giovedì 30 novembre 2023

ricordo speciale

Una bambina di 11 anni che quando le chiedo se ha qualche ricordo speciale della sua infanzia mi risponde: "Mamma che quando ero piccola mi diceva tu sei bellissima, poi mamma è morta e io sono diventata grande".

mercoledì 29 novembre 2023

più attenzione al mondo femminile

Autrice mi contatta. – Antonio, se posso farti un rimprovero, dovresti essere più attento al mondo femminile. – In che senso? – Pubblicare più donne che parlano di ciò che stiamo vivendo in questi giorni. – Ma io pubblico tantissime donne... – Sì Antonio, ma quelle sono poesie, io dico una cosa alla portata di tutti... – Tipo un romanzo? – Esatto! – Hai scritto un romanzo? – Esatto! – Hai scritto un romanzo sul patriarcato? – Non proprio sul patriarcato, ma è una storia autobiografica che può insegnare molto su quello che sta succedendo, penso soprattutto ai ragazzi nelle scuole... – Per fortuna che non pubblico romanzi, allora...

martedì 28 novembre 2023

equilibrio

Dicono che sulla lunga distanza il lavoro che fai ti rende, se non in denaro, altre piccole soddisfazioni che danno gusto alla vita. A me finora ha portato soltanto calcoli dovunque (da reni a cistifellea sono pieno zeppo di pietre che ogni tanto si fanno sentire, le favolose pietre vive) e ipertensione che prima o poi mi regalerà il primo infarto, e che tengo a bada non mangiando, non bevendo, uscendo soltanto per lunghe passeggiate o scendere nell'orto, non accoppiandomi, non facendo un cacchio di socialmente rilevante, tanto che ho il modus vivendi di un monaco zen. Ieri un amico mi diceva: Hai praticamente una vita perfetta, non guadagni un soldo, ma non hai nemmeno spese.

sogno del cane

È un paio di notti che sogno un grosso cane a due teste, dal pelo molto scuro, portato al guinzaglio, che in uno scontro stradale con un calessino ne perde una, gli viene mozzata di netto da un finimento e muore dissanguato per strada, ad un incrocio non asfaltato e luminoso con la brecciolina che assorbe il sangue scuro e che subito dopo si trasforma in un vicoletto cupo. Due notti di fila lo stesso sogno credo abbia un significato. Ma non ho ben capito quale.


domenica 26 novembre 2023

pensierino sulla rimozione di certa memoria storica

 Ho visto la registrazione di un intervento di Barbero all’università di Bologna dove parlando dei vari conflitti fra israeliani e palestinesi o fra russi e ucraini dice che spesso ci riesce così facile parlare di “pace” rispetto a loro perché fondamentalmente non ci ricordiamo che fino al secolo scorso avevamo in Europa situazioni molto simili per intensità di risentimenti fra paesi e popoli che scatenavano guerre sanguinose e narrazioni interne votate alla divisione e all’odio dello “straniero” (dove per straniero si intendeva l’austriaco, il francese, il tedesco, l’inglese, lo spagnolo, il musulmano, l’ebreo, ecc.). La seconda guerra mondiale e ciò che ne è seguito hanno innescato in noi un processo congiunto di “rimozione della memoria” o “del conflitto” che ci ha portato un lungo periodo di pace e per il quale non riusciamo più a concepire che simili “narrazioni” possano determinare delle guerre fra popoli. Se succede, anzi diciamo, è sempre perché qualcuno – il cattivo di turno – ci mette lo zampino, altrimenti tutti i popoli per loro natura vogliono vivere in pace. Non è proprio così (vedi serbi e croati). O non per tutti è così. Prova ne sia anche ancora in Russia e Ucraina si rivanghino oggi, come motivi d’odio bruciante, dei fatti che almeno ai miei occhi, ma evidentemente non ai loro, sembrano storia vecchissima. Mi fa sempre specie, ad esempio, vedere Zelensky, che ha la mia età e quindi non ha realmente vissuto quella storia, appellarsi alla sua nazione parlando di lotta al nazismo: eppure nel suo paese quel racconto non è solo retorica, ha un senso, ha un peso determinante. Esattamente come per i miei nonni o per mio padre poteva averlo parlare di Risorgimento, di Garibaldi o di Cavour, quando ormai per buona parte di noi la storia del Risorgimento non solo è acqua passata, inutile a raccontare un’unità italiana ancora aperta, al massimo viene ridiscussa per svalutarne l’importanza (come ben si sa all’epoca ci hanno messo lo zampino gli inglesi, che erano "gli americani" dell’epoca). Non parlo nemmeno delle lotte sociali di ieri i cui temi tornano oggi alla ribalta perché nel frattempo ce ne siamo dimenticati le conquiste. Ancora il discorso di Barbero implica un altro scorcio interessante, quando dice che le nazioni europee di oggi “apparentemente” sono in pace. Questo perché la rimozione della memoria ha una contropartita a cui non vogliamo pensare. Così come il Risorgimento, anche la Resistenza, che per la mia generazione ancora significa qualcosa, per quello stesso processo di “rimozione della memoria” o “del conflitto” a breve verrà inevitabilmente messa da parte, dimenticata, o accantonata, dai più giovani. Questo, mi si dirà, è un processo inevitabile del tempo; invece, ci insegnano proprio i conflitti in corso che vivono su retoriche vecchie di ottant’anni, è un problema di trasmissione culturale di determinate narrazioni. Così come le storie che si tramandavano oralmente i nostri nonni analfabeti per secoli anche noi avremmo il potere di trasmetterle, ma abbiamo abdicato quel tipo di trasmissione della memoria ad altri mezzi più veloci, rapidi, inoffensivi, che passano senza lasciare traccia. A questo punto tutta la retorica del “per non dimenticare” su cui da anni le uniche a far fortuna sono le case di produzione cinematografiche che ne traggono dei film tanto istruttivi e commoventi quanto inapplicati nel concreto (vedi il trattamento dei migranti), non avrà più senso, non uno agganciato alla nostra comprensione della realtà. Il rischio è ovviamente uno e uno soltanto: se, al riparo nel tuo angolo di confort, ti scordi cosa è stato il fascismo quando era ferocemente presente, cosa ti fa pensare che un giorno non si possa ripresentare alla tua porta per ricominciare tutto da capo?

longhi nella rivoluzione

Che cosa fosse l’arte moderna, in Italia, negli anni tra il 1910 e il 1915, al tempo degli articoli di Soffici sulla Voce, lo si può riassumere in una parola che non aveva ancora tutto il suo significato e i suoi sogni: era una rivoluzione – novità, giovinezza, scandalo, liquidazione del passato, negazione e rifiuto delle tradizioni, rovesciamento dei modi abituali di pensare. Longhi era vociano, futurista, avanguardista, e aveva sposato questa rivoluzione. «Courbet e Manet sono morti nel 1877 e nel 1884: Cézanne nel 1906: Renoir e Degas vivono ancora numi solitari e scontrosi spregiati come furono apprezzati e popolari Tiziano e Michelangelo», è questo rapporto solidale, entusiastico con un’arte di cui si può ancora sentire, nell’aria, la sopravvivenza e il messaggio di novità, a portare Longhi su posizioni appassionatamente formaliste; è la rivelazione cézaniana di «traiter la nature par le cylindre, la sphere, le cône» a fargli scoprire nei quadri di Caravaggio la «diagonale del cubo» e a fargli inseguire i triangoli di Antonello e gli «specchi lacuali» di forma e colore di Piero lungo tutta la penisola fino a Ferrara e Venezia. Sotto questo aspetto, la Breve storia [della pittura italiana] è un ago indicatore, l’indice di questa fusione tra principi metodologici idealisti e lettura dell’arte moderna. A volte, questa doppia sensibilità trascina la didattica longhiana verso intuizioni che si direbbero «creative», come nell’ekfrasis dello stile di Piero: «[…] intarsio variegato di zone placide e potenti che vivono della vita pullulante atomica sostanziata della memoria pittorica. Negli accordi di colore offre le più forti e delicate contrapposizioni di valore – in cui si manifesta il vero colorismo – dove un rosa pallido e un violaceo autunnale si accostano a qualche poderoso tono compositivo di rosso e marrone o di bruno», come si vede, un quadro di Morandi; ma, nel 1914, questi Morandi non esistevano ancora. Longhi ha visto con le parole là dove sarebbe andato il pennello.

