mercoledì 30 novembre 2016

libri da recensire

Stavo pensando che, mutuandola da una bellissima raccolta di Francesco Tomada, potrei scriverne una che si chiama: Portarsi avanti con le recensioni. Oggi ne ho scritte tre che dovevo consegnare a fine ottobre. Adesso mi devo sbrigare che ne devo cosegnare altre sei entro fine mese, quelle di novembre + quelle di dicembre, sperando che non mi diano in anticipo pure quelle di gennaio in vista delle feste. Che certe volte i libri da recensire sono come l'acconto iva di fine anno.

il prossimo

«L’unico omicidio perfetto è quello farmacologico». Bellissimo! Se mai dovessi scrivere un noir comincerei così. Ieri Lapo e oggi Leonardo Cazzaniga e Laura Taroni. Siamo a livelli di letteratura altissima nel mondo reale. A che serve scrivere quando basta sintonizzarsi sul Tg e scegliere quello più affine ai propri gusti? Leggevo che oggi Michela Murgia commentava la decisione della giuria di Stoccolma dicendo che c'è comunque differenza fra scrivere un romanzo e scrivere una canzone, ma «il mondo sta cambiando, la musica cambia, anche le droghe cambiano», things have changed direbbe Bob Dylan, e io so già che il prossimo Nobel per la letteratura lo daranno a Enrico Mentana.

martedì 29 novembre 2016

capolavoro

Non avevo capito nulla della storia di Lapo Elkann, si vede che negli ultimi giorni mi sono perso i vari Tg. Ma da un punto di vista narrativo è di una forza tragicomica straordinaria, talmente perfetto da essere già letteratura. I fratelli Coen ne farebbero un capolavoro.

recensione di antonio giampietro

«Ma un figlio del Sud non è per forza destinato al fallimento, questa prole testarda può trovare il suo riscatto se resta con tutte le forze attaccata alla vita». 
La bellissima recensione di Antonio Giampietro appena uscita su incroci, al mio Bestiario Fiorito (Pietre Vive 2016).

lunedì 28 novembre 2016

piccolo sogno kafkiano

A un certo punto viene fuori che A. è un bugiardo della peggior specie. La sua bugia maggiore consiste nel fatto di non essere, con grande imbarazzo, come gli altri lo volevano. E lui, per non dispiacer nessuno, finge di essere per gli altri i tanti A. che ognuno gli chiede, fino al punto di confondersi e non riuscire più a riconoscersi fra i tanti suoi lui. Ne viene fuori una lunga teoria di copie sfocate e senza più un originale a cui tornare per credersi ancora una persona reale, e non soltanto un personaggio inventato dagli altri per caso o per capriccio, per tappare un buco, uno spazio vuoto. Fino al punto che, ormai abbandonato e sul punto di scomparire, arriva a ringraziarli tutti, uno per uno, perché obbligandolo a essere chi non era mai stato, gli hanno almeno dato la possibilità di vivere e di giustificare, in loro, la sua stessa esistenza.

lunedì 21 novembre 2016

il sogno di una gatta

Trent’anni fa una gattina, la prima in assoluto, ci arrivò in casa in una scatola da scarpe, ma sistemandosi, dopo una breve e fortunata ricerca, sul tappeto fra i due letti nella stanza mia e di mio fratello, come se fosse il suo posto da sempre. Era un tappeto di pelliccia, acquisto nemmeno economico di nostra madre, a cui piaceva più che a noi due, e sembrava appunto ciò che era: un grosso animale bianco e peloso, addormentato ai piedi del nostro letto. 
La gattina aveva anch’essa il pelo bianco, ma orecchie nere e coda nera tranne che sulla punta, bianca. Ci era stata data troppo piccola da vicini frettolosi, e aveva di continuo paura di restare sola. Per questo amava quel tappeto persino più di mia madre, feticcio di una grande mamma morbida e pronta all’abbraccio. Aveva l’abitudine, quando dormiva, di chiudersi tutta in se stessa e prendere in bocca la punta bianca della coda e succhiare come se fosse un capezzolo, mentre offriva le sue piccole fusa grate a quel tappeto. Chissà se ci considerava i suoi fratellini in quell’abbraccio. Ancora bambini la guardavamo a lungo, nella nostra stanza, e prendevamo sonno ascoltando le sue fusa.

