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giovedì 11 gennaio 2024

westfront 1918

Westfront 1918 di G. W. Pabst, è stato primo film sonoro girato, nel 1930, dal regista. Quando si dice sonoro si intende che l’80% del sonoro – mancando una colonna sonora – sono rumori “naturali” di un campo di battaglia, esplosioni, spari e grida, al punto da avere un effetto stordente sullo spettatore. È uno dei più bei film sulla, o meglio, contro la guerra che ho mai visto. Il primo paragone che mi viene in mente è Kubrick che probabilmente ha preso alcune cose da qui per il suo Orizzonti di gloria, a cominciare dal fatto che quasi tutto il film è ambientato in trincea, in mezzo al fango, in un bianco e nero sporco e con una fotografia piena di grana che già da sola varrebbe la visione dell’opera. Nulla è spiegato, tranne la brutalità della guerra che sommerge ogni cosa e la uccide, né c’è un protagonista del film perché tutti i soldati sono destinati a morire, impazzire e venire sconfitti, e anche per questo l’opera venne censurata con l’avvento in Germania di Hitler.

sabato 22 giugno 2019

oro


 7 Marzo 1999

Piove da tre anni. Pioverà ancora. L’uomo della pioggia non potrà fermarsi. Non l’aveva previsto. Ne ho comprato la pietà con del bourbon ed un fucile. Ho puntato la verità ai suoi occhi e ho detto: Guarda! Ed ha negato. Perché è il più grande di tutti. L’ultimo. Ah! come l’avrei amato! Il cantastorie assoluto! Avrei scelto per me il vero perdente. Anni fa. Ma il mio dono è l’errore. L’eredità la perdita.
Piove da sei anni. Pioverà ancora. Mi sono rifugiato nel mio castello antico. Nel mio appartamento di Hopper. Come per spiarmi. Nel mio armadio ho nascosto l’intero mio deserto. Ogni singolo granello di polvere disperde fugaci apparizioni. Fughe! Mi vesto di stelle. Il manto regale cucito di notte sulla pelle. Oh ricordo! Rievoco l’attimo in cui scegliesti il punto perfetto per colpire e stupire col sangue… Ma non v’è più niente da cercare. Niente altro da dire. Come per l’arte. Solo i miei sentimenti. E tu mi hai dato l’occasione. La visione, ah! la visione! Converso con un’idea – mi acceca! Tu sei come me? Non vuole lasciarmi. Mi credi tuo? Si infuria ad ogni mio suono. Ma io emetto palpiti e sospiri – come tutto corrisponde! Loro; la dose, solitudine di un’auto; la saggezza di Marco Aurelio; la mia infanzia. Ma è quantomai banale! Quantomeno volgare! Allora l’infamia è il tuo telefono da un’ora, che geme nello stacco fra lo squillo e la risposta, la prova di fratellanza. Ci sei o ci sono dispongo del tuo tocco! Conosco anch’io la voglia! Solo il mio bisogno irresistibile! 
Io e lui in confessione su una strada americana – O pudica America! – interminabile e nuda, come le sue parole. Dove arriva? chiede innocente. Ne cerchiamo per ore la fine, ma è inutile. Voltandoci indietro confrontiamo le distanze, e ogni volta la strada percorsa è lunga quanto la strada da percorrere ancora. Ah torniamo indietro! dice con rancore. Torniamo indietro e il quadro è esploso – nessuno ce l’ha fatta. Ma lo spazio è una mandria di fumo forzata e piegata dal vento con l’intimidazione e la violenza. Fomentata dal fuoco. Ci contendiamo, io e lui, l’ossigeno: avidi, ingordi, ne possediamo, ne ingoiamo quanto più possiamo senza sentirne quasi il duro sapore, fino a slogare la mascella, fino a consumare l’ano, e chi vince e chi perde comunque muore! – Oh troppi moti dell’anima, troppi intensi patimenti! E nello spazio è come se non fosse mai cominciata. Ma tardi. 
Ho visto cose accalcarsi per la mensa dell’acido, come poveri dementi spartirsi pezzi di sole dilaniato delle dimensioni di un’unghia che scordi pure il freddo della notte, litigare e ferirsi per quello, distribuito agli angoli di strada da uomini cercati così a lungo, ed io indossavo solo una lanterna. Ho visto, nella sua luce, nascere grattacieli cannone e statue di piombo e pezzi di carne fresca, grondante sangue, appesi in mostra per il domani e colori nel calderone e tutti i linguaggi da unificare sotto la luna oscura di Babele, perché priva dell’altra metà del cielo. Ho capito cose – malamente malmenato, picchiato sulla testa dai soldati della Democrazia e collezionavo solo ritagli di giornale, opere d’arte stampate male, in bianco e nero sporco, immagini dispersive in puntini allucinati d’oro pallido, ricordi trattenuti in cartelle tutte uguali, imbevute di veleno storico, tutte dalla stessa parte, della stessa pasta morale. Prigioni! 
Ma dopo l’ultimo omicidio, dopo il furto, lo stupro, dimenticai. E tutto ciò che volevo era una pistola. Una pistola da tenere sul cuore. Una pistola contro una spada: il duello cittadino, l’umano dilemma, la tua domanda segreta: Potevi giurarmi fedeltà eterna? Potrò mai perdonarti, io, la tua diversità? Il nostro fallimento, la mia incapacità comune verso l’ovvio. Nessuno capirà fuorché le pietre! Pazienza! L’ovvio! Ma ora conosco la vendetta: l’eliminazione del ricordo. Terrò per me dunque il mio sogno del Regno delle Capre, pisciatoi stellari in cui si riflettono lucide volontà, città celesti gremite di mani, angeli stregati in rifugi arabici, grotte chiare come pozzi d’eco dove l’amore è lontano, l’orribile letteratura antica è lontana, i canti mi angosciano… 
Per te, 
che hai aurore boreali e festoni giapponesi danzanti negli occhi, vigili come lucertole, che battono veloci all’ago nella mia schiena come fosse un tamburo selvaggio, perché riunisca per il festino della notte, la notte nascosta dietro il tuo orecchio sussurra: Tradimento! Tradimento! Il re è morto! La notte nel pozzo, o di guardia, per sempre alla tua porta, estraneo alla tua luce… immaginando. La mia testa, Erodiade, persa fra le tue parole non dette. Così ti perdo… 
Tutti i miei pensieri in continua evoluzione, entro nel mio secondo letargo… Andato male anche questo tentativo. Un’altra fuga nei miei sogni poi – al sicuro dietro i miei quattro muri chiusi – ah tutti quei volti pieni di vita! – sopraffatto dai volti! Questa: la mia fortezza della solitudine! 
…A volte penso: Vissuto troppo poco a lungo per poter decidere sulla giustizia o sull’ingiustizia dei miei anni. Ma grazie sorella Fortuna! Grazie per l’assenza! Io, posso convivere col Crimine. 