Cesare Garboli, Breve vita del giovane Longhi (Scritti servili, minimum fax, 2023)

sogno dell'albero

Era un sogno talmente alto e ramificato che più mi arrampicavo e più mi sentivo leggero e tanto più ci stavo bene quanto meno riuscivo a distinguerne, guardando in basso, il corpo che saliva e le radici e la terra.

sabato 25 novembre 2023

tempo e spazio dell'opera

Prima stavo leggendo una intervista a Riyoko Ikeda, autrice osannata di quel capolavoro manga che è Lady Oscar. L’autrice a un certo punto dice che, mentre lavorava alla trama del fumetto, che aveva uscite periodiche, e cercava di capire come chiuderlo, e se lasciare o no che Oscar si accoppiasse con qualcuno, il personaggio di André che né Oscar né la Ikeda avevano mai considerato prima, che nella storia era soltanto una spalla, prese piano piano il sopravvento e malgrado le intenzioni della Ikeda crebbe da solo, si prese uno spazio tutto suo, sempre più ampio e profondo nel suo tormentato amore non corrisposto, tanto da farsi tridimensionale e assumere il ruolo di coprotagonista, dando al finale della storia quella dimensione tragica che oggi sembra quasi necessaria, per cui uno si dice “non poteva che finire così”. In realtà non era nemmeno stato immaginato, è successo da sé strada facendo. Ecco, mentre ci pensavo ho capito che questo è ciò che fa la differenza fra un semplice scrittore umano e le AI che scrivono libri o fiction, non la capacità di scrivere delle storie bellissime o costruire un finale perfetto (credo che le AI ne siano o ne saranno perfettamente in grado), ma quel tempo particolare di elaborazione della storia (che secondo me le AI non hanno e non avranno mai come pregio e limite) in cui un personaggio reclama la sua indipendenza rispetto alle intenzioni dell’autore, assume una sua fisionomia che decide da sé, un respiro che nessuno aveva immaginato per lui, entra in quello spazio particolare in cui una scrittura smette di essere prodotto e si fa opera d’arte.

venerdì 24 novembre 2023

pubblicità

Su una cosa devo dire Beppe Grillo aveva ragione (nell'intervista con Fazio), siamo talmente mercificati che non riesci più a informarti come si deve, qualsiasi sito di informazione tu apra prima di arrivare alla notizia devi chiudere cinque o sei finestre pubblicitarie che si aprono e che sono mirate sugli algoritmi che ti "analizzano" e per cui tu dai il consenso all'uso, i famosissimi cockie. Lui parlava di Gaza, dell'immoralità di mischiare le foto dei bambini bombardati con la pubblicità con le modelle seminude in vacanza. I giornali risponderanno con ragione che devono anche campare, ma su un piano di rispetto del dolore è e resta immorale. Almeno se dobbiamo continuare a dire che il dolore si affronta col silenzio. Ma io, ad esempio, proprio adesso stavo provando a capire qualcosa degli scioperi degli impiegati di Amazon e mi sono arreso perché su qualsiasi sito andassi si aprivano di continuo finestre che mi chiedevano di comprare merce online oggi, con le super offerte del Black Friday: ordina oggi che ti arriva domani, te lo portano a casa gli stessi stronzi che proprio adesso stanno sfilando inascoltati in piazza.

il genere

Ieri leggevo Cesare Garboli che in un saggio sulla Ginzburg scrive: «Il romanzo non è forse stato inventato dall’uomo – dalla donna che è nell’uomo – per le donne?». Garboli attribuisce insomma alla forma romanzo un genere prevalentemente femminile, o comunque diretto dal maschile al femminile, e non a caso dedica la maggior parte delle sue energie critiche, su quel fronte, a Natalia Ginzburg e ad Elsa Morante, che ritiene le due massime espressioni di romanziere del Novecento italiano, mentre al contrario mi par di capire la forma poesia ha per lui un’attitudine più fortemente maschile. Mi ha fatto pensare a Nino Pedretti che nel suo dialetto romagnolo dice “i poeséi”, declinando poesie al maschile: nel suo dialetto cioè, prima che l’italiano arrivasse a livellare i generi, la poesia è di genere maschile, e chissà in quali altri paesi succede così. Tornando a Garboli, il modo in cui sente la poesia deriva, immagino, dal fatto che Garboli si è formato sull’opera di Dante, che ha connotati fortemente maschili, ma fa particolare specie quando ti accorgi che i poeti prediletti da Garboli, quelli a cui ha dato di più in termine di amore di lettore, sono Sandro Penna, poeta discretissimo che canta l’amore omoerotico per il fanciullo, e Giovanni Pascoli, poeta tragico ma così poco mascolino, così morbosamente legato alle gonne famigliari, ma che nella sua interpretazione viene liberato dall’immagine del fanciullino per entrare in uno stato di premorte, Pascoli in Garboli è un bambino nato morto e costretto a passare suo malgrado sulla Terra, un po’ come all’opposto Dante è un vivo che, ricalcando lo schema classico, viene costretto dalla vita a muoversi nell’oltretomba. Ma ancora Dante, un po’ come nell’idea di romanzo che ha Garboli, è diretto dal maschile (Virgilio) al femminile (Beatrice) per arrivare a Dio, che è l’universo e che Dante descrive, guarda caso, come un libro.

giovedì 23 novembre 2023

la corsa

Design for living (1933) di Ernst Lubitsch è un film per la sua epoca assai spregiudicato. Tratto da un'opera teatrale di Noël Coward, parla di un triangolo amoroso di tre americani a Parigi, dove una donna molto indipendente (Miriam Hopkins), non sapendo chi scegliere fra due amici che la corteggiano, uno bellissimo che fa il pittore (Gary Cooper) e l'altro brillante che scrive (Fredric March), decide di arrendersi ai sensi e di amarli entrambi. La pellicola è piena di allusioni, ma la leggenda vuole che la censura tagliò fino a 14 minuti. Vista oggi, fa ancora un certo effetto, ma viene da chiedersi come poteva essere assistervi allora. Di certo ebbe una forza dirompente sui più giovani, tanto che non è difficile accorgersi di come influenzò la Nouvelle Vogue (da Bande à part a Jules et Jim, che trenta anni dopo ebbe identici problemi di censura), a cominciare dalla citazione della scena della corsa dei tre, che nel film di Lubitsch è quasi all'inizio, in una stazione, mentre poi verrà più romanticamente ambientata al Louvre, eppure quando la vedi la riconosci subito.