domenica 20 novembre 2016

due digiunatori

Ogni tanto mi chiedo perché faccio quello che faccio, cosa mi spinge in quella direzione. Poi, subito, capita sempre qualcosa che me lo ricorda. Come prima che ho chiamato Roberto Corradino, regista, per parlargli del nostro progetto degli audiolibri e lui entusiasta ha cominciato a parlarmi, mischiando ricordi personali, spiegazioni e parti recitate a memoria del Digiunatore di Kafka, su cui ha fatto uno spettacolo assai potente alcuni anni fa, e mi ha detto: quello sarebbe uno splendido audiolibro. E intanto che mi parlava del Digiunatore, lui mangiava minestrone e io cioccolata fondente.

venerdì 18 novembre 2016

più cara del signore

Saluti dal Calvario dalla Signora Babinski.
Vedova Babinski senza figli dal Kuwait.
Mio marito fu ambasciatore in Costa d'Avorio.
Morto dopo undici anni di matrimonio e
quattro giorni di malattia. Prima della sua morte
entrambi eravamo cristiani.

So che sarai sorpreso nel ricevere la mia lettera
ma come figlio di Dio dovrai sapere
che le nostre strade e la sua non sempre coincidono.
La Bibbia ci dice che Lui opera in molti modi
e non sempre tutto funziona al meglio
per coloro che hanno creduto in Gesù Cristo.

Dalla morte del mio amato confesso di aver desiderato
unicamente avere un figlio ma senza risposarmi
e fuori da ogni Legge che fosse
coniugale ovvero della Bibbia. Ma il Cielo
non ha chiuso le sue porte. Così il mio dottore ha detto
che non arriverò ai nove mesi
consumata dal cancro. La perdita si aggiunge alla perdita
e l’espiazione non placa il mio dolore.

Mio marito era in vita
quando ha depositato una cifra in banca
ad Abidjan, Costa d'Avorio, soltanto per me.
Due milioni di dollari e mezzo. Volevo
venisse utilizzata per gli orfani e le vedove
perché non ho figli né mai avrò un erede. Né voglio
possa andare ai parenti che sempre
stanno qui appollaiati cercando di cavarmi il denaro dagli occhi.

La Bibbia ce lo insegna: “Benedetta è la mano che dà”.
Pertanto prendo questa decisione. Soddisfo un desiderio
che fu di mio marito, giocatore, e ti scrivo aiutata da una suora
puntando tutto sul caso. Voglio che sia tu ad ereditar la mia fortuna.
Voglio che mi invii il tuo nome e l'indirizzo, ogni dato
ché io possa affermare sotto giuramento
in tribunale come in faccia al Divino
che sei tu, mio illustre sconosciuto, mio fratello
il mio legittimo erede nel destino.

Una volta ricevuta la risposta con le informazioni che ti chiedo
ti darò il contatto della banca e firmerò le carte del passaggio.
Tu prega per me che da cristiana e pagandola assai cara
ho servito la verità più del Signore. La mia vita spegne adesso
fuori da ogni grazia. Ti aspetto, tu ricorda è urgente.

Tua sorella nel Calvario
Vedova Babinski


Nota. Questa poesia l'ho scritta rimaneggiando una mail che mi è arrivata l'altro giorno e che ho trovato particolarmente commovente...

mercoledì 16 novembre 2016

di poeti e della libertà di dire no

Ho letto ora la notizia che Dylan sta snobbando con molta nonchalance la cerimonia del Nobel e a me viene in mente (da quando l'ho saputa) la storia che Luzi ci sperava così tanto nel Nobel che si era pure comprato l'abito buono, prima che il premio glielo soffiasse Fo, o quell'altra di Quasimodo che andò in giro elemosinando favori a destra e a manca per arrivarci, scatenando le ire di Ungaretti. E devo dire che, per quanto appartenga più alla seconda categoria (quella dei poeti alla Luzi o Quasimodo) che non alla prima (quella di Dylan ma anche di Zeichen o Bellezza, volendo fare altri nomi), vorrei avere ogni tanto maggiore libertà di scelta, come quella di Dylan: la possibilità di poter dire anche no, non mi va, ho mal di testa, oppure non sono d'accordo, oppure scusate ho un altro impegno quel giorno, per il solo fatto che la poesia per vivere ha bisogno solo di esserci e non di premi e riconoscimenti. Invece se mi dicessero che ho vinto il Nobel io ci andrei, spero non con l'abito di Luzi, ma ci andrei, per il premio e per la difesa della poesia, certo, ma soprattutto per i soldi. Proprio come ha fatto Montale, che poi la Spaziani diceva essere un gran tirchio nell'intimità.

sarà forse amore a suo modo questo nostro cercarci...

