mercoledì 31 gennaio 2024

esempio

Autrice che mi scrive che l'attesa per una qualsiasi risposta editoriale è talmente snervante che viene voglia di aprirsi una casa editrice solo per non chiedere più niente a nessuno. Poi però guarda come sto ridotto io che mi lamento sempre di tutto e le passa la voglia di seguire il mio esempio.

martedì 30 gennaio 2024

la mia prima vacanza in due anni

Incredibile questa cosa che ti assenti tre giorni e poi ce ne vogliono quattro per rimetterti in riga con gli impegni. Lo sapevo già, ma me l’ero quasi scordato. Lo scorso weekend è stata la prima volta che mi sono allontanato da casa da maggio 2022, sono quasi due anni (a cui andrebbero aggiunti i due anni prima del Covid). Nel 2022 ero al salone, poi al ritorno il medico mi aveva chiamato per dirmi che mio padre aveva un problema e bisognava prepararsi al peggio. Come reazione ho provato a sobbarcarmi quanto più peso potevo sulle spalle e sono andato avanti come una bestia da soma finché non sono caduto per terra e sono stato costretto a mettere da parte alcune cose, il lavoro, la mia salute, mentre continuavo a ridere con la bocca come uno scemo, per non dire che avevo solo voglia di piangere. Il weekend di ieri aveva la scusa del lavoro ma è stata la mia prima vacanza da due anni a questa parte. Mentre salivo in treno verso Milano mi sono ritrovato in cuccetta con due uomini che russavano fortissimo, in coro, come bestie nella stalla, e una donna sotto di me che sbuffava e continuava a lamentarsi “non ce la faccio più, non ce la faccio più” come la Magda di Verdone, e a me veniva da ridere, ma dalla pancia, mi guardavo come dall’esterno, calato in quello sketch da commedia popolare e mi sentivo felice. Dio come mi mancavano queste cose.

lunedì 29 gennaio 2024

la mia vita e basta

Una signora sta seduta in treno davanti a me e parla senza sosta da cinque ore, al punto da farmi desiderare dei tappi di cera. Cos'ha da dire di così urgente da non potersi fermare neanche per bere? – Sto scendendo a casa per il funerale di mia madre. Non la vedo da ventidue anni. Non so perché ci sto andando. Mia madre era una donna egoista, mi ha rovinato la vita e mi ha reso debole e infelice ogni attimo della mia esistenza. Quando stavo con lei facevo finta di vivere ma ero morta dentro, ho dovuto andarmene per non uccidermi davvero. Lei non mi ha mai chiamato e anche io facevo finta che fosse morta. Eppure, stamattina, quando mi hanno avvisato non ho saputo resistere, ho dovuto prendere il primo treno per vederla morta davvero e provare a metterci una pietra sopra. E poi questi anni che dio mi darà voglio vivere la mia vita, e basta.

poesia e maturità

Alla Feltrinelli della stazione di Milano una ragazza sta ferma vicino a me davanti alla sezione di poesia, indecisa fra Achmatova e Cavalli. Il padre arriva col fratello della ragazza carico di manga e quasi la rimprovera: "Ancora con la poesia? Quando la smetti con queste bambinate e cominci a leggere qualcosa di più serio?". E mentre lo dice si volta a guardarmi con un libro di versi in mano (Durs Grünbein, manco Jovanotti) e fa una smorfia quasi di compatimento. Come se il mio fosse il peggiore esempio di lettore adulto da dare a sua figlia.

sabato 27 gennaio 2024

l'amore spiegato ai bambini

Oggi coi bambini si è parlato di amore. Chi ama chi e come ci si dichiara. L'idea di fondo dei dodicenni d'oggi è che la dichiarazione più fica è quella tipo video, con la complicità e coreografia dell'intera classe che partecipa alla confesisone e registra il tutto trasformando l'esperienza in una storia da postare sui social. Solo una bambina ha accennato al fatto che se qualcuno si dichiarasse vorrebbe qualcosa di più intimo, a tu per tu, perché magari lui non ti piace davvero e dirgli di no davanti agli altri è una cosa brutta così come dire sì per far venire bene il video. Ma se togli il video, ha chiesto un'altra bambina, poi cosa resta? Qui siamo già alle prime domande esistenziali. I maschi invece, in piena età preormonale, hanno già scoperto l'esistenza di Valentina Nappi e Mia Khalifa. Mi hanno chiesto se le conoscevo anch'io. Quando ho detto di sì mi hanno guardato con un rispetto mai visto prima ("professore, sei malizioso", mi ha detto uno). Ho provato a surclassare ma si sono infervorati e mi hanno chiesto di fare una lezione su come si fa a visitare certi siti senza farsi sgamare dai genitori (che controllano la cronologia dei telefoni). Seeee, troppo facile così, ho risposto, dovete scoprirlo da soli come si fa, è così che si diventa grandi! Uno mi ha detto che se diventa grande vuole farsi venire la barba lunga come la mia (ma non la pelata). "Con una barba così spacco il mondo come un verso selvaggio!" Mah.

venerdì 26 gennaio 2024

gli amici

Dico agli amici che devo salire a Milano. Uno mi manda i link delle mostre più interessanti da Goya a Morandi, l'altro mi gira un link per escort già suddivise per quartieri e costo delle prestazioni e dice: Antò, mi raccomando, non fare come sempre. Scegli la vita!


 

giovedì 25 gennaio 2024

i migliori amici

Pensavo di essere completamente negato, invece oggi in classe ho chiesto di scrivere un testo sugli amici e una bambina mi ha inserito fra i tre suoi migliori amici, anche se nel disegnino allegato sembro una una cosa a metà fra un barboncino e Chewbecca di Guerre stellari. Un altro bambino ha scritto una poesia perché gli piace quando inventiamo le rime al volo con le parole che si dicono in classe, perché dice che "con le rime" il mondo gli sembra "subilme".

due settimane e tre giorni

Autore che mi chiama per lamentarsi dei miei tempi di risposta. – Le ho mandato il manoscritto due settimane fa e ancora non mi dice nulla! – Ho provato a spiegargli che non funzionano così i tempi di lettura, nessuno ti risponde in due settimane. – Ah sì? Altre due case editrici mi hanno risposto nel giro di pochi giorni e una, dopo tre giorni, mi ha già mandato il contratto editoriale! – Io diffiderei di qualcuno che manda un contratto dopo tre giorni. – Eh ma se lei dopo due settimane ancora non mi ha letto, io che dovrei fare?

