martedì 25 maggio 2010

sotto la cenere

I’m losing you è una canzone strana. Come tematica e livello di incazzatura sembra più vicina alla produzione di Lennon dei primi anni ’70, quello a cavallo fra fase punk e la moglie che lo lascia. Però sta sul suo ultimo disco, accreditato alla pari fra lui e Yoko ritornata a casa. Anche la versione che vi metto qui sotto ha una sua storia tutta particolare. Di gran lunga superiore a quella poi inserita nell’album Double Fantasy (quello di Woman, per intenderci), è stata realizzata coi Cheap Trick, gruppo coi controcazzi che venne inizialmente chiamato per registrare con Lennon e poi inspiegabilmente licenziato dopo una sola seduta. Il perché non si sa, visti i risultati. Qualcuno insinua che al solito ci si è messa di mezzo Yoko (definita da Rick Nielsen, leader del gruppo, “una fottuta strega”). Qualcun altro invece sostiene che fu una scelta di produzione, perché si intendeva puntare su un suono più dolce, pop, e lo stesso Nielsen ammette che non sempre il sound della band riusciva ad amalgamarsi con tutte le sfumature del cantato di John. Fatto sta che per noi lennoniani la sua pubblicazione, a vent’anni di distanza, è stata manna dal cielo, la riprova che, al di là di quello che andavano dicendo i suoi detrattori per via delle sue ultime cose, e cioè che Lennon come artista rock era finito, la scintilla del genio bruciava ancora violenta sotto la cenere e talvolta, se stimolata a dovere, veniva fuori senza compromessi. E poi il video è fighissimo.



Canzone in risposta a quella pubblicata sul blog di Sergio Garufi.

lunedì 24 maggio 2010

i fichi

Questa canzone riguarda tutti i nostri pomeriggi spesi in piazza a cazzeggiare su scalini, a bere birra e a parlare di culi o d’amore. A pensarci certe volte ti rendi conto che così se ne vanno gli anni migliori della vita e forse, ci pensi altre volte, non potrebbero andar meglio di così, nell’attesa di qualcosa di nuovo e sconvolgente che arriverà a salvarci (come nei film americani) o forse no. Per tutte quelle ore passate in questo modo coi miei amici, stesi al sole come i fichi a seccare, è stata scritta questa canzone, la più bella dei Rolling Stones, che non posso caricarvi qua sotto per motivi di codici da incorporare bloccati ecc ma fa nulla, ve la linko qui e sotto ci metto la versione live dei Pearl Jam che è altrettanto bella. L’originale è più scanzonata, proprio come la vivo io questa cosa, l’altra è più romantica ma va bene per altri momenti. Diciamo dopo la seconda o terza birra e se hai voglia di cantare.



Canzone in risposta a quella pubblicata sul blog di Toupie.

venerdì 21 maggio 2010

futon

Due quartine dal mattino.

Bianco

Dal vortice della trapunta in una pozza
di luce mattutina le dita dei tuoi piedi di pietra levigata
si allungano a toccare l’orlo degli slip
smarriti sulla strada del futon. Fuori piove, ma promette estate.


Nero

Inutile acqua piovana acqua e ruggine
di rubinetto
inutile a spegnere la sete del risveglio
il ricordo del suo mignolo perfetto.

