Come tutta la sua vita da poeta è particolarmente avvincente, è sorprendente e a suo modo ironica, o ridicola, la vicenda africana di Rimbaud, che potrebbe tranquillamente finire – com’è in effetti successo, credo – come avventuriero senza scrupoli in una storia di Corto Maltese. Rimbaud arriva ad Aden in puro stile caravaggesco: a Cipro ha ucciso un uomo per futili motivi, un povero operaio con cui aveva avuto una lite e accecato dalla rabbia gli ha spaccato la testa con una pietra, quindi scappa per evitare il carcere. Riparato lì si impiega in una ditta di commercio con l’idea di fermarsi un po’ di tempo, ma non certo 11 anni. Viene considerato un impiegato modello, affidabile e intelligente, eppure nelle lettere alla madre ultracattolica (da cui era scappato da ragazzo) non fa che lamentarsi di tutto e tutti, del clima, dei colleghi, dei capi, le chiede soldi per avviare assurdi progetti che in breve tempo lo faranno diventare ricco, così potrà presto sposarsi, far figli e formare una vera famiglia, non come suo fratello che conduce vita dissipata e di cui non perde occasione per parlar male: in queste lettere assomiglia, insomma, a un personaggio di Alberto Sordi. Tanto la sogna la famiglia che alla prima occasione molla la compagnia in cui è impiegato e si mette in commerci lucrosi come mercante d’armi con gli eserciti africani che preparano varie guerriglie. Lo fregano tutti, ma in questo modo ha l’occasione di essere uno dei primi europei a entrare in territori africani inesplorati, descritti in un paio di guide che non c’entrano nulla con la poesia ma favoriscono la geografia. Anche qui le opinioni su di lui divergono comicamente: per il consolato italiano è un pericoloso agente segreto francese e allo stesso tempo un efferato mercante di schiavi; per i mercanti inglesi è un imbroglione insolente e bugiardo, molesto e senza scrupoli: a un certo punto viene rimproverato perché sta provando a smerciare con insistenza un lotto di block notes che nessuno vuole, perché lo sanno tutti che gli africani sono analfabeti; per i francesi è ufficialmente un disertore (era arrivato a Cipro proprio per evitare il servizio di leva) e un voltagabbana la cui parola vale poco o nulla, salvo che probabilmente lavorava davvero come spia e agente segreto. L’unico punto su cui convergono tutti è quando lo descrivono come un tirchio della peggior specie, uno che non mangia e non si lava per risparmiare, non va nemmeno a puttane o nei casinò per non buttar soldi, ha un solo vestito che usa con qualsiasi clima, quando può dorme per strada per non pagare una camera, e non perde occasione di litigare per ricontrattare a suo vantaggio i compensi pattuiti. Il denaro, il desiderio di farlo e la paura di perderlo lo ossessionano per tutti i suoi anni africani. E proprio per questo, non fidandosi assolutamente di nessuno, porta legata addosso una cintura piena d’oro da cui non si separa mai, tutta la sua ricchezza che non usa, preferendo fare vita da pezzente, e qui siamo dalle parti di Molière: la cintura, infatti, pesa una decina di chili. Portarsi dieci chili d’oro addosso ogni singolo giorno per più di dieci anni in Africa. Ve lo immaginate? Allo stesso tempo questo ex poeta così ridicolo, malinconico, amareggiato e pieno di lamentele e di rimpianti, è anche, realmente, un avventuriero senza paura. Quando si ammala alla gamba, malattia che lo porterà presto alla morte, costruisce una lettiga su cui si lascia cadere e ingaggia quattro portantini neri per trasportarlo, con un dolore lancinante al ginocchio che non lo abbandona mai, per 300 km attraverso il deserto fino al porto più vicino da cui salpare per la Francia. Durante la traversata uno dei portantini esausto inciampa e lo fanno cadere per terra. Rimbaud, nonostante abbia la gamba già quasi in cancrena, la usa come scusa per trattenere una parte dei soldi dal compenso promesso.
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