martedì 23 gennaio 2024

note su "tu sola sei vera"

Premesso che se uno vuole una immersione filologica all’opera di Scotellaro farebbe meglio a prendere il Baobab Mondadori a lui dedicato, ho dato una lettura all’introduzione di Arminio al libro uscito per Interno Poesia. Che a mio avviso ha dei pregi, o perlomeno ti lascia dei motivi di riflessione (se fossi Garboli ne tirerei fuori un saggio di 50 pagine), ma ha anche dei difetti. Il difetto maggiore è che Arminio tratta l’introduzione con eccessiva famigliarità e stringatezza, fa cioè una presentazione da poeta e non da curatore, con delle belle intuizioni (più intorno al testo che sul testo) di cui però lascia troppo spesso le possibili costruzioni all’intelligenza del lettore; in questi casi il lettore non vuole sentirsi più intelligente del curatore, vuole sentirsi stupido, vuole cioè un curatore che gli rivanghi e rimescoli la terra sotto i piedi, non che gli suggerisca delle tracce o che gli dica “queste sono vicende note, almeno agli addetti ai lavori” per passare velocemente ad altro. Va anche bene, come avverte, togliere le date sotto le poesie in una vicenda durata pochissimi anni in un paesaggio di riferimento (il mondo contadino lucano della metà del ‘900) collocato in un tempo fuori dalla storia (Levi), se il tuo interesse è decontestualizzare il verso dalla sua epoca e vedere come regge al trascorrere del tempo (anche perché mi pare che il sospetto di fondo, che si vuole fugare, è quello che Scotellaro venga letto più per la caratura eroica della sua figura che non per la bellezza dei suoi versi, più in chiave storico-politica che estetica); però almeno nell’intro qualche parola in più sull’uomo e sulle sue scelte appassionate e su come è entrato nella tua vicenda personale si sarebbe potuta dare. Perché una cosa è googlare il nome e leggere la bio su Wikipedia, un’altra è che un autore ti parli col cuore in mano della vita e dell’opera di un altro poeta con cui ha così evidenti punti di contatto, cosa che Arminio ha fatto invece con grande amore (e cura) per Gianni Celati: il pezzo scritto per Doppiozero alla sua morte in questo senso è esemplare. Questo nell’introduzione mi è mancato. Mentre il rimontaggio emotivo, o musicale, dei testi, per ciò che ho letto finora, non mi dispiace. Le prime poesie ad esempio, con un montaggio che ne scandisce una dietro l’altra alcune dedicate alla notte, o meglio alle ore poco prima dell’alba, quelle più buie ma che preannunciano il detto “è fatto giorno” hanno, così vicine, una più forte carica espressiva, ma tutta la raccolta è piena di una notte che almeno a me fa pensare a Goya, il Goya in bianco e nero delle incisioni, visto che nell’intro Arminio parla di “colore”, dove quello di Scotellaro non è certo lo stesso di Carlo Levi, indirizzato a tinte più pastose e ocra. Quasi in conclusione Arminio osserva come il tempo Scotellaro (come però anche quello di Bertolucci o di Guerra o di Buttitta) era ancora un tempo in cui si potevano mettere insieme “il fiato caldo dei contadini e le lettere ai poeti”, mentre oggi un poeta non sa nemmeno più dove trovarli i contadini. È vero. Io che vivo in un centro rurale del sud mi sono chiesto quanti contadini veri conosco, gente cioè che vive del proprio lavoro con la terra. Mio nonno era contadino e quindi grazie a lui ne ho conosciuti, ma se dovessi dire oggi chi c’è, forse ne conosco un paio al massimo, e tutti hanno l’età di mio padre. Ma un poeta che vive in una qualsiasi città d’Italia e che giornalmente scrive come me ad altri poeti, quanti contadini conosce? Quanti ne frequenta giornalmente? E come la considera questa, vittoria o sconfitta, o è indifferente? Per Arminio quella combattuta da Scotellaro, per quanto nobile, è stata una battaglia persa di un’Italia che non c’è più. Restano i suoi versi di cui, oltre all’integrità dell’uomo, si cerca di sondare l’attualità, o meglio la loro capacità di essere per noi, oggi, al di là del loro tempo. Nessuno, ad esempio, si chiede così insistentemente del tempo di Fortini o Luzi mentre legge i loro versi, perché i versi di Fortini o Luzi, così legati al loro tempo, sono “anche” al di là di quello. Succede anche per Scotellaro? Questo libro, mi pare, prova a sondare questa domanda. A un certo punto, mentre ripassavo al volo le sue poesie ho trovato la parola “zappatori”. Parlo per me, ma credo di averla sentita l’ultima volta anni fa, nel 2009, durante uno spettacolo di Gabriele Lavia sul “Sabato del villaggio” di Giacomo Leopardi. Nel mio paese non la usa più nessuno, e almeno per me questa parola è già qualcosa di fuori dal tempo, ma in che modo è ancora tutto da capire.

domenica 21 gennaio 2024

i modelli

Agente letterario che mi scrive per presentarmi l'opera di un giovane talento della sua scuderia non ancora maggiorenne. Che ne sai, mi rimprovero per non pensar male, magari è un nuovo Rimbaud. Invece no, è un bravo versificatore in rima che ha imparato a memoria tutto quanto c'è da sapere dai lirici greci fino a Leopardi — ne sa di sicuro più di me e di tanti altri che mi scrivono – e non riesce a staccarsi dai modelli. Ma il cui tema di fondo resta sempre quello, centrale, non si capacita di cosa gli succede quando vede una certa tipa che non vuole saperne di lui.

sabato 20 gennaio 2024

bro

Bambina di 12 anni che mi chiede se ho per caso un figlio di 14-15 anni che mi assomiglia ma un poco più curato di me nell’aspetto. – Un figlio in che senso? – Un bro come sei tu, ma giovane e bello. – Io le dico che non sono nemmeno sposato e lei sbuffa. – Ecco, tutte così le storie della mia vita! (E aggiunge sottovoce: Non che la mia vita da single mi dispiacesse…)

giovedì 18 gennaio 2024

ciliegina

Ciliegina sulla torta del giorno. Quando entri in negozio e la signora davanti col borsellino in mano ti guarda in faccia e d'istinto lo rimette in borsa. La banconista lo nota e per tranquillizzarla le spiega a chi sono figlio per farle capire che se la pianta è cresciuta un poco storta almeno il ceppo è sano.

