che ti fa sperare come non è vero quanto ci raccontano e a volte ci raccontiamo, che per quanto forze soverchianti provino ad annicchilirci e sottometterci chiudendo la nostra mente in un sistema perverso che pare escluderci da qualsiasi scelta, o rinuncia, od uscita, non tutto è perduto, che se ci si oppone con fermezza e coraggio, senza cedimenti, si può abbattere anche il potere più subdolo e feroce.

sabato 1 ottobre 2022

la barca dei poveri

 Guardando la Boldrini che litiga a una manifestazione (sull’aborto libero) con delle giovani ragazze, mi è venuto da pensare che è la stessa donna che pochi anni fa litigava con Salvini per difendere delle ragazzine dall’odio mediatico dei suoi follower (comportati da adulto, gli diceva) e adesso ironicamente le tocca la stessa sorte. Ho pensato anche che la sua risposta, del tutto sbagliata, “allora fatevi difendere da Fratelli d’Italia”, è in fondo la stessa su cui il PD ha fondato (e perso) la sua campagna elettorale: o noi o i fascisti. Ma è anche la stessa risposta di tutti coloro che (nel PD o no) hanno cercato di motivarmi ad andare a votare: se non voti loro allora poi ti farai difendere dai fascisti. Stesse parole, stesso messaggio. Anche le ragazze che, disgustate dalla politica, vogliono cacciare la Boldrini dalla manifestazione rappresentano un po’ quel sentimento della sinistra (ma magari non sono nemmeno di sinistra) per cui “questa nostra battaglia non è tua, perciò non la puoi condividere con noi” (un po’ come fanno PD e Pandistelle). Figurarsi, mi sono detto, che succederà fra qualche mese, quando ci sarà da manifestare per cose come la difesa della Costituzione e allora ci si picchierà in piazza, ma fra di noi, per decidere di chi è la Costituzione. Ma questo (giusto e sacrosanto) desiderio di purismo, di non mischiarsi più col potere (e la Boldrini qui rappresenta il potere, magari benintenzionato, ma è potere), è anche in fondo il sentimento di chi ha passato gli ultimi mesi a dire che la gente è scema o si è fatta incantare dalle chiacchiere del potere (svegliatevi!) e quando sono arrivate le elezioni si aspettava un miracolo tipo che gli stessi scemi si ripigliassero all’improvviso dal sonno e andassero in massa a votare per un partito da zero virgola che nella realtà (con questa legge elettorale) non entrerà nemmeno nei bagni del parlamento. Ma andare a votare, dicendo di voler salvare il paese ma già consapevoli di perdere (si affida ai miracoli solo chi non ha speranza), non è un po’ un atto di resa o di vanità, del tipo “io ci ho provato, ma senza volermi sporcare le mani”? È un po’ come non andare a votare, oppure fare le manifestazioni per una causa comune e cacciare chi non riteniamo degno della causa. Mi pare che in questo ormai siamo tutti sulla stessa barca, che è la grande barca dei poveri. Esserci, pur non rappresentando niente per gli altri e per noi stessi: mi pare che almeno in questo, e con le diverse sfumature che ci contraddistinguono, siamo riusciti ad essere perfettamente uguali e allineati al potere.

sabato 17 settembre 2022

la locomotiva guccini

Ho visto l’intervista di Guccini a Propaganda Live. O meglio, ho visto la registrazione di Propaganda Live per via di Guccini. L’ho fatto perché ho letto che non tutti hanno apprezzato alcune sue uscite e che quello che cantava La Locomotiva si era ridotto a fare lo specchietto di Draghi e della Nato. Però Guccini è anche quello che ha detto (ieri) che lui non voterà Letta perché è un democristiano, che Conte non è la sinistra, e che la Meloni è una fascista ma se gli italiani la votano che se la godano pure come si sono goduti Mussolini. Non mi sembrano le parole di un vecchio rimbambito. Poi ha aggiunto, e questo forse ha dato più fastidio: “Ci sono i pacifisti della domenica, ci sono quelli ancora fissati con l’Unione Sovietica e ci sono quelli che citano il santo padre; io sono pro Ucraina, potevamo calarci le braghe e regalare l’Ucraina a Putin o dare una mano agli ucraini per resistere ai russi, io sono per non calarci le braghe”. Ecco, Guccini può piacere o no, è lecito, così come La locomotiva può piacere o no (a me come canzone non è mai piaciuta), ma quella non è una canzone di pace, è una canzone di follia e vendetta, se c'è una ingiustizia io non vengo a parlare con te, io mi lancio “a bomba contro l’ingiustizia”, non vengo a trattare, vengo ad ammazzarti insieme a me. Ecco, magari può non piacere come messaggio, ma Guccini è sempre stato quello lì, da sempre, uno molto emiliano, sanguigno, di pancia, non uno da “veniamo a patti”, ma tutto l’opposto, uno che se tu gli dai addosso ci scrive su L'avvelenata per fare il tuo nome e dire al mondo che spari cazzate.

