Prima stavo leggendo una intervista a Riyoko Ikeda, autrice osannata di quel capolavoro manga che è Lady Oscar. L’autrice a un certo punto dice che, mentre lavorava alla trama del fumetto, che aveva uscite periodiche, e cercava di capire come chiuderlo, e se lasciare o no che Oscar si accoppiasse con qualcuno, il personaggio di André che né Oscar né la Ikeda avevano mai considerato prima, che nella storia era soltanto una spalla, prese piano piano il sopravvento e malgrado le intenzioni della Ikeda crebbe da solo, si prese uno spazio tutto suo, sempre più ampio e profondo nel suo tormentato amore non corrisposto, tanto da farsi tridimensionale e assumere il ruolo di coprotagonista, dando al finale della storia quella dimensione tragica che oggi sembra quasi necessaria, per cui uno si dice “non poteva che finire così”. In realtà non era nemmeno stato immaginato, è successo da sé strada facendo. Ecco, mentre ci pensavo ho capito che questo è ciò che fa la differenza fra un semplice scrittore umano e le AI che scrivono libri o fiction, non la capacità di scrivere delle storie bellissime o costruire un finale perfetto (credo che le AI ne siano o ne saranno perfettamente in grado), ma quel tempo particolare di elaborazione della storia (che secondo me le AI non hanno e non avranno mai come pregio e limite) in cui un personaggio reclama la sua indipendenza rispetto alle intenzioni dell’autore, assume una sua fisionomia che decide da sé, un respiro che nessuno aveva immaginato per lui, entra in quello spazio particolare in cui una scrittura smette di essere prodotto e si fa opera d’arte.
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