l'orco

Oggi ho chiesto ai bambini di una classe di mettermi il voto. Me ne hanno messo uno bassissimo. Dicono che non mi faccio rispettare e questo di me li infastidisce. Ho chiesto che dovrei fare per farmi rispettare. Alzare la voce quando fanno casino mi rispondono, e poi man mano, esagerando, lanciare per aria le sedie, rovesciare i banchi, battere i pugni come un pazzo sulla cattedra sbavando. Cioè voi per rispettarmi avete bisogno che vi tratti male? E a voi piace farvi trattare male? Non rispondevano, così abbiamo letto un racconto che parlava di un orco, una pagina per uno, ma quando è toccato a una bambina le hanno fatto un dispetto, ogni volta che la bambina provava a leggere tutti alzavano la voce per zittirla. La bambina è scoppiata a piangere. Ho chiesto perché lo stessero facendo e mi hanno risposto che a loro quella bambina dà fastidio perché lei è più brava a leggere e vuole mettersi in mostra. Cioè voi ve la prendete con una vostra compagna perché sa fare una cosa meglio di voi? E non vi sentite in colpa a farla piangere? – No, perché è una cosa che ci viene naturale. – E allora perché a me chiedete di essere cattivo, se per mia natura non lo sono, e a voi invece deve essere concesso di seguire la vostra natura, anche se fa male agli altri, invece di darvi una regolata? Ma nessuno mi ha saputo rispondere e un bambino guardandomi è scoppiato a ridere perché diceva che nemmeno impegnandomi ero capace di assomigliare a un orco.

mercoledì 17 gennaio 2024

la geografia silvestre

Sto leggendo in questi giorni FUOCO E GHIACCIO di Robert Frost nella traduzione di Silvia Bre (Adelphi, 2022), che è oggettivamente un’opera bellissima, oltre a essermi cara per motivi del tutto personali. La leggo, però, e considerato come sia stata una delle uscite più osannate degli ultimi due anni, continuo a chiedermi come ha fatto un librone di versi (550 pagine) completamente dedicato al rapporto con la natura e alla vita in bosco intesa come metafora esistenziale a piacere così tanto in un Paese come il nostro dove questo particolare genere lirico, che un tempo aveva una tradizione ed è ancora assai praticato all’estero, oggi manca quasi del tutto. Ci sono ovviamente delle eccezioni, ma io perlomeno, in dieci anni e passa che faccio l’editore, avrò incontrato sì e no una decina di autori che esplorano le stesse tematiche puramente ambientali, dove per ambiente si intende il bosco, o la montagna. Qualcuno parla ancora di mare, ma è come se la geografia silvestre o rurale dell’Italia interna fosse stata del tutto rimossa dal nostro immaginario o dalla nostra vena poetica. Vedere adesso tutti questi poeti commossi per i paesaggi naturali americani espressi da Frost mi fa un po’ strano. Poi certo, il potere della letteratura è anche questo, di farti sognare luoghi in cui normalmente non andresti mai.

i nomi

La mia memoria, con tutto che la tengo allenata, comincia fare cilecca. Stamattina cercavo il profilo di una ragazza a cui la settimana scorsa ho scritto “mi posso innamorare di te?” e non mi ricordavo il nome. Sempre meglio, però, di quella volta in cui ero a letto con una conosciuta da poco e l’ho chiamata per tutto il tempo col nome di un’altra. Quando me ne sono accorto ho provato a scusarmi, ma lei “non ti preoccupare, tanto quando ci rivediamo noi due?”. Da dimenticante a dimenticato il passo è breve.

martedì 16 gennaio 2024

la caduta

Difficilmente credo di possa trovare un universo più inquietante di quello del cinema di Georg W. Pabst, tutto incentrato sui bassifondi con questa criminalità vivace, feroce, affamata e sensuale, ossessionata dal denaro e piena di facce di criminali che in parte sembrano prese dai quadri di Grosz (che amava), in parte preannunciano quelle dei futuri nazisti al potere. Ne “L’opera da tre soldi”, che è un film dei primi anni ‘30 ispirato a un’opera teatrale di Brecht (il quale detestava il film perché trasformava, appunto, un’opera di Brecht in un’opera di Pabst), si osserva nel finale questa manica di tagliagole che confluisce in una Banca, capisce cioè che l’unica strada per loro per conservare e accrescere il loro potere è quello di istituzionalizzarsi ed entrare nel sistema economico sfruttando le masse dei poveri. Era un messaggio forte. Non a caso Pabst era considerato all’epoca non solo uno dei talenti del cinema tedesco, ma una delle voci più influenti della Sinistra. E anche per questo è crudele e ironico che lo stesso Pabst sia stato distrutto dal sistema economico che avversava. Quando fuggì dalla Germania nazista ed emigrò in America non riuscì, come altri registi, ad adattarsi al nuovo sistema cinematografico americano che razionalizzava i costi di produzione dei film (per i quali non si era interessati a raffinatezze artistiche che avrebbero rallentato i tempi di ripresa) e pretendeva il controllo assoluto sul prodotto finito, montaggio compreso. Al punto che, per orgoglio artistico, Pabst prima tornò in Europa, girovagando di paese in paese alla ricerca di un lavoro e poi, ridotto alla fame, accettò l’invito di Goebbels di tornare in Germania, dove girò un paio di film di propaganda. Fu la sua fine. La Sinistra, anch’essa rifugiata all’estero, lo ripudiò come traditore e venduto. Lui stesso cadde in depressione e passò il resto della vita a scusarsi per la propria debolezza, riducendosi negli ultimi anni a fare film sempre meno apprezzati. Non venne perdonato e dopo la sua morte sul suo nome cadde come un velo che ne offuscò i meriti. Ancora oggi, lo si ricorda soprattutto per i due film con Louise Brooks, spostando tutta l’attenzione su di lei e dimenticandosi come fu Pabst a trasformare Lulù in una star e non viceversa. Mentre andrebbe ricordato per una decina di film fondamentali realizzati prima della guerra e, subito dopo quella, almeno per “L’ultimo atto”, film bellissimo del 1955 che descrive le ultime ore di vita di Hitler (interpretato da Albin Skoda) chiuso nel suo bunker in attesa della fine, e ha ispirato alcuni rifacimenti assai più citati dell'originale, come ad esempio “La caduta” del 2004.