il potere e la colpa

Il patriarcato, il maschilismo, il machismo, e tutto quel complesso meccanismo per cui siamo cresciuti in una società dove alcuni uomini hanno più vantaggi rispetto ad alcune donne esiste eccome, coi debiti distinguo, perché ogni vantaggio è sempre mediato dalla possibilità sociale ed economica di chi lo esercita: una donna ricca ha sempre più vantaggi di un uomo povero, una donna nata a Milano ne ha più di un uomo nato in Calabria, una donna nata in una famiglia colta ha molti più vantaggi di un uomo con la terza media, una donna che lavora come manager in un’azienda ne ha di più di un uomo che lavora in fabbrica, una madre coinvolta in una separazione ha sempre qualche vantaggio in più del padre. Ma nella maggior parte dei casi quel vantaggio esiste e chi lo nega sa di sminuire la realtà. Certo la realtà sta cambiando, ai tempi dei miei nonni, visto che parlano tutti del patriarcato dei nonni, mia nonna avrebbe trovato aberrante che una donna si rivoltasse contro il “proprio” uomo. Era la sua cultura quella, una cultura profondamente rurale, contadina e cristiana, e noi ora possiamo dire che era una cultura sbagliata e che mia nonna era una vittima, o una complice, del patriarcato perché non capiva come stavano i macrosistemi sociali ed economici che muovono il mondo, ma non possiamo dire che mia nonna e la sua cultura non vadano rispettati, altrimenti facciamo come gli americani che vanno ad invadere gli altri paesi per esportare il loro modello di democrazia. Del resto, come diceva il mio amico Nannino il brasiliano, noi siamo tutti “americanizzati”, anche chi adesso odia l’America. Noi la pensiamo diversamente dai nostri nonni, in tutto, e io stesso sono pieno di colpe per come ho gestito male molte relazioni, ma è un fatto mio, relativo al mio vissuto e non certo a quello degli altri, e il primo responsabile dei miei errori sono io stesso. Ancora, dati alla mano, anche se la percezione è diversa, l’Italia è uno dei paesi con meno femminicidi nel mondo. Vai in un qualsiasi paese dell’est Europa (Lettonia in testa, dove i dati vengono quasi decuplicati), o vai in medio oriente (Afghanistan, Iran, ecc.), o in Africa (dove in alcune zone si pratica ancora l’infibulazione), fai un confronto con quei paesi e allora ti accorgi che nemmeno le donne sono tutte uguali, parlando di potere, che alcune donne per il solo fatto di essere nate in determinati paesi hanno più vantaggi di altre, e per il solo fatto di vivere qui, di sfruttare economicamente questo potere, sono, volenti o no, colpevoli verso di loro. E servirebbe una presa di coscienza globale, lì dove non riusciamo a metterci d’accordo nemmeno su problemi relativi alla sopravvivenza della specie, come i problemi ambientali, che ci sono allo stesso modo, e chi lo nega sminuisce, ancora una volta, la realtà. Una donna può anche dirmi, adesso, che faccio del benaltrismo, che non si sta parlando di cosa succede in Medioriente o al clima, che si vuole un cambiamento, o meglio ancora una presa di coscienza qui e ora, ma chiedere una presa di coscienza istantanea, un cambiamento culturale in mezza giornata è già il frutto di una visione della vita che è tutta occidentale, consumistica, dove non c’è tempo da perdere, dove basta cliccare un tasto sul telefono per ottenere ciò che vuoi in 24/48 ore da qualsiasi angolo del mondo. Altro che educazione, che invece è un processo che richiede anni! Ci neghiamo il tempo di imparare, di crescere come si deve, poi pretendiamo che tutti imparino ad ascoltare se stessi da un giorno all’altro. Come fare meditazione zen coi corsi scaricati da YouTube. Ma processi come questo, in cui un sistema sociale, culturale, viene sostituito da un altro, sono lunghi, durano decenni, secoli a volte (vedi la Chiesa che sono due secoli che sta morendo e ancora resiste), ci superano, e il fatto che siamo qui a parlarne non significa che stiamo eroicamente attivando l’inizio di un movimento nuovo, significa solo che molto tempo fa questo cambiamento ha cominciato ad attecchire grazie al lavoro di altri e adesso noi che ci siamo dentro, anche inconsapevolmente, partecipiamo al flusso del cambiamento, ne godiamo in parte i risultati, perché fossimo nati altrove ci avrebbero probabilmente messi in prigione, o impiccati in piazza. E anche per questo dobbiamo dare a tutti il tempo di arrivarci con le proprie gambe, perché se no facciamo come gli americani in Afghanistan, che quando sono andati via è stato come tornare indietro di vent’anni. Io almeno, da “americanizzato”, mi sento molto in colpa per l’Afghanistan, come se fosse anche colpa mia. Ecco, questo direbbe lo storico che c’è in me, se facessi ancora lo storico, o meglio se avessi avuto maggiori vantaggi per potermi infilare in qualche università a leccar culi dei magnifici rettori. Cosa di cui non avevo proprio voglia e non ho fatto.

mercoledì 22 novembre 2023

dimenticanza

Autrice che mi aveva contattato nel 2018 per chiedermi se poteva mandarmi una sua proposta editoriale, io le risposi certo mandi pure, poi non mi è arrivato più nulla. Fino a oggi. – Sono passati cinque anni, le dico. – Eh mi scusi, dottore, ma con tutto quello che mi è successo nel frattempo mi ero proprio dimenticata di lei.

ritardo

Parlo per me, ma la cosa davvero irritante della storia di Lollobrigida che ferma il treno in ritardo e scende, a parte l'invidia che provo per lui perché lui può, io no, ma se potessi lo farei anch’io, che spesso viaggio in treno e so cos’è un ritardo, ma a me non è concesso, a parte questo, a parte la mia invidia da povero mortale, la cosa veramente irritante per me è che l’unica discussione politica a cui ha portato quelli che dovrebbero parlarne è stato chiedere le sue dimissioni, che non ci saranno, figurati se ci saranno, e invece poteva essere una buona occasione per parlare di come migliorare il servizio pubblico, giacché come hanno costatato con mano, stavolta, non solo il servizio pubblico funziona male e i treni sono in ritardo nonostante quelli al governo, ma il treno è in ritardo addirittura con loro sopra, che in fondo sono poveri mortali proprio come noi quando gli togli la divisa del potere e li metti su un treno, l'unica differenza fra noi e loro e che loro se hanno voglia di scendere possono farlo a comando e noi no, non solo, loro hanno addirittura l'auto blu ad aspettarli, che è pagata da noi, mentre noi certe volte non ci aspetta nessuno, nemmeno se arriviamo in stazione.

guardarsi dentro

Parlando di persone, che mi spiace dirlo ma non cambiano facendo un semplice esame di coscienza, io credo sinceramente che se molti uomini e donne cominciassero sul serio a guardarsi dentro, come da più parti si chiede in questi giorni, se anche cercassero con tutto se stessi, anche andando molto a fondo nell’anima, non troverebbero niente di niente, né l’ago né il pagliaio, né il sale né la zucca, non un verso che gli è rimasto nel cuore. Sono quelli che oggi chiamano analfabeti funzionali o emotivi, ma ieri erano semplicemente analfabeti, respirano come le mucche al pascolo e vanno avanti sulla terra per pura forza muscolare, senza fantasia, senza sapere perché ci stanno e senza nemmeno chiedersi il perché di nulla. Seguono il movimento del sole. Sono quelli che una volta risolvevano tutto dicendo che il buon Dio vuole questo, o il re lo vuole, o il Duce lo vuole, o lo vuole la Patria, il Vate, il Partito, il prete, il dottore, la mamma, la pubblicità! Adesso che quel tempo è finito e non trovano più manco quelle voci che riecheggiano in loro per dargli un minimo di direzione, stanno lì come le mucche al pascolo, sentendosi sperse come la mandria senza il pastore, perché senza di lui non sanno nemmeno come si torna a casa. Nemmeno usando il navigatore sui loro telefoni. E infatti, adesso come allora, il primo che verrà spacciandosi per quello le prenderà e le porterà al macello.