Sarà forse amore a suo modo questo nostro cercarci
per pura solitudine e null’altro che per dirci
lo spento andamento dei giorni e il nero colore dei vestiti
dichiarandoci un po’ tristi ma con stile
né giovani né vecchi nel conto leggero delle rughe
nel numero spietato di bottiglie accumulate
poco prima del sonno appena dopo aver staccato
la spina di follia del mondo. Compagni di pianto e di bevute.

domenica 13 novembre 2016

quinquennio

Ieri notte mi è venuto in mente che non so se c'è ma sarebbe interessantissimo uno studio che contestualizzasse e mettesse in relazione la produzione del cantautorato italiano col quinquennio 1975-1980 (omicidio Pasolini, processo a De Gregori, rapimento Moro, disastro di Seveso, Loggia P2, eroina, terrorismo, strage di Bologna, strage Ustica ecc.) che è poi quello in cui molti produssero le loro opere più politicamente schierate e dure e alla fine del quale molti di loro, in un moto di disillusione, ripiegarono verso un cantautorato più intimo e sofferto, oppure verso un innocuo commerciale che era un po' una dichiarazione di resa nei confronti della storia. E forse mi sbaglio, ma uguale sorte è toccata, con le dovute differenze di linguaggio, a poesia e cinema.

malinconia solo d'estate...

Malinconia solo d’estate
prometteva il tempo incerto e
zoppicante. Invece si protrae
per troppo tempo l’incerto e
il malcontento ed è già inverno
senza estate.

sabato 12 novembre 2016

commemorazione

Devo dire che dopo aver assistito al primo funerale mediatico-planetario tributato a David Bowie a inizio anno, i toni più sommessi e intimi dedicati a Leonard Cohen in queste ore mi fanno pensare a una battuta che Paolo Villaggio fece alcuni anni fa durante la commemorazione funebre per Mario Monicelli: «A Roma morire dopo Sordi era una stronzata».

venerdì 11 novembre 2016

cifra

Strana sensazione accorgersi di poter dire esattamente dov’eri il giorno in cui è morto Salinger, e come non hai dato il giusto peso a quello in cui è morto Foster Wallace, cosa hai pensato quando è morto Lou Reed, e di che colore era il cielo quando hai saputo della fine di Bowie o di Leonard Cohen. Non è tanto la fine di un tuo mito a sorprenderti quanto la sensazione che lentamente la tua vita si assottigli con la loro scomparsa, fino a quando, evaporato ogni sentimento, di te resterà soltanto una cifra riportata sulle pagine di un libro proprio sotto il loro nome.

a singer must die

And I thank you, I thank you for doing your duty, 
you keepers of truth, you guardians of beauty.

mercoledì 9 novembre 2016

becchino

Sono una specie di becchino al contrario. Scavo d’inverno per ripescare stronzi buoni come combustibile per il fuoco, e riemergono invece cadaverini di animali domestici, che si confondono col paesaggio color terra bruciata e bianco di neve fresca come in un quadro fiammingo.

martedì 8 novembre 2016

archetipi

In molti sognano Dante. Ma per lo più si dividono fra Petrarca e petrarcheschi. A qualcuno tocca pure un Cavalcanti. Io per me spero (senza certezze) d’essere Cecco, né più né meno degli altri, ma indifferente alla calca dei pretini che si ritagliano un angoletto sull’altare. E per questo l’unico capace di gridare: «Dante spostati, mi togli il sole!».

domenica 6 novembre 2016

lo sfogo

Ora di cena. Mi chiama un mio autore per sfogarsi. Non ha più un lavoro, la ragazza lo ha lasciato, il corpo comincia a tradirlo quando gioca a pallacanestro e ha difficoltà persino a scrivere. È un concentrato di sfiga. Mi chiama e si sfoga con me per circa 40 minuti in cui parla quasi soltanto lui, mentre mi faccio un panino con birra e lo ascolto mugugnando di tanto in tanto per fargli sentire che ci sono. Alla fine, poco prima dei saluti, gli dico: «Mi raccomando a te, e scusami se non posso fare più di così». Lui mi risponde: «Ma scherzi? Sei il miglior editore del mondo. Sei meglio del mio psicologo e non ti fai pagare. Ti chiamo ancora! Ciao!». Io mi bevo un’altra birra.