 

lunedì 15 gennaio 2024

distrazione

Bisogna essere onesti. Sarà anche vero che c'è un'informazione tesa alla distrazione di massa ecc., però è anche vero che c'è una bella massa che sta lì pronta e non aspetta altro che essere distratta.

tecniche di basso livello

 Ieri ho finito “Tecniche di basso livello”, prima parte di “Low. Una trilogia” di Gherardo Bortolotti (Tic, 2020) che il mio amico Giulio Maffii definisce un capolavoro. È il primo libro suo che leggo e in realtà è scritto benissimo in questo linguaggio ibrido che non è né poesia né romanzo, o meglio romanzo senza fiction, colto per brevi illuminazioni d’esistenza, prosa in prosa appunto, e al contrario di quanto dicevo in un precedente post, superato il primo stordimento, si capisce di che parla, anche se alla fine importa relativamente. La sensazione più straniante che se ne prova deriva dal fatto che alla fine non c’è un solo verso (se di verso si può parlare), non una frase o meglio ancora un frammento, che mi ricordi più o meglio degli altri, ma solo un’atmosfera generale. È come ascoltare un disco ambient, dove la sensazione d’insieme vale più del ritornello o dell’assolo, come andarsene in giro nel traffico con le cuffie, separati dal mondo anche mentre lo si osserva, con questa sorta di osservazione concentrata dalla musica. (L’accostamento con la musica, ovviamente, perché Low fa pensare a Bowie e alla sua trilogia berlinese). Mi sono chiesto, io che vengo da una generazione che impara a memoria e si ripete come amuleti i versi più esemplari di Montale, Sereni o di Fortini, se questo può essere uno dei futuri della poesia, questo dirigersi dal verso verso l’atmosfera, con tutti i rischi che il poetico prenda il posto della poesia, lì dove non sia misurato dal talento di un Bortolotti. Altra osservazione, più casuale. Il libro è suddiviso per frammenti numerati, non in ordine crescente ma sparpagliati e a coppie (33-34; 249-250; 15-16 ecc.) con alcuni numeri mancanti, non si sa se per caso o un base a una scelta particolare. Questo tipo di numerazione mi ha ricordato il frammento 56 di Bordini, che è presente in “Poesie color mogano” (Tic, 2019) ma che prima ancora era presente come finale di “Memorie di un rivoluzionario timido” (Sossella, 2016). Mi sono sempre chiesto perché quel finale che sembrava staccarsi per atmosfera emotiva dal romanzo, ma così importante per B. da essere ripreso con lievi modifiche anche nella sua (pen)ultima raccolta. E perché proprio 56? Ora mi ritrovo, rileggendolo, perfettamente immerso nella stessa atmosfera del libro di Bortolotti: ha più senso atmosferico inserito qui che non nello stesso libro di Bordini, come se fosse stato un gancio con l’opera o forse meglio ancora con la generazione dell’altro (alla numerazione del cui libro manca, ma forse appunto è solo un caso, il numero 56). Del resto “Tecniche di basso livello”, che è uscito la prima volta nel 2009, è in tutto e per tutto un titolo perfettamente bordiniano.

domenica 14 gennaio 2024

kameradschaft

Kameradschaft, traducibile in italiano come “Cameratismo” e per questo esportato all’estero con un meno compromesso “La tragedia della miniera” è il terzo film sonoro di G. W. Pabst, girato nel 1931, ma fa il paio col primo, Westfront 1918, dell’anno prima. Il film prende spunto da un fatto di cronaca del 1906, quando ci fu il crollo in una miniera al confine fra Francia e Germania, e una squadra di operai tedeschi passò il confine intervenendo volontariamente in soccorso dei francesi intrappolati. Pabst sposta l’episodio poco dopo la fine del primo conflitto, quando i rancori e le diffidenze fra i due popoli non sono ancora sopiti. La miniera crolla, i tedeschi intervengono, ma a un certo punto uno dei francesi intrappolati, in preda al delirio, confonde l’operaio tedesco in maschera sceso a salvarlo con uno dei tanti soldati nemici contro cui ha combattuto pochi anni prima e all’improvviso alcune scene di battaglia del film precedente vengono innestate in questo con un ritmo accelerato. L’effetto è devastante e splendido insieme perché mostra come non ci sia nessuna differenza fra soldati e operai, “siamo soltanto carne da macello” dice uno di loro a un certo punto. Come il precedente anche questo rifiuta qualsiasi colonna sonora preferendo esclusivamente i rumori d’ambiente delle macchine che scavano nelle gallerie e il taglio oggettivo delle riprese che confonde fiction e documentario.

di tutto, meno che pensare ai libri...

Domenica pomeriggio. Mio fratello (quello cattivissimo) che dopo pranzo mi scrive: "So che stai pensando di metterti a lavorare su uno dei tuoi libri, è domenica, non ci pensare nemmeno! C'è da sistemare l'orto, mettere ordine in legnaia, dare una lavata alla rimessa, sistemare le carte di papà. Di tutto, meno che pensare ai libri. Se proprio non vuoi fare queste cose vatti a fare una passeggiata, ma ti prego non pensare ai libri, tanto il mondo, che tu lo voglia o no, con o senza i tuoi libri vive tranquillo." Non so se commuovermi per il pensiero, o accusare il colpo della stoccata finale.

gli intelligenti

Non ho mai capito perché spesso i più diffidenti verso l'intelligenza (degli altri) sono proprio gli intelligenti. Ogni tanto ci si racconta che sono i cretini o i brutali a fare ostruzionismo, ma non è vero, sono gli intelligenti i peggiori avversari di un altro intelligente con vere e proprie punte di antipatia che possono sfiorare l'odio, e se invece ne riconoscono il valore e se lo prendono a cuore è sempre per affinità del discorso o simpatia innata, raramente perché vanno oltre se stessi.