martedì 21 novembre 2023

i sogni degli altri

“Einaudi – scrive Pavese a Lalla Romano l’11 marzo 1948 – è irremovibile sulle poesie”. Ecco che Lalla Romano, pittrice quarantacinquenne in cui la passione per la pittura si è raffreddata a contatto con la mondanità di quel mondo, propone a Einaudi per aggirare la sua avversione per le poesie un suo libro di “poesie non in versi” e, con ancora più audacia, un libro in cui si raccontano dei sogni. A chi interessano i sogni degli altri? Ma i sogni sono soltanto un pretesto per la scrittura che vive sempre in se stessa. Il libro, ironico e delicato, comincia così: “La solitudine dell’adolescente è raffigurata nelle civiltà arcaiche come un soggiorno nel paese dei morti”. E anche per questo, credo, piace moltissimo a Pavese e persino a Vittorini che lo fa uscire come primo numero della sua collana I gettoni (la stessa in cui debutteranno poi Fenoglio e Sciascia con due libri di racconti), ma viene meno apprezzato dagli altri, e Le metamorfosi non ha successo perché non viene capito, viene preso come un divertissement invece che un’opera a suo modo innovativa per stile e significato. A tal punto originale che fu un unicum anche nella produzione della stessa Romano. Io personalmente ho sempre pensato che il libro, una raccolta di racconti surreali brevissimi, abbia in qualche modo influenzato la Centuria di Manganelli, che ne replica la misura e il respiro oltre che lo spirito. Dopo di loro l’unico altro che mi viene in mente ad aver realizzato un’opera simile è il tardo Tiziano Rossi (in particolare quello di Spigoli del sonno), quando il poeta trova una sua seconda e vigorosa giovinezza, a settant’anni suonati, e abbandona il verso per cimentarsi coi suoi stralunati quadretti in prosa. Io almeno ci sono arrivato seguendo questo percorso a ritroso, da Rossi a Manganelli e da Manganelli a Romano per ritrovarmi qui, alla stessa età in cui la Romano abbandonava la pittura per la poesia e la poesia per la prosa, a fare gli stessi sogni che faceva lei mentre era alla ricerca di una nuova direzione, ma non nella speranza che fossero quelli a mostrarle dove stava andando, quanto come testimonianza che nella sua visione della vita tutto, persino quel groviglio di immagini, aveva senso. Perché anche se non si avverano così come li hai immaginati durante il sonno e se dopo non hanno nulla da insegnarti e da insegnare, perché i sogni hanno questa meravigliosa libertà di essere amorali, nell’attimo stesso in cui li racconti, i sogni esistono, con o senza di te. Quelli con le zampe più forti ti lasciano indietro.

una cosa che mi fa star bene

Bruciare le sterpaglie dietro casa prima che si guasti il tempo e avvolgersi nel fumo quando gira il vento, poi tornare in casa e premere la barba contro il naso per sentire come sa di fumo e cenere.

giovedì 16 novembre 2023

esperienza inutile

Oggi pensavo che ci sono voluti due anni di lockdown, la morte di non so più quanti amici, l’assistere allo scoppio di due guerre per quanto lontane, l’immersione nel mondo della malattia fra medici e ospedali allo sbando, la morte di mio padre, per ritrovarmi qui a vivere esattamente la stessa vita che avevo quattro anni fa, sommerso dagli impegni e dalle consegne, né più ricco né più saggio, ma anzi più stanco, più solo, e con meno pazienza e prospettive davanti a me. Nessuna speranza nel futuro. L’esperienza, insomma, non mi ha dato nulla, o più semplicemente gli ultimi quattro anni sono stati, almeno per me, un’esperienza inutile.

critica e dialetto in poesia

Poco fa mi è tornato in mente Tommaso Di Dio che nella sua nuova antologia della poesia italiana contemporanea non inserisce nemmeno un dialettale, giustificandosi dicendo che avrebbero preso troppo spazio nel piano dell’opera – ma se ne puoi fare a meno vuol dire che li ritieni comunque accessori, inessenziali al discorso – mentre rileggevo uno studio (di Daniele Maria Pegorari) sulle varie storie della letteratura italiana del ‘900 in cui si annotava che alcuni fra i più strenui oppositori della stessa poesia dialettale sono proprio i poeti, ancora meglio se di una certa sinistra storica. La diatriba, insomma, è vecchia. Sanguineti, ad esempio, li ignorava tutti in toto, considerandoli nel quadro sperimentale della nuova poesia italiana che auspicava, portatori di un retaggio ideologico passatista e al massimo interessante sul piano antropologico; così Fortini, che addirittura per i dialettali provava quasi un’avversione viscerale (scrivere in dialetto era come votare per la Lega, scriveva nei primi anni ’90). In particolare sono gustose alcune sue impressioni critiche sui dialettali, che sembrano particolarmente calzanti a contestare in particolar modo le scelte estetiche dell’amico-nemico Pasolini, che manco a dirlo è stato il primo a fare una vera e propria ricognizione della poesia dialettale in Italia, regione per regione, oltre a essere egli stesso poeta in friulano. Così Fortini nei suoi scritti paragona l’atto del poeta dialettale a un “rifiuto alla partecipazione politica”, dove il poeta che ricorre a una lingua che non è più parlata “si esclude dalla comunicazione e dalla stessa modernità”, svuotando la sua scrittura del principio di realtà e rifugiandosi così in un “antagonismo neo-decadente”, del tutto inattuale in “un sistema più simile a quello dell’età barocca” per via della convivenza pressoché pacifica di convenzione e anticonformismo. Scrivere in dialetto equivarrebbe, allora, a una sorta di “suicidio culturale” dell'autore o, per restare nello stesso ambito metaforico funebre, “una comunicazione cum mortuis in lingua mortua”. E qui davvero non si capisce più a chi sta parlando, se a uno solo in particolare, o se ai molti che gli sono seguiti.