martedì 18 maggio 2010

scritto in morte di sanguineti


C’erano tante cose che mi piacevano di Sanguineti, a cominciare da quel nasone che spuntava deciso sulla copertina di Mikrokosmos, l’antologia da lui curata dei suoi lavori preferiti in cui mancava però una delle nostre poesie preferite, senza titolo, da Reisebilder, cosa di cui spesso ci dispiacevamo. Uso il plurale perché parlo del mio gruppo poetico, quello con cui ci siamo letti e appassionati alle sue opere, per ribadire come una persona tanto lontana da noi per età e cultura e distanza geografica possa comunque parlarci, anche attraverso un linguaggio non sempre semplicissimo, per mezzo della poesia.
L’abbiamo detto tante volte con gli altri che un giorno o l’altro avremmo dovuto beccarlo in una delle sue molte conferenze in giro per l’Italia, prima che fosse troppo tardi. Qualcuno di noi ci è anche riuscito. A me personalmente la fortuna non è mai capitata. Mi ricordo una volta che scoprimmo che doveva parlare di Dante nel museo di Egnazia, antica città romana a una mezz’ora da casa nostra e ci organizzammo con due settimane di anticipo per andare a sentirlo. Ma la conferenza fu annullata un’ora prima di cominciare perché Sanguineti stava poco bene, come ci dissero i responsabili del museo, salvo poi sentire in giro voci che la vera ragione di tale malore era stata una bella indigestione a pranzo.
Non ci troverei nulla di strano. Perché questa è l’altra grande cosa che mi piaceva di lui, grande almeno quanto il suo naso, la capacità di coniugare il suo notevole pensiero intellettuale coi bisogni istintivi, naturali o primari dell’uomo. Sanguineti non ha mai negato questi istinti, mai nascosto, anzi li ha sempre esposti con divertito compiacimento, filtrandoli attraverso la lente di un’ironia acutissima, senza pari, quella che rende esemplare persino la banalissima parabola di vita borghese da lui vissuta e analizzata al microscopio e vivisezionata attraverso le sue infinite parentesi. La ferrea onestà intellettuale di Sanguineti in questo consisteva: nell’innalzare l’uomo a modello senza però rinunciare ai suoi difetti, nevrosi, nevralgie, ridicole pulsioni o vanità. Senza tale onestà oggi non sarebbe probabilmente così ammirato e apprezzato anche da generazioni di poeti molto più giovani di lui e che in lui vedono un fratello maggiore, teso a smitizzare la figura del poeta colto attraverso la cultura stessa, ridandogli attraverso la risata quella levità perduta: l’unica maniera oggi per sopravvivere in un mondo che appunto rifiuta la cultura e il libero pensiero in quanto frutto di tempo fatica e studio contro l’illusione fugace del facile successo di stampo americano, ottenuto grazie alla fortuna, all’astuzia o a un bell’involucro di sé da vendere.
Sanguineti era un uomo brutto, un comunista e difficilmente avrebbe potuto vendersi a qualcuno. Però sapeva ridere di sé, di noi, e con gusto ed è questo che rende sempre godibili persino le sue composizioni più ostiche, per una frase, un pensiero, un colpo di genio che sempre abbassa e rilancia il discorso su un piano più umano, vitale, dal fluire magmatico e talvolta indecifrabile di quell’immensa terra desolata che è la sua poesia.
C’è una storia che gli ho sentito raccontare in un video in internet, in cui racconta che nel portafogli di suo padre, quando morì, gli trovò un foglietto su cui c’era scritto, come motto per la vita “carpe diem”. E concludeva dicendo che quando sarebbe morto lui si sarebbe ritrovato lo stesso foglietto nel suo portafogli. In fondo vi è espressa in questa parabola tutta la poetica di cui abbiamo fin qui parlato. Carpe diem, cogli l’attimo, vivi in vista della morte, ma in latino.
Mi sono sempre chiesto se andando a vedere gli avremmo trovato davvero addosso quel foglietto, ma adesso mi rendo conto che non è più così importante, che in fondo quel discorso è più bello se lasciato così, senza risposta, proprio come la poesia da noi tanto amata, da Reisebilder, ed esclusa chissà perché da Mikrokosmos. La poesia parlava di un’intervista concessa a tale giornalista Gisela e finiva così, (con una di quelle chiuse straordinarie in cui era maestro):

(e il momento più felice della mia vita, ho risposto, sono stati tre momenti: e ho detto quali):

lasciando quei momenti in sospeso, per sempre.

il bolero secondo zappa

giovedì 13 maggio 2010

due poesie d'amore e di strada di pasolini



Lunedì prossimo sono stato invitato a Bari a un reading contro l’omofobia. Ho passato pertanto le ultime ore a cercare delle poesie interessanti da leggere (oltre alle mie) di alcuni grandi poeti omosessuali. E non potevo non soffermarmi su alcune poesie di Pasolini che, per la sua necessità di farsi essenza stessa della propria arte, è stato uno dei più sinceri nell’affrontare l’argomento.
Quelle che pubblico qui le ho lette ieri notte: mi ricordavo vagamente la prima e sono andato a cercarla, e trovando quella ho ritrovato anche la seconda, meno nota. Devo dire che entrambe mi hanno affascinato più di quanto non credessi: era tanto che non leggevo Pasolini e ritrovarlo così, ancora fresco, diretto, durissimo a volte, fa bene al cuore.
La cosa straordinaria a leggerle una dietro l’altra sta nel fatto che sono state scritte a pochissimi anni di distanza e sono, pur nell’affinità del tema (incontro notturno in auto con ragazzo), diametralmente opposte come stile e, soprattutto, come sentimento.
Entrambe scaturiscono dall’insaziabile bisogno d’amore di Pasolini. La prima, datata 2 settembre 1969, è una lunga e felice poesia in verso libero dedicata a Ninetto Davoli, una vera e propria dichiarazione. La seconda invece, scaturita in seguito alla rottura con Ninetto, è in forma di sonetto e preannuncia la ricerca randagia di piacere che segnerà i suoi ultimi anni di vita. A quel punto Pasolini ha già rinunciato all’idea di una felicità di coppia (peraltro impossibile all’epoca in cui scriveva, se non clandestinamente) e si accontenta di fugaci incontri a pagamento.