sabato 5 novembre 2016

la goccia

Avere il mondo sotto gli occhi e non poterlo stringere. Ogni giorno che passa sotto il suo balcone, si sorprende a sollevare gli occhi – né può farne a meno – per fissare la sua biancheria stesa ad asciugare. Si vergogna un po’ dei suoi impulsi e se non sa dimenticarla, e del piacere che prova a riscoprire fra le altre le mutandine di pizzo che le ha regalato mesi prima. Gli sale un groppo in gola di rimpianto, e l’ansia di averle perdute per sempre, di non avere più il diritto di allungare la mano e prenderle, nonostante appaiano così vicine, pochi metri sopra di lui. È il turbamento di un attimo, poi tira dritto per non farsi notare dai vicini. Ma a certe ore del giorno, quando non c’è nessun altro in giro, senza quasi più pudore dà sfogo al desiderio. Si piazza sotto l’ombra leggera che appare una ragnatela invitante, fino a farsi sfiorare il capo e aspetta lì, chiudendo gli occhi nell’attesa, fino a sentirsele sgocciolare in fronte. Quando la prima goccia lo colpisce, lo pervade nella carne un brivido, come un neonato che venga battezzato dal suo ritorno. E assapora il suo lento scivolare sul volto, negli occhi, sul collo, che gli ricorda la carezza gentile del suo dito quando ancora lo cercava.

venerdì 4 novembre 2016

le ragioni del no


Nei giorni di sole Nino non riesce a resistere alla tentazione. Scende di casa, attraversa la strada ed entra nel negozio di mobili del figlio. Di mattina è quasi sempre vuoto, la clientela pochissima. Così ha non solo una stanza tutta per sé, ché già deve dividere casa con cognata e nipoti, la televisione perennemente accesa, le chiacchiere della vicina invadente, ma può anche scegliere fra i letti e i divani in fondo. In base all’umore del giorno ne sceglie uno più o meno esposto al sole, che entra dalla grande vetrata laterale. Toglie il lungo cappotto di panno scuro che ha comprato anni fa con sua moglie, poi si allunga sul divano o sul letto prescelto con la voluttuosa indolenza di una grossa lucertola, si lascia avvolgere dal tepore e in quel tepore si appisola ogni volta, per alcuni irrinunciabili minuti. La casa è fredda e fosse per lui terrebbe il cappotto tutto il tempo, ma sua cognata non vuole e lo rimprovera spesso perché lo tolga e si comporti un po’ da uomo. Così, per lui, il negozio si è trasformato nell’ultimo rifugio per la propria dignità.
Dopo aver dormito, Nino tira fuori dal portafogli i suoi foglietti, che sono il suo grande conforto, al punto che quando sua cognata ha provato a portarglieli via dicendogli che era ridicolo, si è opposto con tutte le sue forze fino a farla desistere. Li tira fuori e li rilegge, approfittando del silenzio, per correggerli fino a renderli perfetti. Oppure, se ha una nuova idea la appunta su quelli puliti che ha ritagliato dai vecchi quaderni di sua nipote. Sono epigrammi che non avranno mai una vera pubblicazione, ed esprimono soltanto la rabbia, la frustrazione per ogni sopruso o menzogna, tutta la sua insoddisfazione. Le alimenta con la forza inesauribile di giornali, trasmissioni, le chiacchiere in parrocchia o dal tabaccaio sotto casa. «Per tutto questo abbiamo vissuto e lottato?» chiede a se stesso e a sua moglie. Inetti e criminali al potere, razzisti, cialtroni, migranti e schiavi, terremotati, tedeschi, le banche che si mangiano tutto, la gente che invece di lottare seriamente si gratta oppure strepita, si piange adosso o ripete con violenza insensata slogan a tempo perso, fino a farlo vergognare di parlare la loro stessa lingua. Per tutti loro abbiamo vissuto e lottato?
E si sente crescere dentro come una furia che non sa più contenere, la scrive con forza, ma in rima. La appunta, col suo sangue gettato negli anni, in biglietti che si porta in tasca carichi di sdegno e di veleno, come pistole pronte all’uso. Il suo testamento morale: pistole civili, armate di parole che gridano: «Mi fate tutti schifo, voi servi, voi padroni senza nessun potere, i vostri discorsi che suonano come lo sciacquare delle stoviglie dopo una grande abbuffata e l’incredulità di quelli che sono rimasti a digiuno, ma zitti per tutta la vita mentre aspettavano gli avanzi».
E prega ogni sera, prima di addormentarsi, per le prossime elezioni, o per il referendum, uno dei tanti, ché arrivino il prima possibile. Ne pregusta già ogni passo, nel buio, nel poco tempo che gli resta. Sogna di dirigersi verso le urne a testa alta, guardare il mondo fiero, dall’alto, prima di tirare fuori il suo biglietto scelto per quel giorno. Far tremare la parete in alluminio sotto la sua terribile caustica matita, fino a consumarle la punta, mentre ricopia sulla scheda i suoi versi di rivolta, l’ultima occasione di far sentire il suo No al Paese, dopo che gli hanno abbassato la voce.