domenica 21 giugno 2020

di rabbia, bastardi e omogeneizzato

Da ieri gira in rete questa notizia inesatta, di un gruppo di facinorosi, forse fascisti, che hanno deturpato una statua di Cervantes disegnandoci sopra, con del rosso, delle croci celtiche. È inesatta come notizia perché il gesto di vandalismo non è avvenuto in Europa, come si sarebbe portati a credere, ma a San Francisco, in un parco pubblico, il Golden Gate Park, in un assalto notturno che aveva sì il suo scopo in un attacco iconoclasta ai monumenti del parco, ma contro tutto e tutti e senza nessuna distinzione critica. In questo modo sono state attaccate, allo stesso modo, sia la statua di Junipero Serra, missionario spagnolo da poco proclamato santo ma accusato di genocidio degli indiani d’America (in nome di Dio), sia quella del generale Grant che pose fine alla guerra di Secessione, sancendo di fatto la fine della schiavitù dei neri, ma colpevole di essere nato e cresciuto in una famiglia che aveva avuto a sua volta degli schiavi. Con loro molti altri fra cui il buon Cervantes che probabilmente il gruppo non ha nemmeno riconosciuto, appellandolo come Bastard, avendolo magari scambiato per un qualche conquistador alla Cortez the killer, mentre le croci celtiche che lo imbrattano sembrano più il segno di una ignoranza diffusa di cosa quel segno rappresenta, che non una dichiarazione di fede politica. In questo modo si fa della storia un omogeneizzato senza capo né coda e l’assunto che capire il nostro passato ci serve a vedere il futuro finisce direttamente nello scarico del gabinetto. Infatti, se è vero che questo attacco, come altri, è probabilmente l’espressione di una rabbia sacrosanta e diffusa, determinata dai tanti problemi sociali che affliggono la società americana, il problema è che spesso tale rabbia viene canalizzata in persone che non hanno né i mezzi critici e culturali, né la voglia o il modo o l’interesse per informarsi e interpretare la complessa realtà in cui viviamo. Il problema è che in fatto di numeri loro sono la maggioranza, non più tanto silenziosa, e se c’è una cosa che la storia insegna è quanto sia facile strumentalizzare quella rabbia senza mezzi critici per chiudere una pessima democrazia e sostituirla con una più efficace dittatura. Basta avere il Bastardo giusto al posto giusto nel momento giusto e il gioco è fatto.



domenica 15 dicembre 2019

il compagno praz

«Il popolo bue» lo chiamava
col disprezzo nella voce
colui che per il popolo lottava
ma senza dargli voce.

«Liberarlo anzi si deve il popolo
cornuto e traditore».
Ma dunque in che è diverso, il tuo
dallo sguardo del padrone?

«Cambia tutto, invece, infame!»
E si accaniva addosso
al fascista naturale
che in ciascuno sta nascosto. Anche sul mio:

«O fai pubblica ammenda per ogni tua parola
ch’io non condivido, o ti sputtano!»
E citava certamente il compagno poeta Majakovskij
contestandomi ogni pelo del naso

per dar scandalo. Ne faceva una questione
non di fede, ma venale
ché nulla gli importava dei princìpi
ma soltanto di finire sul giornale

o nei libri di storia o meglio ancora
sul Monumento ai caduti in piazza.
Persino se voleva un uomo morto
non aveva le palle di ammazzarlo.