senso di colpa

Oggi mi sono svegliato col senso di colpa perché ieri ho risposto male a un autore che mi ha chiamato per proporsi. “Non per vantarmi, ma io le sto dando oro colato” mi ha detto al telefono e già lì mi sono messo sulla difensiva. Quando però ha provato a infilare il piede nella porta chiedendo il mio nome, “Come si chiama il mio editore?”, mi è scattato qualcosa dentro: “Io non sono il suo editore, voglio che sia chiaro, non ho nemmeno letto cosa mi vuol mandare, quindi non si faccia false speranze perché io non gliele voglio dare”. Ho sentito il silenzio dall’altra parte, poi con la voce incrinata, che sembrava stesse per mettersi a piangere, il tipo mi ha detto: “Mi scusi, mi scusi, cercavo di creare una confidenza, chiudo!” e ha chiuso mentre provavo a dirgli di non agitarsi. Subito dopo mi ha chiamato una signora che voleva sapere se avevo letto il suo manoscritto e quando le ho risposto no, signora non ho letto niente: “Mi raccomando, che io voglio pubblicare con lei”. Ma perché, chiedo io, ce ne sono tanti di editori. “Perché lei quando mi risponde al telefono è sempre educato, mi sta ad ascoltare.” Allora ho ripensato al tipo di prima e mi sono sentito una merdaccia.

sabato 13 gennaio 2024

il bastone

Ogni giorno che entro in una classe mi incanto di fronte alla bellezza dei bambini e mi dispiace di non essere adeguato al mio ruolo. Di sicuro preferisco sedermi con loro e osservarli dai banchi che stargli di fronte a insegnare, ma questo non sempre va bene e sempre più ho rispetto per chi sceglie di fare l’educatore con tutte le difficoltà di ogni giorno. Infatti, si può essere brave persone e pessimi maestri e io spero di essere una brava persona, ma di sicuro non sono bravo come maestro. L’esperienza di questi mesi me lo ha insegnato. C’è di buono che sto toccando con mano un mondo che, non avendo figli, mi stavo dimenticando. Si fa presto a dire, come ho fatto, apriamo una collana di libri per bambini, ma poi devi anche sapere a chi li proponi questi libri, e con quale linguaggio, e con che approccio. Per arrivare dove. Ad esempio, mi resterà sempre nel cuore una discussione che ho avuto in una quarta elementare l’altro giorno, a partire da una fiaba di Giambattista Basile nella quale un bastone magico si animava per picchiare sul groppone chiunque gli capitasse a tiro e senza fare discriminazioni: io pensavo che si sarebbero divertiti, mentre i bambini si sono scandalizzati per la gravità di fare violenza a una persona senza motivo, non c’era nulla da ridere in questa storia, la trovavano una cosa orribile, nemmeno da pensarci! E c’era da chiedersi, guardandoli, quand’è che un bambino smette di credere che la violenza sia una cosa orribile, nemmeno da pensarci, e diventa adulto.

il ragazzo disperato

Stanotte ho sognato un ragazzo che era stato mollato dalla ragazza, chiamata Pin, e continuava a rincorrerla in lungo e in largo per la mia testa e chiamarla: “Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin! Pin!” finché a un certo punto, esasperato, sono dovuto scendere dal sonno giù dentro il mio stesso sogno per gridargli: “Oooh! Ti vuoi stare zitto, sì o no?” E quel povero ragazzo, tutto rosso e pieno di vergogna, si è guardato la punta dei piedi e si è zittito.

venerdì 12 gennaio 2024

il pasticcio

Così l’ha definito un mio amico, ed è vero. Nelle ultime ore si è diffusa una notizia relativa a un fatto successo nel paese qui vicino. Una giovane ragazza per fare una storia sui social si è fatta fotografare tutta sorridente mentre spingeva un gatto in una fontana, e visto che siamo in inverno e il gatto era vecchio è morto congelato. Non voglio dare definizioni del gesto, per nulla divertente, e nemmeno voglio immaginare che l’intenzione fosse ucciderlo, penso piuttosto che non si rendesse proprio conto che le sue azioni potessero avere delle conseguenze, fatto sta che ora la ragazza che si è fatta fotografare in flagranza di reato rischia un bel po’ di problemi. E questo anche perché la donna che si prendeva cura del gatto, viste le foto pubblicate sui social, ha denunciato pubblicamente la ragazza facendo anche lei un post su Facebook in cui ne indicava nome e cognome. Cosa che, per quanto tu possa avere ragione ad essere arrabbiata, non puoi fare, la legge non lo permette per ovvi motivi. Infatti, la donna ha subito corretto il tiro, cancellando il nome e sostituendolo con le sole inziali, ma quando ha letto il suo post originale qualcuno ha pensato bene di cercare sui social la giovane ragazza nominata per farle sapere cosa pensava di lei. Sbagliando persona. Un’omonima che vive nello stesso paese della giovane ragazza ha scritto di aver ricevuto delle minacce di morte per il solo fatto di chiamarsi come quella che ha ucciso il gatto. E qui ci sarebbe davvero da chiedersi quale linea separa una persona che per divertimento si accanisce contro una creatura più debole di lei, da una che per un moto di rabbia si sente autorizzata a minacciare di morte una persona che nemmeno conosce per il solo fatto che ha letto il suo nome in un post.

i bambini animali

In classe chiedo ai bambini quale animale si sentono e perché. Sono tutti, indistintamente, ghepardi, leopardi, pantere, puma, lupi, animali velocissimi e selvaggi, pronti a sgranocchiarsi la vita fino all’osso, i più paciocconi si sentono insieme ghepardi e koala, velocissimi sì ma sempre pronti all’abbraccio. Una si sente un cervo libero (libero e maestoso, puntualizza, ma che non morde nessuno), un altro si sente un orso ballerino e una bambina più spiritosa si vede come una sardina in scatola, perché è salata. Più miti e realistici (perché vivono in campagna e parlano di ciò che sanno) ci sono un bambino capra e una bambina coniglio. Sono tutti animali coi piedi per terra. L’unica, in tutta la classe, che si mette le ali è la più timida, la più pallida, la più minuta, la più imbranata, quella che le cadono sempre le matite per terra e non parla mai, e quando parla ha la voce così sommessa che non arriva nemmeno alla compagna di banco, e mi dice: Io mi sento un pettirosso, perché sono pronta a dare il mio messaggio, ma quando ci provo mi fa male il cuore.