seduzione

Alcuni artisti, in genere i più indipendenti – quelli che oggi vengono definiti geni ribelli – alle prese con Hollywood ebbero più problemi che gratificazioni. Charlie Chaplin, ad esempio, venne cacciato dall’America per la sua vita scandalosa, e ancora di più Orson Welles o Erich Von Stroheim che nella terra della libertà finirono esattamente come Eisenstein sotto Stalin, incompresi, e per questo temuti, ostacolati e censurati a vita con la scusa che erano “inaffidabili”. Ma problemi ebbero anche tutti coloro che sulle prime erano stati accolti a braccia aperte. Per Fritz Lang l’America cominciò come una lunga vacanza e si chiuse nel disgusto per Hollywood. Jean Renoir, meno cinico e assai più poetico, quel disgusto lo avvertì da subito e non riuscì mai ad adeguarsi al sistema, fu anzi uno dei pochi a scappare da quella gabbia di matti, rimpatriando subito dopo la guerra. Mentre Murnau faceva di necessità virtù e compensava malumori artistici e cattiva fama personale con la frequentazione di bei ragazzi disponibili. L’unico regista europeo emigrato a Hollywood che in America si sentì liberato fu Ernst Lubitsch a cui tutta quell’ipocrisia americana piaceva da matti. Ci sguazzava dentro come un maiale nel fango, e infatti il decantato “Lubitsch touch”, come lo definivano i suoi ammiratori, Billy Wilder in testa, altro non era che l’insieme degli espedienti visivi e narrativi studiati da Lubitsch per aggirare la ferrea censura americana. E il più delle volte ci riusciva perché Lubitsch non solo era un genio, ma ci si divertiva. Tutto quel divertimento si avverte e rende le sue pellicole ancora deliziose. La cosa più bella, però, è stata scoprire come il primo film perfettamente compiuto da Lubitsch in America – e non scordiamo che L. era arrivato dall’Europa con la fama di regista di drammoni storici – il primo film realizzato nel nuovo stile “americano” in cui poi eccelse, quel tipo di commedia romantica, brillantissima, leggera, ma non frivola, sensuale, allusiva e agile, perfettamente caricata come un orologio austriaco, sia The Marriage Circle, film ancora muto che parla di seduzione, di desiderio come vero motore della vita, di scambi di coppia e di corna senza pentimento, e tutto questo nel 1924; la cosa più bella è stata scoprire come tale opera, e tutta la rivoluzione stilistica che si porta dietro, sia stata ispirata, o meglio ancora stimolata, dalla visione di A Woman of Paris di Charlie Chaplin, primo film drammatico, e delicatissimo, del regista inglese che nel 1923 sfidò il pubblico americano a seguirlo in una storia matura, senza il vagabondo e senza nemmeno un vero e proprio lieto fine. Infatti al pubblico non piacque e non lo premiò, ma la visione di quel film motivò l’arte di Lubitsch a fare un salto di stile. Perché una volta i film, e tutte le opere d’arte, avevano questo potere, almeno una volta ce lo avevano.

martedì 14 novembre 2023

lo spettatore

Il fatto che ogni sera, intorno alle 20.30, mi prende una sorta di gioia, di smania irrefrenabile per il solo fatto che posso finalmente chiudere con questo simulacro di lavoro che è leggere i libri degli altri, per dedicarmi a quella che al momento è la mia attività preferita, ovvero guardare film così vecchi che non avevano nemmeno il sonoro, mi fa spesso domandare perché nella vita ho scelto di fare l’editore quando la mia vera attitudine è quella di osservatore di cadaveri. In quello non credo di avere molti rivali al mondo, per me più sono morti, e muti, più sono interessanti.

a cosa serve la critica?

L’artista rimprovera innanzitutto alla critica di non poter insegnare nulla al [pubblico] borghese, che non vuole né dipingere né fare rime – né all’arte, visto che è proprio dalle sue viscere che la critica è nata.
Eppure, tanti artisti del nostro tempo devono a essa soltanto la loro povera reputazione! Questo è forse il vero rimprovero da rivolgerle.
[…] Credo sinceramente che la critica migliore sia quella divertente e poetica; non quella fredda e algebrica che, con il pretesto di spiegare tutto, non ha né odio né amore, e si spoglia deliberatamente di qualsiasi tipo di temperamento; ma – essendo un bel quadro la natura riflessa da un artista – quella che sarà questo quadro riflesso da una mente intelligente e sensibile. Così il miglior resoconto di un dipinto può essere un sonetto o un'elegia.
Ma questo tipo di critica è per le raccolte di poesia e per i lettori di poesia. Per quanto riguarda la critica vera e propria, spero che i filosofi capiscano quello che sto per dire: per essere giusta, cioè per avere la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, cioè fatta da un punto di vista esclusivo, ma da un punto di vista che apra più orizzonti. 

Charles Baudelaire, da Salon del 1846

domenica 12 novembre 2023

sogno degli occhiali

Stanotte ho sognato di essere con Nadia Terranova e Carlo Bordini in una stanza. Nadia parlava del suo prossimo romanzo sulla fine del mondo dopo il terremoto che distruggerà ogni cosa – l’aveva letto nei tarocchi – e da cui verranno fuori soltanto un nuovo medioevo e nuovi santi e barbari fra le macerie del mondo da ricostruire. Bordini allora diceva che bisognava portarsi avanti col lavoro e tirava fuori da un cassetto del settimino una sua foto di lui bambino col fratello – che era in effetti mio fratello – e prendeva un paio di forbici per tagliarla e regalarmene un pezzetto come reliquia. Io gli dicevo che era peccato rovinare una foto di famiglia ed era meglio farne una nuova tutti insieme, da bravi compagni. Bordini si metteva in posa con me e Nadia contro il muro, ma non appena si accendevano le luci dei fotografi mi diceva: Ah, ma qui più che di santi mi pare che si tratta di fare gli attori a Cinecittà. Allora tirava fuori dalla tasca i suoi occhiali da sole e li indossava con una certa disinvoltura, per dare soddisfazione al popolo.