Imbastiva un pezzo ad arte e lo postava
in rete. Calato nella parte gli scriveva:
«Caro mio, devi morire.
E bada in me non c’è violenza».

Così faceva, Praz, la Resistenza.

martedì 12 novembre 2019

seme

Dirò una banalità, ma mi sembra che a volte una scelta di campo sia solo una scusa per scatenare la propria aggressività contro un nemico facilmente individuabile. Ci ho pensato stamattina, quando in un bar mi sono messo a parlare con un ragazzo che stava leggendo un libro di Gandhi. Dai suoi discorsi mi sembra particolarmente schierato. Finché mi dice che per lui i fascisti andrebbero tutti impiccati a testa in giù, come i porci. Quando gli chiedo perché legge Gandhi se crede in metodi di lotta così radicali mi risponde che la non-violenza è un concetto bellissimo, ma i fascisti sono dei porci e quindi con loro non serve, con loro serve solo la violenza senza nessuna pietà, e ci mette dentro un tale fervore che mi sembra di essere già in guerra. Non mi esprimo mai sulle idee degli altri, ma provo a spiegargli che secondo me il suo discorso puzza già di fascismo. Nulla, non capisce, ripete come un mantra: i fascisti sono porci e tutti a testa in giù, i fascisti sono porci e tutti a testa in giù, come i porci. Lì ho lasciato perdere, ma confesso che per alcuni minuti mi sono sconfortato. Ieri ho visto un post in cui si dichiarava in maniera quasi banale che i libri sono importanti perché aiutano a pensare. Ma quando uno sta leggendo Gandhi, dice che lo apprezza, ma poi aggiunge che Gandhi va bene solo per gli amici perché i nemici li appenderebbe tutti a testa in giù, che diavolo ha capito di Gandhi? Cosa sta pensando? Poi mi è venuto in mente quel che mi direbbe il mio amico Pino, che è buddhista, e cioè che per oggi no, ma magari quel ragazzo sta piantando un seme per il futuro e mi sono tranquillizzato. Forse ha ragione lui.

martedì 11 giugno 2019

morale

Una lavoratrice – nel senso che lavora e fa la Lotta – mi dice: «Lillo, tu fai finta di non vederlo, ma non si può andare avanti come fai tu. Un editore senza capitale non è un editore serio/vero. Il vero editore è sempre imprenditore, è padrone, non compagno». Ma allora, le rispondo, stai dicendo che solo Mondadori può far libri. «No, ma la cultura non è una cosa democratica. Non puoi farla dal basso, sono ciarle. Devi avere i soldi per farla e farla bene. Se non hai i soldi, allora li stai chiedendo a me. Diventa una guerra fra poveri. Se non hai i soldi allora devi fare altro, inventati qualcosa se vuoi fare l’editore. Io non ho l’obbligo morale di comprare i tuoi libri, e a te non l’ha ordinato il medico di farli». Dopodiché mi informa con estrema nonchalance che anche lei scrive poesie – poesie di Lotta – e sta pensando di pubblicare un libro.

domenica 26 maggio 2019

qui dove non torna il conto del dolore...

Qui dove non torna il conto del dolore
di fronte a un panorama di immensa bellezza
che si apre sui ghiacciai

Balestrini non ci manca eppure
quanto manca alla domenica che piove
sulle urne elettorali
dove più ci manca il cuore di tornare
e non torna più il dolore non il conto
di lottare una vita intera per ridurci
a questa che non è cura ma supposta  
dove va fatto ciò che va fatto
perché più fatto di così si muore

Lo vedo oggi in mio padre  
padre politico alla rabbia d’amore
di chi non sa come dirla a parole
e si muove per forza di nervoso
«non mi avrete» dice «non mi avrete»
andando a votare per puro spirito di lotta
avendo già perduto ogni lotta
e digrigna i denti come un cane nella rabbia
stringe le chiappe per reprimere il dolore

Balestrini non ci manca eppure
quante ce ne avrebbe dette di parole
se solo avesse ancora parole da dire ma è morto