il fidanzato

Autrice che si propone con una sua opera e mi scrive: Sono talmente innamorata dei vostri libri che ho costretto il mio fidanzato a regalarmeli tutti. – Come farsi odiare dal fidanzato di una donna senza nemmeno doverla insidiare.

giovedì 11 gennaio 2024

westfront 1918

Westfront 1918 di G. W. Pabst, è stato primo film sonoro girato, nel 1930, dal regista. Quando si dice sonoro si intende che l’80% del sonoro – mancando una colonna sonora – sono rumori “naturali” di un campo di battaglia, esplosioni, spari e grida, al punto da avere un effetto stordente sullo spettatore. È uno dei più bei film sulla, o meglio, contro la guerra che ho mai visto. Il primo paragone che mi viene in mente è Kubrick che probabilmente ha preso alcune cose da qui per il suo Orizzonti di gloria, a cominciare dal fatto che quasi tutto il film è ambientato in trincea, in mezzo al fango, in un bianco e nero sporco e con una fotografia piena di grana che già da sola varrebbe la visione dell’opera. Nulla è spiegato, tranne la brutalità della guerra che sommerge ogni cosa e la uccide, né c’è un protagonista del film perché tutti i soldati sono destinati a morire, impazzire e venire sconfitti, e anche per questo l’opera venne censurata con l’avvento in Germania di Hitler.

una parola che hai scritto

La mia perla di oggi è stata un bambino che si avvicina per chiedermi di piegargli il foglio con la mappa del mondo lungo la linea equatoriale, e per giustificarsi mi dice: "È che io non so piegare niente. Sono storto di testa". Poi mi guarda la barba mentre piego il foglio e fa: "Secondo me ciascuno dei peli che ti cresce in faccia è una parola che hai scritto". Io sono sicuro che da grande tu sarai un poeta, gli dico, e lui si mette a ridere perché pensa che lo sto prendendo in giro.

martedì 9 gennaio 2024

il fantacalcio

Autore che mi tiene 15 minuti al telefono, con una voce roca e strascicata che pare Califano, per spiegarmi come funziona la distribuzione, di cui io in tutta onestà non ho capito i segreti meccanismi, ma invece pare che per gli altri sia importantissima, e perentorio mi dice: Antò, jè devi dà a mazzetta, sennò nun passi! (A me sembra il fantacalcio).

equilibrio

La psicologa che mi dice Antò il tuo problema è che a un certo momento della tua infanzia tu hai scelto di essere il bambino buono, e da quel momento vai in loop, ogni volta che si presenta un problema riemerge il bambino buono che si carica dei problemi di tutti. Ma non va bene così, ogni tanto serve anche far emergere il bambino cattivo che risponde male e alza le mani se qualcuno si approfitta. Non è facile, ma solo così si crea un equilibrio.

farsi le seghe

 Dopo il post di ieri sul “pubblico della poesia” un amico mi scrive, sfottendomi: ma perché fai questi post in cui parti con un pensiero e poi giri a vuoto? A che servono? Non è un po’ come farsi le seghe? – Sì, assolutamente sì, gli rispondo. Il problema è che io sono meridionale, e i meridionali sono barocchi nel profondo e sono pregni di morte (Sciascia), e si fanno un sacco di seghe in barba alla morte, bellissime seghe barocche. Non è un caso che molti filosofi italiani abbiano origini meridionali. – Aggiungo però una cosa. Stanno tutti sempre a lamentarsi che manca la critica letteraria. Io non sono un critico così come non sono un filosofo, però un pensiero disinteressato sul mondo editoriale, con tutti i miei limiti, provo a costruirmelo. Invece mi pare, e non vale solo per me, che ciò che uno scrive, se è non indirizzato alla nota di lettura o recensione spicciola del singolo volume, venga spesso inteso come perdita di tempo, una sega mentale. Insomma, delle volte ho la sensazione che quando ci si lamenta della mancanza di critica letteraria, ciò che interessa non è tanto la critica letteraria in sé, ma la critica letteraria “a me”, non un pensiero su quanto ci sta accadendo intorno e ci coinvolge tutti, volenti o no, ma solo uno che si prende la briga di leggere il tuo libro ed emette un giudizio di valore su quello, meglio se col bollino blu, così possiamo condividerlo sui social e aggiungerlo in cartella stampa. Che è, mi permetto, un’altra forma di masturbazione, assai poco meridionale perché senza fantasia. Così, già se uno mette il tuo libro con altri libri generalizzandolo nel mucchio fa peccato, ma ancora peggio, se lo accantona proprio per fare un pensiero un pochino più alto che non entra nel merito specifico della recensione, ponendosi domande assai poco pratiche e senza risposta, sta già pisciando fuori dal vaso o, per alcuni, ha già ripreso a farsi le seghe.

lunedì 8 gennaio 2024

il nemico

Stamattina ho letto un post scritto da una famosa scrittrice italiana (Policastro) contro un famoso scrittore (Arminio) il quale è molto amato dal pubblico, ma non particolarmente apprezzato da una parte del mondo letterario per come ha abbassato il livello e le ambizioni della propria ricerca stilistica per avvicinare un pubblico più ampio. Fra gli altri, sotto il post della Policastro, c’era un commento (Bortoli) che mi ha particolarmente colpito perché diceva più o meno così: “io non ce l’ho con Arminio perché è famoso, ma perché aveva talento, ha fatto molte belle cose, poteva farne ancora, ma si è venduto”. Sulla prima parte sono anche d’accordo, ma è su quel “venduto” che mi si è accesa una lampadina che non riesco a spegnere. Mi sono chiesto: Ci si vende a chi? Ma al nemico, al diavolo, alla parte avversa! E io continuo ad arrovellarmi su chi sia il nemico. È il successo? È il pubblico? È il mercato? (Ma il mercato non fa che assecondare i gusti del pubblico). È un pubblico più ampio, quindi è la massa? Sono quelli che pagano, i consumatori? Ma quindi i consumatori non sono pubblico? E quindi chi compra i dischi dei Beatles, che muovono milioni di copie, non sono pubblico? Chi è il nemico? È dove sta rispetto a me? Mi sta di fronte o di fianco? E da che parte sto io rispetto a un Arminio, ma anche rispetto a una altrettanto paradigmatica Policastro? Perché non avendo lo stesso loro pubblico che nobilita il mio curriculum, non sono sicuro che lei possa considerarmi un suo pari almeno quanto non sono sicuro che lo possa fare lui. Il talento non mente, diceva Benjamin, ma un talento senza pubblico non fa nessuna differenza sul piatto della bilancia. E quindi rispetto al pubblico, da che parte sto io? L’ho mai guardato in faccia? E se capitasse, lo riconoscerei? Gli ho mai chiesto cosa vuole da me, se qualcosa vuole? E mio dovere qual è? Vendermi ad esso, oppure tradirlo? E se lo incontro, cosa gli dirò? Continuo a chiedermelo, un po’ come mi chiedevo chi sono i barbari di Kavafis, in attesa di incontrarne uno.