sabato 11 novembre 2023

questioni

Approfitto del sabato per fare un post lungo che probabilmente non verrà letto e faccio alcune considerazioni editoriali partendo dai due titoli di Pietre Vive che stanno vendendo di più in questa seconda metà dell’anno. I due libri sono “Voce del verso animale” di Massimo D’Arcangelo e Teodora Mastrototaro illustrato da Revers Lab, uscito a giugno, e “Salvare il necessario” di Clery Celeste, uscito appena un mese fa. Vendono continuamente e, cosa per me nuova, vendono moltissimo su Amazon. Questo mi porta a rimuginare da alcuni giorni su diverse questioni. 
Primo: quando dicono che spesso il libro non vende perché l’editore non si impegna per promuoverlo o manca la giusta distribuzione può essere vero, ma non sempre, ad esempio entrambi i titoli sono usciti a ridosso di un periodo per me molto difficile sul piano personale, quando non ho potuto seguirli come avrei voluto, ma le vendite in sé dimostrano che non sono loro che hanno bisogno del mio lavoro, casomai sono io che ho sempre più bisogno, per il mio lavoro, di titoli così, che vendono a prescindere. 
Secondo: tali vendite non vengono influenzate dalle recensioni – per le quali spesso si devono investire giornate fra chiamate, email, ammiccamenti, favori, richieste di spazio, spedizioni in PDF o in copie omaggio. Le recensioni, qualsiasi libraio lo sa bene, servono a poco o nulla per vendere i libri, si fanno e si dovrebbero fare per una circolazione delle idee, per fare bibliografia, per far conoscere un autore in cui si crede, ma non mi è mai capitato di vendere un libro subito dopo l’uscita di una bella recensione, mentre di recente mi capita spesso di ricevere degli ordini dopo una bella foto o una storia su IG. 
Terzo: questi due titoli vendono, a mio parere, indipendentemente dalla poesia, dal fatto cioè che sono scritti in versi. Sono ottimi versi, ma i versi sono il mezzo, non il fine dell’acquisto: i libri potrebbero contenere lavori di tutt’altro genere e venderebbero ugualmente perché nella maggior parte dei casi chi li acquista non lo fa per il godimento estetico, che pure c’è (ma è un surplus), ma per affiliazione a una causa o a una persona: “Voce del verso animale” vende prevalentemente per il messaggio antispecista che lancia ed è acquistato da una comunità di persone che fa rete per quello; e così credo sia in parte anche per Clery, che come mi dice un amico che la segue è una vera e propria influencer, ma non per le poesie, per il suo lavoro con le Rune. In questo caso c’è “anche” un pubblico di lettori di versi che si aggiunge al primo, perché Clery è effettivamente un’autrice di talento, ma non sono così pronto a scommettere che il secondo pubblico prevalga numericamente sul primo. Anzi, sono più propenso a scommettere che se Clery promuovesse un manuale sulle Rune venderebbe ancora di più, mentre se Clery vendesse soltanto i suoi versi in quanto semplice poetessa, non venderebbe con lo stesso ritmo. E mi chiedo: quanti fra coloro che scrivono versi oggi sono pronti a scommettere di vendere – se vendono – i propri libri unicamente per la qualità della loro scrittura e non per motivi obliqui alla stessa? 
Quarto: tutto ciò avviene, per me, nel paradosso di Amazon, che sta diventando il metodo più diffuso per l’acquisto e mi mette in contraddizione coi miei principi. Perché Amazon (che paga regolarmente ed è una buona alternativa a scomparire divorati dai distributori) è realmente l’incarnazione di un sistema di sfruttamento globale che tende alla disumanizzazione dei suoi impiegati: non lo dico io, basta un qualsiasi reportage per informarsi. È tutto ciò in cui io non credo dal profondo. Eppure è su Amazon che si vende di più, sempre di più, e questo persino in conflitto di ideali: ad esempio, mi capita di spedire copie di “Voce del verso animale” a vegani che rifiutano categoricamente il consumo di carne e poi acquistano attraverso Amazon che basa i suoi ritmi di consumo, e di risparmio, sul perfezionamento scientifico della catena di montaggio (che è la stessa filosofia alla base degli allevamenti intensivi). È una cosa che mi lascia perplesso, ma che non posso combattere, e visto che non posso combatterla mi ci sto bene o male adeguando. Va aggiunto però a onor del vero, e perché non tutto è sempre nero o grigio, che quest’ultimo libro ha favorito una raccolta fondi, tutta basata sul passaparola, per un santuario (Ippoasi) e questa è una cosa bella, luminosa, che mi riempie di orgoglio e mi ripaga in parte dei mille dubbi che circondano ogni giorno il mio mestiere.

giovedì 9 novembre 2023

milano

Ho appena letto che a Milano si concentra il 10% della spesa nazionale per l'acquisto di libri nelle librerie fisiche e online, e nei supermarket (equiparati), che è come dire, da un altro punto di vista, che il 10% della spazzatura editoriale che si fa in Italia nasce e rimane a Milano. Da un certo punto di vista è consolatorio.

gaber e noi

Ieri sera con un paio di amici siamo andati a vedere il nuovo docufilm su Gaber uscito quasi a ridosso di quello del sodale Jannacci. A parte i suoi punti di forza (Gaber in se stesso, basta e avanza) e di debolezza (troppo lungo, troppi ospiti, alcuni dei quali non si capisce che ci stanno a fare) tipici di ogni docufilm, le due cose che più mi hanno lasciato stupito/perplesso sono state: 1) i più giovani in sala, ieri, eravamo proprio io e i miei amici, età media fra i 45 e i 50. È un caso, mi sono chiesto, o è la norma? Gaber interessa ancora alle generazioni più giovani della mia, che non hanno ancora avuto il tempo di perdere niente. E se interessa, che cosa gli sta dicendo, visto che praticamente non sanno nulla degli argomenti di cui parla lui specie nella fase più bella della sua carriera, quella del teatro-canzone: a scuola di quegli anni non si parla, e dopo, chi può si informerà da solo, e chi non può ciaone al ‘900 e agli anni di piombo; 2) il finale del docufilm vede tutti gli intervistati riunirsi a teatro per vedere uno spettacolo dove a esibirsi è proprio Gaber, in un montaggio posticcio che mischia un suo vecchio filmato e loro visti oggi, i suoi amici e famigliari invecchiati, alcuni più vecchi di lui, sua figlia che ormai gli è coetanea. A parte l’inutilità della scena, con tanto di lacrime finte, mi è sembrata una trovata talmente in sintonia con quello che hanno fatto i Beatles nell’ultimo video che ho cominciato a pensare che stia diventando una moda questa di non riuscire a seppellire i morti, a fare i conti con loro non attraverso la distanza del tempo, ma in questa continua finzione di un presente che assorbe e livella ogni cosa, ma non come diceva Totò sul piano della morte, invece all’opposto sul piano della vita che deve assolutamente continuare e dove se non muoiono loro forse non moriremo neanche noi. Un finale così posticcio Gaber l’avrebbe odiato, credo.

mercoledì 8 novembre 2023

discorso del giardiniere

Tra le rose è spuntato un vagabondo
col corpo rigonfio e le gambette magre.
Le lumache lo adorano. Vicino a lui
persino le gramigne si sentono a casa. Quando piove
ripara i suoi amici col suo manto nero
e dopo la pioggia distende le sue antenne color miele
a cercare il contatto coi bombi. Senza dubbio
arricchisce la tavolozza del verde. Dovrei
estirparlo? Se aumenterà il suo seguito
dovrò intervenire. Per ora lo lascio crescere
in pace, perché anch’esso porta con orgoglio
un nome latino, anche se non si addice
alle rose.

MICHAEL KRÜGER (Residenz Verlag, 1998)

cartella X

 La gente non mi crede quando dico loro che ho un'intera cartella sul mio PC, la cartella delle bolle X, che è piena di bolle di spedizione di libri che si sono persi nel nulla, fra librerie che non rispondono al telefono o alle mail, o sono chiuse nel frattempo, quelle per cui hai perso le speranze, altre di cui mi sono scordato io (perché magari hanno preso 3 copie di un titolo l'anno passato per una presentazione e dopo non vale più la pena inseguirli), altre che non ti hanno mai pagato o rendicontato una vendita, altre che non hanno venduto una sola copia ma ti dicono che se rivuoi i libri indietro il corriere per la spedizione lo paghi tu (nemmeno ti avessero fatto un favore a prendere i tuoi libri gratuitamente in negozio). Sono tutti libri che bene o male circolano (altro che: i libri dei piccoli editori non circolano! circolano eccome, solo non producono denaro!), ma circolano sempre a mio discapito, visto che sono libri su cui ho investito io tempo e denaro ma da cui non mi tornerà indietro mai nulla, nemmeno il piacere di sapere se dove sono finiti sono piaciuti; al massimo mi beccherò il rimprovero di qualche autore che vuole sapere quante copie sono state vendute del suo libro e io posso sempre andare avanti per approssimazioni e stime noiossissime. Sono i miei libri fantasma, insomma, quelli per cui davvero non vale la pena di vivere, se si fa un discorso puramente economico, forse un po' se si fa un discorso artistico, ma il discorso artistico in questo caso compete sempre agli autori, perché il libro alla fine è LORO. Dei piccoli editori che li hanno pubblicati in genere nei libri di storia resta sempre un ritratto un po' folcloristico, come se vivessero sulle nuvole, o macchiette un po' folli, o fissati, o militanti dal piglio ferreo di chi ha visto la Luce, al massimo della fortuna c'è un Gobetti che lo prendono a bastonate le camicie nere. Di quelli che come me vivono di continuo nel dubbio di non essere abbastanza bravo, e col mal di stomaco di aver sbagliato tutto, non si parla quasi mai.

