Nei giorni di sole Nino non riesce a resistere alla tentazione. Scende di casa, attraversa la strada ed entra nel negozio di mobili del figlio. Di mattina è quasi sempre vuoto, la clientela pochissima. Così ha non solo una stanza tutta per sé, ché già deve dividere casa con cognata e nipoti, la televisione perennemente accesa, le chiacchiere della vicina invadente, ma può anche scegliere fra i letti e i divani in fondo. In base all’umore del giorno ne sceglie uno più o meno esposto al sole, che entra dalla grande vetrata laterale. Toglie il lungo cappotto di panno scuro che ha comprato anni fa con sua moglie, poi si allunga sul divano o sul letto prescelto con la voluttuosa indolenza di una grossa lucertola, si lascia avvolgere dal tepore e in quel tepore si appisola ogni volta, per alcuni irrinunciabili minuti. La casa è fredda e fosse per lui terrebbe il cappotto tutto il tempo, ma sua cognata non vuole e lo rimprovera spesso perché lo tolga e si comporti un po’ da uomo. Così, per lui, il negozio si è trasformato nell’ultimo rifugio per la propria dignità.
Dopo aver dormito, Nino tira fuori dal portafogli i suoi foglietti, che sono il suo grande conforto, al punto che quando sua cognata ha provato a portarglieli via dicendogli che era ridicolo, si è opposto con tutte le sue forze fino a farla desistere. Li tira fuori e li rilegge, approfittando del silenzio, per correggerli fino a renderli perfetti. Oppure, se ha una nuova idea la appunta su quelli puliti che ha ritagliato dai vecchi quaderni di sua nipote. Sono epigrammi che non avranno mai una vera pubblicazione, ed esprimono soltanto la rabbia, la frustrazione per ogni sopruso o menzogna, tutta la sua insoddisfazione. Le alimenta con la forza inesauribile di giornali, trasmissioni, le chiacchiere in parrocchia o dal tabaccaio sotto casa. «Per tutto questo abbiamo vissuto e lottato?» chiede a se stesso e a sua moglie. Inetti e criminali al potere, razzisti, cialtroni, migranti e schiavi, terremotati, tedeschi, le banche che si mangiano tutto, la gente che invece di lottare seriamente si gratta oppure strepita, si piange adosso o ripete con violenza insensata slogan a tempo perso, fino a farlo vergognare di parlare la loro stessa lingua. Per tutti loro abbiamo vissuto e lottato?
E si sente crescere dentro come una furia che non sa più contenere, la scrive con forza, ma in rima. La appunta, col suo sangue gettato negli anni, in biglietti che si porta in tasca carichi di sdegno e di veleno, come pistole pronte all’uso. Il suo testamento morale: pistole civili, armate di parole che gridano: «Mi fate tutti schifo, voi servi, voi padroni senza nessun potere, i vostri discorsi che suonano come lo sciacquare delle stoviglie dopo una grande abbuffata e l’incredulità di quelli che sono rimasti a digiuno, ma zitti per tutta la vita mentre aspettavano gli avanzi».
E prega ogni sera, prima di addormentarsi, per le prossime elezioni, o per il referendum, uno dei tanti, ché arrivino il prima possibile. Ne pregusta già ogni passo, nel buio, nel poco tempo che gli resta. Sogna di dirigersi verso le urne a testa alta, guardare il mondo fiero, dall’alto, prima di tirare fuori il suo biglietto scelto per quel giorno. Far tremare la parete in alluminio sotto la sua terribile caustica matita, fino a consumarle la punta, mentre ricopia sulla scheda i suoi versi di rivolta, l’ultima occasione di far sentire il suo No al Paese, dopo che gli hanno abbassato la voce.
1 commento:
splendido
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