domenica 7 gennaio 2024

eddie

 Un giorno dovrò scrivere un post serio sull'emozionante mondo delle volture, quando l'intestatario di ogni contratto muore e tu devi inoltrarti nell'avventurosa selva delle telefonate al numero verde o ancora meglio interconnetterti con Eddie, la mascotte virtuale che ti chiede ogni volta di assegnargli le stelline di qualità, senza mai risolverti il problema. Certe volte mi pare una partita a scacchi. Come quando chiedi specificatamente dove sta il modulo di "cambio titolarità per decesso" da produrre in triplice copia per inoltrarlo a tre uffici diversi, in un sito che sembra la nuova cittadella kafkiana e Eddie ti rimanda gioiosamente al prestampato in cui l'intestatario cede di sua sponte la voltura con tanto di casella per firma in calce. Tu provi a far presente a Eddie che l'intestatario non può firmare più nulla perché è morto, ma Eddie ti risponde: Se me lo dicevi prima risparmiavamo tempo, e ti manda altrove ma non dove volevi arrivare...

scrivi

Lo dico con affetto, ma io non ho ancora capito quelli che affermano di voler diventare scrittori o poeti e poi si vogliono promuovere esclusivamente su quei social dove si scrive poco o nulla (anche per limiti imposti di battute, motivo per cui non mollo il blog), dove cioè ci si promuove solo attraverso la propria immagine con al massimo una frasetta simpatica o pochi versi estrapolati e messi in calce, o con una storia o un video in cui si parla di quanto è bello scrivere senza sporcarsi più di tanto le mani. Anche a me piace la fotografia (così come mi piacciono i selfie), e anzi è bello che uno riesca a esprimersi su più fronti, ma uno che nella vita vuole scrivere dovrebbe presentarsi al mondo prima di tutto scrivendo, o meglio ancora il suo primo impulso, il suo bisogno primario, dovrebbe essere quello di scrivere, perché io che mi sento uno scrittore comunico col mondo attraverso le parole. E non farsi le pose per dire quanto le parole mi piacciono, o per suggerire che quando non mi vedi qui io sto scrivendo il capolavoro del secolo che prima o poi vedrai stampato da chissà chi e come, sulla fiducia. Sarò antico io forse, ma non la capisco proprio come cosa. Diverso è il caso di chi sceglie di non comparire. Ma se uno vuole mostrarsi al mondo soltanto con le foto o i video, non dico che sia sbagliato, ma forse dovrebbe interrogarsi se non sia meglio per lui fare altro, il fotografo, o il modello, o l’influencer. Ma lo scrittore no. Come diceva quello: Nulla è sicuro, ma scrivi.

sabato 6 gennaio 2024

per il compleanno di bogdan

Oggi è (o sarebbe stato) il compleanno di Bogdan. Pubblico, come ricordo, le foto che gli ho fatto esattamente un anno fa di oggi, quando andammo a trovarlo con Pino Incredix. Non sono belle foto, ma sono le ultime foto che ho di lui. E devo dire che sono grato a Pino perché se non fosse stato per lui forse non ci sarei mai andato. È stato lui a mettere in moto una serie di azioni per cui, quando siamo andati lì, e io mancavo da casa di Bogdan da parecchio, ci siamo accorti che non stava bene, così il giorno dopo ho fatto un appello per chiedere ai servizi sociali di intervenire; Paolo Giacovelli, assessore, si è preso a cuore la cosa e mi ha chiesto di contattare la famiglia per ottenere dei permessi, io ho trovato i contatti grazie a Roberto Bancora, che si era già occupato di Bogdan alcuni anni prima; e così ho scritto a suo figlio Ned e a sua moglie Mariarosaria, che anche se viveva separata da Bogdan, ha avuto la forza, la generosità, il coraggio e l’affetto di venire qui a dargli una mano e provare a salvare il salvabile. E anche se non siamo riusciti a fare granché per lui, perché la situazione è precipitata in pochissimi mesi, siamo almeno riusciti a fare in modo che Bogdan, poco prima dell’ultima crisi, avesse modo di conoscere i suoi nipoti. Lui si vergognava, per cui si era chiuso in casa con una scusa. Noi organizzammo apposta un blitz famigliare, a cui partecipai anch’io, e mi ricorderò per sempre, quando li ho accompagnati da lui, questi due bambini che mi chiedevano com’era fatto il loro nonno e io dicevo loro: “Ha la barba lunga e porta dei cappelli strani, e vive in una casa tutta di legno, è come uno gnomo!” e loro ridevano contenti. E ora posso dire che è stato un bene, perché mentre me ne andavo per lasciarli da soli, mi sono girato e ho visto Bogdan seduto sulla sua sedia viola in giardino che abbracciava teneramente questi due bambini ed è l’ultima immagine bella che ho di lui.   

fama

Autore che mi telefona il giorno della Befana. Buongiorno, mi è giunta voce che voi siete una casa editrice non a pagamento. Corrisponde a verità questa cosa? Ah benissimo, mi presento, io sono ???????? e non per vantarmi ma sono uno scrittore già molto famoso, e sempre senza falsa modestia penso di avere scritto ultimamente non uno, ma bensì due capolavori. Glieli mando in settimana che viene, poi lei mi dirà se vuole pubblicarli entrambi oppure uno solo, va bene? Lei si chiama? Ah Antonio Lillo, ed è famoso lei? Mi scusi, ma non l’ho mai sentita nominare in vita mia.