martedì 7 novembre 2023

lo scrittore-lettore

Esistono, secondo me, gli scrittori-scrittori e gli scrittori-lettori. Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo. […] Non è detto che gli scrittori-lettori siano proprio coloro che conoscono il piacere della lettura. Al contrario. Leggere è sentirsi posseduti; essere assaliti da un raptus e invasi da un dèmone, al punto che a volte penso che ficcare il naso in un libro sia un’operazione contro natura, nei limiti in cui al Leopardi estremo sembrava contro natura non dico l’intelligenza, ma il pensiero. Il mio istinto è di liberarmi dal dèmone, non di corteggiarlo; e questa liberazione prende forma, malgré moi, di scrittura. Potrei dire che conosco più il bisogno che non la gioia o il desiderio di scrivere. […] Oltre che scrittore-lettore, mi sento scrittore-editore. Ci sono molti editori (e la nostra lingua ne annovera a fiumi) che finiscono, prima o poi, per diventare scrittori, mentre a me succede il contrario (non so scrivere senza inseguire una professione, o una vocazione, fallita).
 
CESARE GARBOLI, Scritti Servili (Minimum Fax, 2023)

sulla bilacia

Anche io sono convinto, come tutti, che viviamo in un periodo di continua propaganda, spesso giornalistica, che ci bombarda dalla mattina alla sera con notizie interessate a descriverci una realtà manichea dove noi si sta sempre dalla parte dei buoni. Però, devo anche dire, non sempre il modo in cui esprimiamo il nostro dissenso critico è più limpido, e meno interessato, del modo in cui si fanno infinocchiare gli altri. Ad esempio, a parità di bombardamento mediatico sui fatti di guerra di questi giorni a Gaza, se messi a confronto con quelli dell’anno passato in Ucraina, io ancora non ho letto un giudizio dissidente che si lamenta – come invece facevano di continuo l’anno scorso – che quando si parla, su tutti i canali televisivi e social, o pro o contro, di quell’orribile e ingiustificato attacco, ci si scorda degli altri 59 o 60 conflitti in corso nel mondo, molti dei quali in Africa. Io questo rimprovero che facevano tutti: “perché non parlate delle altre guerre del mondo?” oggi non lo sento più dire da nessuno, né da una parte né dall’altra della barricata, e mentre i Tg rilanciano la palla più fiaccamente sul conflitto in Ucraina, dell’Afghanistan, ad esempio, che era il caso precedente non ne parla più nessuno in assoluto. Che non significa che minimizzo lo schifo che mi fanno i fatti in corso, significa che (almeno per ciò che vedo) per alcuni un morto nel conflitto in Sudan acquista più o meno rilevanza umana, o peggio ancora statistica, se messo sulla bilancia a confronto del conflitto che gli sta più o meno a cuore, o che intende contestare, e questo mi pare non sia tanto giusto, né alla fine un discorso più pulito di tanti altri.

sogno della scala

In un sogno ricorrente delle ultime settimane, sto salendo con un gruppo di persone – le quali stanno parlando, con una certa frivolezza, di una donna bellissima e assai attraente che si è fidanzata con un cretino – su per una lunga e scricchiolante scalinata in legno, che sale a spirale verso la cima di un palazzo antico, e che, man mano che si sale, si stringe sempre più su se stessa fino a chiudersi poco prima del pianerottolo in cima. Lo possiamo osservare, oltre la tromba delle scale, attraverso la balaustra pericolante. L’unica maniera per passare oltre è scavalcare la balaustra, che sembra pronta a schiodarsi e cedere al primo soffio, e aggrappandosi a quella saltare nel vuoto, verso il piano dall’altra parte. Io non mi fido di me stesso, né del fatto che la balaustra possa reggermi per quei pochi secondi necessari a darmi la spinta necessaria per il balzo, e sono quasi pronto a tornare di sotto. Ma uno dei miei compagni non ci pensa due volte, sfonda la balaustra con un calcio facendone precipitare i pezzi in basso e subito dopo spicca il salto. Ma io non vedo come va a finire – se atterra al sicuro sul pianerottolo o precipita di sotto – perché è tale la mia paura, anche per lui e per tutti gli altri, che chiudo gli occhi e le orecchie fino a sentirmi cieco.

domenica 5 novembre 2023

rimbaud in africa

Come tutta la sua vita da poeta è particolarmente avvincente, è sorprendente e a suo modo ironica, o ridicola, la vicenda africana di Rimbaud, che potrebbe tranquillamente finire – com’è in effetti successo, credo – come avventuriero senza scrupoli in una storia di Corto Maltese. Rimbaud arriva ad Aden in puro stile caravaggesco: a Cipro ha ucciso un uomo per futili motivi, un povero operaio con cui aveva avuto una lite e accecato dalla rabbia gli ha spaccato la testa con una pietra, quindi scappa per evitare il carcere. Riparato lì si impiega in una ditta di commercio con l’idea di fermarsi un po’ di tempo, ma non certo 11 anni. Viene considerato un impiegato modello, affidabile e intelligente, eppure nelle lettere alla madre ultracattolica (da cui era scappato da ragazzo) non fa che lamentarsi di tutto e tutti, del clima, dei colleghi, dei capi, le chiede soldi per avviare assurdi progetti che in breve tempo lo faranno diventare ricco, così potrà presto sposarsi, far figli e formare una vera famiglia, non come suo fratello che conduce vita dissipata e di cui non perde occasione per parlar male: in queste lettere assomiglia, insomma, a un personaggio di Alberto Sordi. Tanto la sogna la famiglia che alla prima occasione molla la compagnia in cui è impiegato e si mette in commerci lucrosi come mercante d’armi con gli eserciti africani che preparano varie guerriglie. Lo fregano tutti, ma in questo modo ha l’occasione di essere uno dei primi europei a entrare in territori africani inesplorati, descritti in un paio di guide che non c’entrano nulla con la poesia ma favoriscono la geografia. Anche qui le opinioni su di lui divergono comicamente: per il consolato italiano è un pericoloso agente segreto francese e allo stesso tempo un efferato mercante di schiavi; per i mercanti inglesi è un imbroglione insolente e bugiardo, molesto e senza scrupoli: a un certo punto viene rimproverato perché sta provando a smerciare con insistenza un lotto di block notes che nessuno vuole, perché lo sanno tutti che gli africani sono analfabeti; per i francesi è ufficialmente un disertore (era arrivato a Cipro proprio per evitare il servizio di leva) e un voltagabbana la cui parola vale poco o nulla, salvo che probabilmente lavorava davvero come spia e agente segreto. L’unico punto su cui convergono tutti è quando lo descrivono come un tirchio della peggior specie, uno che non mangia e non si lava per risparmiare, non va nemmeno a puttane o nei casinò per non buttar soldi, ha un solo vestito che usa con qualsiasi clima, quando può dorme per strada per non pagare una camera, e non perde occasione di litigare per ricontrattare a suo vantaggio i compensi pattuiti. Il denaro, il desiderio di farlo e la paura di perderlo lo ossessionano per tutti i suoi anni africani. E proprio per questo, non fidandosi assolutamente di nessuno, porta legata addosso una cintura piena d’oro da cui non si separa mai, tutta la sua ricchezza che non usa, preferendo fare vita da pezzente, e qui siamo dalle parti di Molière: la cintura, infatti, pesa una decina di chili. Portarsi dieci chili d’oro addosso ogni singolo giorno per più di dieci anni in Africa. Ve lo immaginate? Allo stesso tempo questo ex poeta così ridicolo, malinconico, amareggiato e pieno di lamentele e di rimpianti, è anche, realmente, un avventuriero senza paura. Quando si ammala alla gamba, malattia che lo porterà presto alla morte, costruisce una lettiga su cui si lascia cadere e ingaggia quattro portantini neri per trasportarlo, con un dolore lancinante al ginocchio che non lo abbandona mai, per 300 km attraverso il deserto fino al porto più vicino da cui salpare per la Francia. Durante la traversata uno dei portantini esausto inciampa e lo fanno cadere per terra. Rimbaud, nonostante abbia la gamba già quasi in cancrena, la usa come scusa per trattenere una parte dei soldi dal compenso promesso.

