Ieri sera con un paio di amici siamo andati a vedere il nuovo docufilm su Gaber uscito quasi a ridosso di quello del sodale Jannacci. A parte i suoi punti di forza (Gaber in se stesso, basta e avanza) e di debolezza (troppo lungo, troppi ospiti, alcuni dei quali non si capisce che ci stanno a fare) tipici di ogni docufilm, le due cose che più mi hanno lasciato stupito/perplesso sono state: 1) i più giovani in sala, ieri, eravamo proprio io e i miei amici, età media fra i 45 e i 50. È un caso, mi sono chiesto, o è la norma? Gaber interessa ancora alle generazioni più giovani della mia, che non hanno ancora avuto il tempo di perdere niente. E se interessa, che cosa gli sta dicendo, visto che praticamente non sanno nulla degli argomenti di cui parla lui specie nella fase più bella della sua carriera, quella del teatro-canzone: a scuola di quegli anni non si parla, e dopo, chi può si informerà da solo, e chi non può ciaone al ‘900 e agli anni di piombo; 2) il finale del docufilm vede tutti gli intervistati riunirsi a teatro per vedere uno spettacolo dove a esibirsi è proprio Gaber, in un montaggio posticcio che mischia un suo vecchio filmato e loro visti oggi, i suoi amici e famigliari invecchiati, alcuni più vecchi di lui, sua figlia che ormai gli è coetanea. A parte l’inutilità della scena, con tanto di lacrime finte, mi è sembrata una trovata talmente in sintonia con quello che hanno fatto i Beatles nell’ultimo video che ho cominciato a pensare che stia diventando una moda questa di non riuscire a seppellire i morti, a fare i conti con loro non attraverso la distanza del tempo, ma in questa continua finzione di un presente che assorbe e livella ogni cosa, ma non come diceva Totò sul piano della morte, invece all’opposto sul piano della vita che deve assolutamente continuare e dove se non muoiono loro forse non moriremo neanche noi. Un finale così posticcio Gaber l’avrebbe odiato, credo.
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