Il secondo e terzo verso sono tratti da Nanni Balestrini, Blackout

domenica 10 febbraio 2019

meglio che crepi il pastore

Sono rimasto sconvolto dalla protesta dei pastori sardi, il cui latte viene pagato, leggo, 55 centesimi a litro, più o meno quanto il costo della telefonata a Sanremo per votare il vincitore del festival. Sapevo che le condizioni di chi fa agricoltura sono pessime, ma farsi sbattere in faccia quanto poco sia considerato il loro lavoro fa sempre male. Certo che se lo paghi quanto si deve quel lavoro, poi i prodotti alimentari finiti li pagherai quattro, cinque, sei volte di più del loro prezzo attuale. Per questo tutti stanno zitti, anche se sanno, per questo chiudiamo gli occhi di fronte alle forme di neo-schiavismo degli immigrati, perché se devi sceglierne uno solo che deve immolarsi per tutti, fra il pastore e chi va a fare la spesa, è meglio che crepi il pastore. Ma allora, perché tutti gli altri non stanno bene?

mercoledì 20 giugno 2018

leggere qualcosa di buono

Leggevo ieri sera la biografia di Curzio Malaparte in cui lo stesso descrive come decisiva per la sua formazione umana e di conseguenza artistica l'esperienza nei Garibaldini durante la Prima guerra. Malaparte ne parla con gli stessi toni, le identiche parole accese e l'animo in rivolta che poi useranno scrittori più giovani di lui per la Resistenza. "Serve davvero una guerra, e che tipo di guerra, serve per forza un nemico", mi sono detto/chiesto in dormiveglia, "per fare uno scrittore?" E quale grande scrittore ci porterà Salvini? Che detta così sembra una battuta, ma intanto vedo di nuovo, pian piano, rinserrarsi le fila di una Sinistra che se c'è, ormai ho capito, c'è soltanto come negativo. La Sinistra, che non è buona nemmeno come nemico, di sicuro grandi scrittori non ce ne porterà. Per leggere qualcosa di buono confido più in Salvini.

venerdì 9 giugno 2017

il morso

Stamattina trovo Mao tutto contento in giardino perché ha acchiappato una lucertola. Gioca con lei con la crudeltà tipica dei gatti e io mi allontano in casa per non vedere che scempio ne farà. Invece, poco dopo lo sento miagolare forte, quasi gridare di dolore. Corro fuori pensando al peggio, ed è la lucertola che gli si è attaccata a una zampa e morde con tutte le sue forze. Lui prova a morderla a sua volta, a scrollarsela di dosso ma quella resta lì attaccata e pinza come un’ossessa. Alla fine, a furia di agitarsi, Mao riesce a staccarsela di dosso e corre verso di me per farsi consolare. La lucertola guerriera resta immobile al centro del giardino, senza più la coda ma con la bocca ancora spalancata e pronta a dar battaglia al mondo. Io prendo la scopa e con un colpo secco la scaccio verso la siepe, dove si nasconde. Mao mi corre dietro spaventato e zoppicante. È la prima volta che vedo un gatto adulto perdere contro una lucertolina, ma devo dire che è una lezione istruttiva. Siamo così abituati a pensare che contro i potenti non c’è storia, che ci soverchieranno in virtù della loro forza immensa, della differenza di peso, che ci scordiamo come un bel morso dato con tutte le nostre forze, con tutta la rabbia e la disperazione che abbiamo in corpo, non solo è lecito, ma è nell’ordine naturale delle cose e delle volte persino funziona.

domenica 13 novembre 2016

quinquennio

Ieri notte mi è venuto in mente che non so se c'è ma sarebbe interessantissimo uno studio che contestualizzasse e mettesse in relazione la produzione del cantautorato italiano col quinquennio 1975-1980 (omicidio Pasolini, processo a De Gregori, rapimento Moro, disastro di Seveso, Loggia P2, eroina, terrorismo, strage di Bologna, strage Ustica ecc.) che è poi quello in cui molti produssero le loro opere più politicamente schierate e dure e alla fine del quale molti di loro, in un moto di disillusione, ripiegarono verso un cantautorato più intimo e sofferto, oppure verso un innocuo commerciale che era un po' una dichiarazione di resa nei confronti della storia. E forse mi sbaglio, ma uguale sorte è toccata, con le dovute differenze di linguaggio, a poesia e cinema.