risolvere il problema alla radice

Chissà perché, mi chiedevo oggi guardando il Tg, quando un cretino di ultradestra vuole risolvere un problema alla radice o dare una prova di forza muscolare quanto inutile, la prima cosa che gli viene in mente di dire è "mo lanciamo una bomba nucleare", gonfiando il petto come un tacchino. Non si capisce più se è coglionaggine del singolo individuo o cultura del pisello duro multifunzionale, visto che queste persone devono di sicuro essere convinte che il loro pisello abbia anche un aspirapolvere incorporato, perché lo sanno tutti che se lanci una bomba nucleare poi di polvere e macerie ne fai un sacco, e qualcuno la dovrà anche pulire un giorno quella polvere, decontaminare, altrimenti non serve più a nessuno: vedi quei poveracci in divisa che si sono avvelenati l'anno scorso a Chernobyl e fatti venire tutti un tumore perché nessuno ha spiegato loro che se un terreno è contaminato dalle radiazioni dopo non può andarci a vivere più nessuno, che sia israeliano o russo, o arabo o americano o coreano o qualsiasi altra razza ti venga in mente di dire: si ammalano tutti allo stesso modo in quanto umani. Di fatto, io a una donna, persino di ultradestra, "mo lanciamo una bomba nucleare e risolviamo il problema alla radice" non l'ho mai sentito dire.

a ciascuno il suo

A ciascuno il suo catcalling. A me ad esempio stamattina uno passando in auto mi ha gridato: "Tagghjete chera varve, mucetone purke!"

sabato 4 novembre 2023

sumurun

Sumurun (1920) è l’ultimo film a cui Ernst Lubitsch partecipa in qualità di attore (oltre che di regista). Vi interpreta il ruolo assai patetico di un clown gobbo, tradito e deriso dalla donna che ama (una Pola Negri talmente seducente da imporre alla pellicola il divieto di visione ai minorenni), che lo lascerà per vendersi a un ricco sultano (Paul Wegener). Seguendo uno schema che ha un’anima profondamente teatrale, puro melodramma (anche se la storia si intreccia con un'altra che rimanda alle Mille e una notte), il clown prima prova a uccidersi con una droga poi, profondamente addormentato, per una serie di rocambolesche avventure in cui il suo corpo viene maltrattato come un fantoccio, trafugato dai ladri e trasportato in giro per la città, finisce per risvegliarsi nel palazzo del sultano, dove scambiato per uno spettro attua la sua vendetta... il tutto nel più completo silenzio.











 

arthur rimbaud a 37 anni, poco prima della morte, in un ritratto di sua sorella Isabelle

 

venerdì 3 novembre 2023

ridere

Oggi, mentre guardavo il Tg, ho pensato con tanto rimpianto che viviamo davvero in tempi bui e che una volta, di fronte a notizie succose come quella delle tre escort sfrattate dalle loro ville milionarie alla morte del loro protettore Silvio Berlusconi che intanto viene iscritto nel Pantheon degli uomini che hanno dato più lustro alla città di Milano, ecco in altri tempi da una notizia così, personaggi assai più illustri come Dino Risi avrebbero tratto materiale per un film in cui ribadire col sorriso l'amara verità che in fondo, almeno a Milano, la mela non cade mai lontana dall'albero. Invece Risi è morto, quella stagione lì è morta, e a noi resta di guardare le notizie in Tv senza più ridere di niente e di nessuno. Nemmeno di noi stessi.

giovedì 2 novembre 2023

cinema e letteratura

Non credevo alla crisi del cinema, comincio a crederci da qualche giorno: da quando hanno «indetto» un convegno sui rapporti tra Cinema e Letteratura. In genere, da noi – non rivelo un segreto – un convegno a cui partecipano i letterati è già il segno della fine. Non saprei dire il perché: forse per la pigrizia che spinge i letterati a occuparsi delle questioni letterariamente. Un convegno sui rapporti tra i Buoi e la Letteratura si fa di solito quando i buoi sono scappati. A questo convegno sul Cinema hanno partecipato vari e ottimi scrittori, un solo produttore, qualche personaggio ufficiale. Si è molto discusso sul sesso degli angeli. Qualcuno ha anche parlato sui rapporti tra Letteratura e Fisco. I produttori sono stati generalmente incolpati di essere avidi e faciloni: e questo è talmente noto che non c’era bisogno di riunirsi per scoprirlo. Il produttore – per quanto strano possa sembrare – è un tale che mira a far soldi. Incredibile. Qualche volta ha provato a sue spese che le idee nobili non vanno, il pubblico preferisce le idee ignobili, ci si sente più a suo agio. Il produttore è quasi sempre lo specchio del pubblico.

Gli scrittori si sono proclamati pronti ad aiutare il Cinema sul piano della qualità. Un tale ha chiesto che a ogni sceneggiatura debba partecipare a uno scriba fornito almeno di licenza liceale. Ma se nel Cinema sono tutti dottori! Moravia, sempre il più sincero in questi casi, ha detto che, se deve pensare a qualche cosa per il Cinema, preferisce scrivere un racconto un romanzo. Benché questa confessione possa anche spiegare la sua straordinaria fertilità di scrittore, siamo già maturi per una prima conclusione: lo scrittore, moralmente, disprezza il Cinema. Non è una novità nemmeno questa. «Fare il cinema», per molti, o tutti, è un’attività sussidiaria e secondaria; e invece lo è soltanto nella misura in cui lo scrittore lo crede. E allora perché questo convegno? Forse perché il Cinema è remunerativo? 
 
[…] C’è poi la tendenza dello scrittore medio italiano a considerarsi inviolabile come un sacerdote. Vuol dire messe ai cannibali, ma detesta il martirio; vuol convertire i suoi lettori, ma si preoccupa della pensione e delle percentuali; vuole la Libertà ma ammira anche in cuor suo le enormi tirature di Stato delle Repubbliche Sovietiche.
I rapporti tra Cinema e Letteratura potrebbero essere gli stessi, tutto sommato, che tra Letteratura e Edilizia. Perché dovrebbero essere molto dissimili? Il Cinema è un’industria, o almeno tutti vorrebbero che lo fosse, dimenticando che le poche opere belle del cinema italiano, quelle che hanno fatto parlare dell’esistenza di un cinema italiano, sono state fatte contro l’Industria, contro i produttori, e soprattutto contro il pubblico. Il giorno che il Cinema, in questo paese, sarà veramente un’industria, gli scrittori potranno tornare a raccontarci i loro primi amori. Non serviranno più a niente, nemmeno a fare film di protesta.
 
ENNIO FLAIANO, 1957 (da La solitudine del Satiro, Adelphi, 1996)