martedì 1 novembre 2016

il giardiniere alla foresta


Un giardiniere che, per brevissimo tempo, è stato celebre per un suo libro di viaggio in moto da cross attraverso il Messico non si incontra tutti i giorni. Eppure una mattina mi chiama al telefono e mi chiede un appuntamento per propormi, durante la mezz’ora che è riuscito a ritagliarsi fra una potatura e l’altra, la pubblicazione del suo nuovo libro prima della sua probabile partenza. 
Non l’ho mai visto prima, ma vive a pochi chilometri da casa, in un centro spirituale in perfetto stile indiano, ma organizzato come un B&B. Dorme lì gratis, in cambio di lavori di fatica fra cui la potatura di altissime palme sulle quali è il solo capace di arrampicarsi senza vertigini. Al suo interno fa vita appartata, sua unica compagnia è un gatto transgender che a un certo punto ha cambiato genere in maniera spontanea, trasformandosi da maschio a femmina. Per il resto lavora duro e senza respiro. Si sveglia all’alba, mangia da solo quanto più può per darsi energia – e svuotando ogni volta il frigo, motivo per cui non lo amano – poi tira dritto fino al tramonto con la consapevolezza che presto, appena fa due soldi, andrà via. 
Da come si descrive lo diresti un uomo taciturno. Invece, gioviale come pochi, mi si siede davanti e mi parla dei suoi racconti, oppure comincia a leggermi stralci dal manoscritto, scoppiando a ridere di tanto in tanto travolto dalla sua stessa ironia. 
Ricordo una storia in particolare in cui, in un suo viaggio onirico arriva in una valle. Ci è arrivato sognando perché gli hanno detto che qui, tutte le mattine, succede un fenomeno assai particolare a cui vuole assistere. Nella valle vivono, ancorate al suolo, delle enormi forme dormienti, lunghe fino a venti metri, che palpitano nel buio della notte, e che sollevandosi all’alba, risvegliate dai primi tiepidi raggi, trasformano la valle in una sorta foresta pluviale. Ecco che lontano, dietro l’orizzonte, comincia a intravedersi la luce, la terra si muove pigramente, poi trema per lo stiracchiarsi dei corpi, il loro gonfiarsi e irrigidirsi, tirarsi su pian piano a scatti, impennarsi e incurvati lievemente verso il cielo, rosei, lucidi e tirati in cima, appena scossi dal fresco del primo mattino che li pizzica. Una vera foresta di cazzi equatoriali. 
Sarebbe una visione maestosa e degna di Moebius, se a questo punto non arrivasse a mungerli una squadra attrezzata di nani che, con grande abilità, si arrampicano lungo il loro fusto nodoso, arrivano in punta e cominciano a massaggiarla con decisione fino a farli eruttare in uno spruzzo che ricorda l’esplosione di un gaiser o di un pozzo petrolifero, impiastricciando la valle dei loro succhi vitali. È una tale sconcezza di sogno che alla fine il suo stesso autore decide di abbattere questa foresta oscena ricorrendo alle forze speciali dell’aeronautica: una pattuglia composta da aerei a forma di vagina, che grazie ad ali basculari sono capaci di atterrare in verticale sopra i cazzi e… 
Gli dico che le sue storie mi piacciono ma non ho tempo di seguirlo, così lo passo a Luca perché ci lavorino assieme loro due. Ci lavorano così tanto – con lui che riscrive intere pagine del libro per ridarcele identiche a com’erano in partenza – che, ironia a parte, alla fine il libro non si fa più. Ci salutiamo, molto tempo prima della data annunciata per la sua partenza, quando ormai stufo di tutto e tutti, avendo fatto due soldi, mi telefona per comunicarmi che ha deciso di tornarsene un po’ dalla sua mamma, in Veneto.