Ohi, Ninarieddo, ti ricordi di quel sogno...
di cui abbiamo parlato tante volte...
Io ero in macchina, e partivo solo, col sedile
vuoto accanto a me, e tu mi correvi dietro;
all’altezza dello sportello ancora semiaperto,
correndo ansioso e ostinato, mi gridavi
con un po’ di pianto infantile nella voce:
«A Pa’, mi porti con te? Me lo paghi il viaggio?».
Era il viaggio della vita: e solo in sogno
hai dunque osato scoprirti e chiedermi qualcosa.
Tu sai benissimo che quel sogno fa parte della realtà;
e non è un Ninetto sognato quello che ha detto quelle parole.
Tanto è vero che quando ne parliamo arrossisci.
Ieri sera, a Arezzo, nel silenzio della notte,
mentre il piantone rinchiudeva con la catena il cancello
alle tue spalle, e tu stavi per sparire,
col tuo sorriso, fulmineo e buffo, mi hai detto... «Grazie!».
«Grazie», Ninè? È la prima volta che me lo dici.
E infatti te ne accorgi, e ti correggi, senza perdere la faccia
(cosa in cui sei maestro) scherzando:
«Grazie per il passaggio». Il viaggio che tu volevi
ch’io ti pagassi era, ripeto, il viaggio della vita:
è in quel sogno di tre quattro anni fa che ho deciso
ciò a cui il mio equivoco amore per la libertà era contrario.
Se ora mi ringrazi per il passaggio... Dio mio,
mentre tu sei in gattabuia, prendo con paura
l’aereo per un luogo lontano. Della nostra vita sono insaziabile,
perché una cosa unica al mondo non può essere mai esaurita.

Questa sorta di lettera-poesia a Ninetto non ha dei veri versi, o meglio i sentimenti espressi sono così grandi che il verso non può contenerli, straripano per il bisogno di dire, di esprimere al meglio l’emozione scaturita dall’affetto, dalla loro vita insieme. I pensieri hanno bisogno di spazio, di tempo, si stendono pigri (prosastici) nella notte, a chioccia intorno al ragazzo desiderato, lo abbracciano e gli sussurrano piano all’orecchio tutto l’amore e il bisogno di lui. Pasolini qui è padre e amante, maestro trepidamente innamorato del suo allievo. Gli ultimi due versi in questo caso sono assoluti, non si può fraintenderli.

Erano quasi le due di notte – il vento
scorreva per Piazza dei Cinquecento
come in una chiesa – non c'era nemmeno immondizia,
unica vita in quell'ora – giravano

nei giardinetti gli ultimi due o tre ragazzi,
né romani né burini, in cerca
delle mille lire, ma come senza cazzi –
io parlavo in macchina con uno di loro –

un fascista, poverino, e mi affannavo
a toccargli il cuore disperato.
Tu sei giunto con la tua macchina

e hai suonato; ti era al fianco un orribile
giovane individuo; della roba rubata
pendeva dal finestrino; da dove venivi e dove andavi?

Quando Ninetto, divenuto uomo, lo lascia per sposarsi, Pasolini cade (come testimonia lui stesso nei suoi versi) nella depressione più nera. Alla perdita della persona amata infatti, si affiancano i primi irrimediabili segni della vecchiaia che sopraggiunge. Pasolini comincia a sentire l’alito della propria solitudine, decrepitudine, soffiargli sul collo. Ha paura. Cerca di ingannare il tempo. Comincia la lunga tiritera delle cure per ringiovanire il corpo, si veste con abiti sgargianti, colorati, alla moda. Tenta in parte di rimediare a tale senso di pauroso vuoto andando coi ragazzi di vita. Lo squallore che tale pratica (a cui però non sa rinunciare) gli ispira è ben visibile in una serie di sonetti a tema che compone negli ultimi anni. È il Pasolini più duro questo, quello che utilizza la forma classica, rigorosa della poesia proprio per aumentarne il potere urtante, che disciplina il verso per dare maggiore forza al peso delle parole, alla loro crudezza, un po’ come se affilasse il coltello per affondare meglio nella carne (esemplare la rima ragazzi-cazzi).
In questi ultimi sonetti dell’amore oscuro, così pieni di correzioni a penna da essere quasi illeggibili a volte, l’aria si fa sordida, asfissiante, di uno squallore senza pari. Il poeta ne è conscio e sembra quasi osservarsi con masochistica voluttà, come se godesse a farsi del male. Si sarà detto forse, come prima o poi ci siamo detti tutti alla fine di una storia importante, che ormai la felicità è andata, e tanto vale scendere gli ultimi gradini del dolore fino all’annientamento, perché l’unica cosa che conta è non pensare proprio al dolore. Annullare (invano) il pensiero. Come scrisse Pavese, altro grande maledetto del XX secolo italiano: “Scenderemo nel gorgo muti.”

