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giovedì 18 maggio 2023

sogno dell'areoplano

Stanotte ho sognato di camminare in un campo minato pieno di cacche fumanti, 328 in tutto. Il problema è che potevo riconoscerne la presenza solo attraverso l'olfatto, ma ero raffreddato e quindi non sentivo nessun odore. Così pestavo tutte le cacche in giro senza riconoscerle. A un certo punto, in maniera quasi improbabile, cioè suonando con la bocca la sirena dell'ambulanza, è arrivato a salvarmi il mio amico Simone, ritornato bambino. Arrivava con una sorta di aereo in miniatura con cui mi afferrava e mi sollevava in cielo, sopra il paese ma a filo delle case. Io, affacciandomi di sotto venivo preso dalle vertigini e cominciavo a gridargli: Attento Simone, attento! Finché, a forza di gridare, non perdevo la presa e cascavo di sotto, sfracellandomi di fronte alla vetrina della farmacia. Pieno di ferite e contusioni, ero lordo di merda e di sangue, ma non sentivo gli odori e per questo mi sentivo fortunato. Simone, intanto, mi rimproverava: È colpa tua, che mi hai messo paura e ho perso la concentrazione alla guida!

sabato 31 dicembre 2022

mandarini

Nel sogno viene a trovarmi un autore, tirando fuori dalla macchina dei mandarini appena raccolti che mi regala perché mi dice che hanno il sapore dell’inverno. Ne infilo due in tasca. Poi, mentre parliamo dell’ultima moda buffa delle donne che scrivono e che ora vestono in latex, l’autore nota delle buste dei rifiuti che mulinano svelte vuote e abbandonate per strada. Preso in parte dal fastidio e in parte da una frenesia quasi infantile comincia a rincorrerle, raccogliendole come fa quando è al mare. Le raccoglie una alla volta e ogni volta ciascuna me la porta e me la affida prima di tornare a correre per acchiappare la successiva, per toglierle dalla strada mi dice ed infilarle nella differenziata. Quando ha finito ritorna da me che ora mi ritrovo sulla porta di casa con le mani completamente occupate dalle buste morbide e vuote, provo a stringerle e ripiegarle una sull’altra, ma l’aria accumulata al loro interno si sposta negli angoli gonfiandole come palloncini e presto diventano enormi, quasi piccole mongolfiere che mi sollevano in aria. Dall’alto, mentre mi vedo allontanarmi, grido aiuto all’autore e quello per tranquillizzarmi mi ricorda che ho nelle tasche i mandarini, quando voglio posso usarli come zavorra per scendere a terra, oppure se ho fame mangiarmeli.

mercoledì 6 agosto 2014

doglie

Delle volte mi sento stanchissimo. La stanchezza mi prende soprattutto sulle spalle, con delle fitte tali che quasi non riesco a stare in piedi, né seduto. Certi giorni le spalle mi fanno così male che mi immagino le fitte siano quasi delle doglie e stiano per spuntarmi le ali per volare altrove, in modo da cambiare direzione come fanno gli uccelli, scegliendosi semplicemente il vento.

mercoledì 21 maggio 2014

l'osservazione dei volatili

Mi manca, forse, lo sguardo dei volatili girato sull’antenna più alta dei palazzi, lunghissimo come un periscopio sul mondo, sollevato oltre questa cappa d’ansia e di rimproveri, di attese. Mi manca quel volo che sovrasti con distacco il mondo e i suoi problemi, le consegne, e con disprezzo lo sommerga di escrementi, le sue bombe d’espressione. Oppure, alla fine, il riposo degli insetti sul muro, senza rimpianti o rimorsi per le occasioni perdute, ma paghi sul lago bianco, opaco, verticale, che non riflette più cielo. Indifferenti ai loro impegni e concentrati pigramente sul nulla.