giovedì 27 dicembre 2012

nel labirinto


C’era un film che girava in tv quand’ero ragazzino, Labyrinth. Parla di Sarah, adolescente a cui il re dei Goblin (interpretato da David Bowie) rapisce il fratello. Per salvarlo, Sarah attraversa un labirinto pieno di trappole insidie e personaggi surreali, al termine del quale si ritrova adulta. È insomma la classica storia di formazione evidenziata, nello scontro finale col Goblin, dalle parole: “La mia volontà è forte come la tua e il mio regno altrettanto grande. Non hai alcun potere su di me!”
Natale, come Dickens insegna, evoca fantasmi. I nostri, oggi, sono lontani da qualsiasi intento edificatorio. Eppure, quanto sarebbe bello poter pronunciare le stesse parole di Sarah all’indirizzo di chi ci offre un labirinto da attraversare senza alcun premio alla fine né un percorso di crescita, quasi fosse una punizione per la nostra stessa povertà morale.
Se fate attenzione, fra i sintomi più evidenti della recessione vi sono i Compro Oro, spuntano come funghi. Parlando con chi ci lavora, gente abituata a scene di comune disperazione, viene fuori quanto la cosa più assurda sia l’incredulità di quelli toccati solo in parte dalla crisi, i quali pur riconoscendola non riescono lo stesso a immaginare la tavola di chi non sempre ha del pane.
Si dice che i poveri siano diventati più poveri e i ricchi più ricchi, ma ecco il fantasma peggiore: la vittoria del re dei Goblin che è riuscito a separarci dal nostro stesso fratello. A dispetto della sua storia di solidarietà, questo Paese è popolato da persone sole, diffidenti, non sempre pronte a sostenersi nelle difficoltà. Un paese spaventato, egoista e debole, la cui la rabbia che pure potrebbe fornirci l’energia necessaria a risollevarci, non attecchisce come dovrebbe.
Lo si è visto bene a Taranto: uno sciopero enorme, l’intera città bloccata, ma per cosa? Gli operai impotenti, la loro disperazione usata come merce di scambio per salvare i Riva dal disastro. I partiti, che intanto giocavano alle primarie, collusi con un potere cieco, strafottente e corrotto, che non possono o non vogliono negare. E noi?
In questo labirinto senza uscita, senza orizzonte, mi chiedo: avremo la forza di reagire, di ritrovare una dignità di diseredati per fare fronte comune? Oppure, se gli dei della terra sono indifferenti, chi ci offrirà soccorso quando pronunceremo la nostra preghiera di Natale? Guardo al cielo e mi chiedo: c’è vita su Marte?

Articolo uscito su Largo Belllavista n°65, dicembre 2012, nella rubrica Senilità. Nella foto Jack Nicholson osserva il labirinto dall’alto, in una scena di Shining, di Stanley Kubrick.