uomini di un altro paese

Esiste una profonda differenza tra la maggior parte degli autori ebrei che sono diventati celebri nella letteratura tedesca, e un piccolissimo gruppo che è però di altissimo livello. Per quelli del primo gruppo, come ad esempio nell’ultima generazione Arthur Schnitzler, Jakob Wassermann, Franz Werfel, Stefan Zweig, il fatto di appartenere alla cultura tedesca, ovvero al popolo tedesco, è cosa ovvia. A questa inquietante e tragica illusione, che già uno dei primi autori di tal specie, Berthold Auerbach, pagò alla fine della sua vita e all’inizio del movimento [antiebraico] di Stöcker con le parole divenute famose e ahimé! buttate al vento: «Vissuto invano, sofferto invano», soltanto pochi tra i cervelli di prim’ordine dell’ebraismo di lingua tedesca sono sfuggiti. Tra costoro si annoverano Freud, Kafka e Benjamin. Quasi per l’intera loro esistenza essi si sono serbati indenni dalla fraseologia tedesca, anzi dall’espressione «noi tedeschi», e scrissero con piena coscienza della distanza che, in quanto ebrei, li divideva dai loro lettori tedeschi. Essi sono i più validi tra gli autori cosiddetti ebraico-tedeschi, e la loro vita attesta tale distanza, il suo pathos e le qualità o possibilità creative che per essi ne scaturivano, non meno dei loro scritti, nei quali, seppure avviene, assai raramente si accenna all’ebraismo. Essi non s’illudono. Sanno di essere scrittori di lingua tedesca, ma di non essere ‘tedeschi’. L’esperienza e la limpida consapevolezza dell’estraneità, anzi dell’esilio, che la maggior parte degli altri autori dell’élite ebraico-tedesca si sono arrovellati a evitare o a negare tanto radicalmente e seriamente, e tuttavia senza alcun risultato, non sono dileguate in loro. Per quanto fortemente essi si sappiano legati alla lingua tedesca e al suo mondo spirituale, non sono mai stati vittime dell’illusione di trovarsi in patria – un’illusione dalla quale avrebbero dovuto preservarli esperienze ben precise della loro vita (che però in altri casi non sono servite affatto). Non so se si sarebbero sentiti in patria in Israele. Ne dubito molto. Erano, nel vero senso della parola, uomini di un altro paese: e lo sapevano.

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GERSHOM SCHOLEM, Walter Benjamin e il suo angelo (Adelphi, 1978)

venerdì 5 gennaio 2024

Oggi mi sono finalmente regalato la visione di Enzo Jannacci. Vengo anch'io, di Giorgio Verdelli, e posso solo dire quanto sia bello questo fillm. In genere i documentari sugli artisti non sono quasi mai all'altezza delle aspettative, sempre troppo carichi, come quello su Gaber, o semplicemente insignificanti. Ci sono poi delle eccezioni, e così ad esempio questo insieme al documentario su Patrizia Cavalli sono le cose più belle che ho visto negli ultimi mesi. Il film su Jannacci però, forse perché amo l'artista, è qualcosa che tocca corde molto più profonde, e mi sono commosso più di una volta nel vederlo. Soprattutto quando il figlio dice una cosa in cui mi sono riconosciuto, dice cioè che Jannacci era in grado di toccare picchi altissimi di successo e cadute rovinose, ma a lui non importava un granché, perché lui seguiva un suo percorso basato sulle parole "coerenza" e "decenza". Ecco, io sto lì, o mi piace stare lì, con lui, seguendo una mia coerenza e perseguendo una decenza che spero siano percepite anche se non portano al successo.

graziano

Oggi ripensavo al mio amico Graziano, che è morto qualche anno fa. Graziano era un musicista rock e una persona dolcissima, aveva un cuore urgente. Più di tutti amava la musica di Vasco Rossi, e sognava un giorno di diventare una tartaruga di mare. Una volta, durante un corso di scrittura, mi raccontò la sua storia. "Sono nato vicino a Bari nel 1963. Stavo per nascere in Svizzera, il ginecologo disse a mia mamma che sarei stato bene lì, ma mia mamma voleva che suo figlio nascesse in Italia. Così mio padre ci ha riportato giù. Con la musica poi ho girato tutta l’Europa, e ora la musica è la sola cosa che mi è rimasta". Spero sempre che ora stia nuotando, libero, oltre l'Europa, per ogni possibile oceano.

dialetto politico

L’altro giorno ci dicevamo con Luigi Ianzano che se c’è una forma di poesia che l’AI non riuscirà mai a imitare né scrivere sarà quella dialettale, perché quella dialettale è una poesia che sta tutta nella lingua viva dei parlanti, nelle sue sfumature, che cambiano da paese a paese, a volte a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro: il dialetto della mia Locorotondo, ad esempio, non è lo stesso di Martina Franca, che sta a cinque minuti di macchina, e quello che si parla nel borgo differisce da quello del contado. Sono sfumature spesso minime, ma per questo mai codificate e a volte nemmeno codificabili, che si radicano nel cuore delle cose stesse di un paese e le fanno diverse da un paese all’altro. Troppo lavoro ci vorrebbe per codificarle tutte, e raccogliere abbastanza informazioni sulla vita di territori così piccoli solo per produrne un testo scritto da una AI. Più facile allora per tutti che si perda la lingua minore, tanto più che l’italiano già di suo è a rischio. E in questo passaggio mi è venuto in mente come all’inizio del secolo scorso, quando vennero fuori i primi discorsi sulle società di massa di cui l’AI è in fondo una figlia, una dei primi imperativi all’ordine del giorno per poter appunto allargare il discorso a quante più persone possibile, livellandolo e massificandolo, fosse proprio questo smantellamento dei dialetti, la loro cancellazione forzata tramite la scolarizzazione per favorire il nascere dello Stato, perché dove si parlano mille dialetti non si viene capiti e se non si viene capiti allora non si può controllare né essere controllati. Se c’è una sola cosa che ha unito gli opposti Gramsci e il fascismo è stata questa: la convinzione che il dialetto fosse lingua del disordine per uno Stato e andasse censurata. E ho pensato che se in futuro ci sarà davvero da parlare di poesia politica, poesia contro, poesia profondamente umana e popolare, come insegna Pedretti, poesia sovversiva e segreta fino al punto da farsi carbonara per sopravvivere a qualsiasi intelligenza piovutaci dall’alto, quella poesia non sarà italiana, ma dialettale.