martedì 11 maggio 2010

uno degli articoli più divertenti che mai leggerete

VIBRATORE, di Mara Hvistendahl
Articolo pubblicato su "Le Scienze" n° 495, novembre 2009

Per essere un giocattolo sessuale, il vibratore ha sorprendemente origini cliniche e asettiche. Prescritto come cura per quella strana patologia che era l'isteria, ha avuto per decenni un'applicazione clinica come strumento terapeutico.
L'isteria, il cui nome deriva dalla parola greca che significa "utero", colpiva le donne in cui l'energia sessuale era trattenuta, o così credevano i guaritori e medici dell'antichità. Suore, vedove e zitelle erano particolarmente a rischio, ma in epoca vittoriana anche molte donne sposate ne furono colpite. Stando alle stime di due importanti medici, alla fine del XIX secolo tre quarti delle donne statunitensi erano a rischio. La prescrizione dell'orgasmo clitorideo come trattamento per l'isteria risale ai testi medici del I secolo d.c. Le donne isteriche si rivolgevano in genere a un medico, il quale le curava con le proprie mani inducendo in esse un "parossismo", termine dietro il quale si celava ciò che oggi conosciamo come orgasmo. La stimolazione manuale però richiedeva tempo ed era (almeno per il medico) noiosa.
In The Technology of Orgams: "Hysteria", The Vibrator and Women's Sexual Satisfaction, la storica della scienza Rachel P. Maines riferisce spesso che i medici passavano il lavoro alle levatrici. L'invenzione dell'elettricità semplificò le cose. Intorno al 1880 Joseph Mortimer Granville brevettò un vibratore elettromeccanico per alleviare i dolori muscolari, e i medici si resero rapidamente conto che poteva essere usato anche su altre parti del corpo. L'innovazione abbreviò i tempi della cura per l'isteria e riempì i portafogli dei medici.
Anche le pazienti erano contente. I centri di benessere che offrivano il trattamento con il vibratore si moltiplicarono e il servizio divenne così popolare che i produttori di vibratori ammonirono i medici a non esagerare con quel moderno dispositivo: accontentare tutte le richieste delle pazienti poteva rivelarsi stancante anche con il vibratore meccanico. Intorno all'inizio del XX secolo i cataloghi di vendite per corrispondenza pubblicizzavano modelli destinati alle donne che volevano provare a curarsi da sole; fu così che il vibratore divenne il quinto apparecchio elettrico a entrare nelle case, dopo la macchina per cucire, il ventilatore, il bollitore e il tostapane.
La leggitimità del vibratore come dispositivo medico calò dopo gli anni venti, quando Sigmund Freud identificò correttamente il carattere sessuale del parossismo. Nel 1952 L'American Psychiatric Association cancellò l'isteria dall'elenco delle patologie riconosciute. Quando, anni dopo, il vibratore ritornò di moda, le donne non avevano più bisogno della scusa della malattia per giustificarne l'aquisto.

venerdì 7 maggio 2010

sex and the town

Secoli che non esco con una ragazza. Non sono più abituato, mi rendo conto. Oppure mi piace più di quel che credevo. Mi faccio troppe domande, roba sciocca tipo: chissà come andrà o se la prima impressione reggerà alla prima mezz’ora. Boh. E se ci odiamo dopo i primi cinque minuti? Mamma mia no che casino sarebbe. Prima uscita insieme, mi dico, quindi comportati bene, tanto non te la dà, e allora calmo non ci provare subito, se no le dai l’idea del disperato o peggio ancora del maniaco (anche se son mesi che…). E non fare lo scemo, non dire cose imbarazzanti né più del necessario. Fai l’interessato (come consiglia Ottavio) ma non svenderti, tiratela un poco (come dice Martin) ma sempre naturale, muoviti con stile ma senza fare il figo, che comunque non ce l’hai la faccia da figo (come osserva Bogdan). Insomma ricorda che hai la tua età e quindi smettila di essere nervoso come un ragazzino al suo primo appuntamento!
E poi le chiedo:
Beh, cosa vuoi fare stasera?
Il giro del mondo, mi dice.
E so che tutto andrà bene... :)

mercoledì 5 maggio 2010

poesia da un balcone

Ecco il mondo mi dice di te
che ti ho amata. Né sono in grado
di oppormi al mio sogno o svilire
ogni strada, ogni verde dei prati

in cui tu sei stata. Vivi serena?
Ti sfiora il ricordo di un altro
se ti brama dai tetti uno stanco
rapace notturno? Ma senza più pena

sorridi. Stai lì nella casa sul fiume
(t’immagino) e ripeti a te stessa
che tutto inevitabile scorre, che passa
persino il dolore che vedi nascosto

in bottiglia. Galleggia sul fondo
e ti chiedi perché, pur bevendo
resti sempre una traccia di rosso
e d’amaro sul fondo.

domenica 2 maggio 2010