Si può essere, da antifascista, amico di un fascista? Me lo chiedeva un amico un po’ di tempo fa? – Se il fascista è intelligente sì, rispondevo. – E lui incalzava: Ma ci sono fascisti intelligenti? Io non credo. – Mi è tornato in mente stamattina, mentre leggevo dell’incredibile amicizia fra Piero Gobetti e Curzio Malaparte, che ha un doppio livello di lettura. Sul piano pubblico era pungente, severa e sarcastica, specie da parte di Gobetti, oppure assai prudente, specie da parte di Malaparte; su un piano privato era un’amicizia più intima, onesta ed affettuosa. Nelle loro lettere, lettere di due ventenni che guardano il mondo da punti di vista opposti, riescono a parlarsi in nome del talento che entrambi riconosco all’altro. Malaparte, acutamente, dice che quello che li separa è l’esperienza della guerra, che lui ha fatto, segnandolo nel profondo, e il poco più giovane Gobetti no, lasciando puro il suo idealismo. Gobetti predice a Malaparte che, con la sua intelligenza e col suo carattere così bizzarro, non gli ci vorrà molto prima di litigare coi fascisti, ma questo non potrà che fare bene alla sua scrittura, liberandola dalla brutta retorica del regime. Malaparte si preoccupa per lui, lo mette in guardia, implora di lasciar perdere l’editoria politica e dedicarsi esclusivamente all’arte e alla letteratura, prima che i fascisti lo facciano fuori. Gobetti invece sceglie di emigrare a Parigi per continuare da lì la sua lotta e viene ucciso nel 1926. Malaparte non commenta in alcun modo la sua morte e scriverà solo anni dopo, a guerra finita, quasi come un tributo postumo per quanto tardo, che “senza dubbio Piero Gobetti è l’uomo che, in senso antifascista, ha avuto maggiore influenza sulle giovani generazioni”, facendo di lui “il capo riconosciuto dell’intellettualismo antifascista”, più ancora di Gramsci, insomma. Nel 1925, a testimonianza della sua grandezza l’editore Gobetti pubblica due libri diversissimi fra loro. Uno di un giovane e riottoso poeta genovese alla sua prima pubblicazione, uno dei pochi intellettuali italiani che non aderì al fascismo, gli “Ossi di seppia” di Eugenio Montale; e l’altro di Curzio Malaparte, prima ancora che prendesse quel soprannome, una raccolta di saggi e articoli sul fascismo, chiamato “Italia barbara”. Gobetti lo presenta con una nota in copertina scritta di suo pugno, e degna di quella che vent’anni dopo Vittorini avrebbe riservato a Fenoglio per “La malora”. Scrive Gobetti: “Presento al mio pubblico il libro di un nemico. Coi nemici si vuole essere generosi: qui poi Curzio Suckert ci aiuta a combatterlo. Mi piace essere settario-intransigente, non settario-filisteo. Ho giurato di non rinunciare mai a capire né ad essere curioso. Curzio Suckert dunque è la più forte penna del fascismo: io non gli farò l’oltraggio di confutarlo. Completare immagini, opporre politica a variopinta fantasia e a stile pittoresco non è di mio gusto. Il mio antifascismo non combatte mulini a vento. Gli spiriti bizzarri amo lasciar sbizzarrire e anche della loro faziosa toscana letteratura, quando è letteratura, applaudirli. Sono oppositore; né melanconico, né pedante”. L’anno dopo Gobetti verrà ucciso. Nel 1928, Malaparte gli dedica un libro che Gobetti aveva letto in anteprima e che avrebbe voluto pubblicare, una raccolta di scritti satirici intitolata “Don Camaleo” dove si descrivono le malefatte di un fascista che, proprio come un camaleonte, riesce a cavarsela sempre in virtù della sua innata capacità di trasformismo. Da un verso è una presa per il culo di Mussolini, e a suo modo di Malaparte stesso, dall’altro è un sentito ‘mea culpa’ indirizzato alla coraggiosa intransigenza del “nemico” Gobetti.
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