domenica 11 maggio 2014

nella villa di melfi

Ieri nella villa di Melfi mi veniva da piangere. Guardavo il Sud che si avviava al suo sabato sera con le sue pance e le sua paure, le sue vecchiaie ingloriose, le sue giovinezze senza gioventù. Non lo sa nessuno cosa è successo veramente nel mondo in questi anni, dove abbiamo deposto la bellezza e la sensazione di essere assieme. Ora vaghiamo smarriti alla ricerca di qualche incanto provvisorio. Non ce la facciamo a tenerci. La vita cade, non smette mai di cadere, è un bicchiere che si frantuma all’infinito. Ieri nella villa di Melfi ho sentito che forse sono arrivato troppo tardi in questo Sud o troppo presto. Dovevo stare a fianco di Rocco Scotellaro, dovrei stare a fianco dei poeti che ancora non sono venuti.
Ieri nella villa di Melfi sentivo un sud che vuole somigliare a tante cose e non somiglia a nessuna.
Non sapevo a chi avvicinarmi, non mi veniva neppure in soccorso la mia follia, non riuscivo ad avventarmi gioiosamente sugli esseri e sulle cose. Non sono riuscito a guardare neppure un albero, neppure un cane. Avevo il cuore come rubinetto rotto. Perdevo sangue e lacrime e perdevo anche la mia salute, sentivo che non potevo offrirla a questo Sud che passeggiava in un suo riposo coatto, un riposo che sentivo senza lietezza, un riposo inerte. Avevo nello zaino i miei volantini che non potevano volare da nessuna parte.

(Franco Arminio)

martedì 4 marzo 2014

galateo per baciatori

Un sogno noto ci vede stretti su un divano
e pronti a un volo che sovrasti il cielo
nei tuoi baci fatti d’aria, attese e piccole rincorse
nei miei non educati e carichi di vita
d’ansia di tempo che divide
da te che sei la fonte ritrovata e per un bacio
tornerei per sempre cosa mai
io sono stato: un ragazzo che non sa non crede
ma percepisce unicamente il mondo
nel tuo tocco, sulle labbra, ti chiede:
insegnami. E tu: rimani.

martedì 25 febbraio 2014

ali

Ho le spalle deboli
le scapole dell’angelo
non mi appartengono
non verranno di lì
che dolori e petali
impazziti di magnolia
la notte spuntano
come mani a coppa
lungo la schiena
mi renderanno libero
un dinosauro in estinzione
un pigro lucertolone
in gioco per l’affermazione
della specie. Ma
(per i poeti) non c’è futuro.
Berremo litri di camomilla
per affrontar l’insonnia
la sofferenza che
soffoca il cuore
in sembianze di tumore
che per ingannarmi
si fa chiamare amore
e mi costringe
ad allargar le braccia
senza più paracadute
lanciarmi
mi dice: sei poeta?
volerai.

lunedì 24 febbraio 2014

a metà giorno

Lo immagini il maestro degli uccelli
minuscolo perso anche lui nella nebbia
al tempo della Cina imperiale
che senza più nome senza gloria
dopo aver terminato il suo volo di piume danzanti
sulla seta inchiostrata si solleva
dal tavolino di lavoro sgranchisce le ginocchia i polsi
e si avvia soddisfatto al mercato
fuori dal silenzio ovattato in cui scatena
la sua concentrazione comprerà
qualcosa di speciale per la cena
avendo già concluso a metà giorno
la sua vita ancora lunga di lavoro.

martedì 17 settembre 2013

coleman in coleridge

Sposa mi manchi il tuo vestito rosso
tuttora infiamma nel mio occhio
d’ospite più atteso al matrimonio
non avrei dovuto abbandonarti
voltando le spalle alla tua casa
per dar retta ai consigli d’un pazzo
ricordo il giorno areonautico in cui nuda
sul parapetto attese per la pioggia
il ventre teso come un tamburino
lei cantò e attese di bagnarsi
ascoltata la sua voce persi la testa
per quel suono l’ho stregata con lo sguardo
l’ho presa sul suo velo ed ora
mi manchi quando s’oscura il cielo
lei mi ha scritto da Belfast dove alleva bambini
lancia bombe agli inglesi e ti manda i suoi saluti
potrei essere impiccato in qualsiasi momento
l’albero della fortuna è lì che aspetta
ho mentito a me stesso per tornarmene a casa
ho aperto la cassa e ho scoperto una pipa
vorrei solo accertarmi che tu m’abbia amato
vorrei dimenticare il tuo lutto violento
sposa mi manchi mi manca il tuo vino
lascia stanotte che pensi
e improvvisi per te ricambiando
il mio assolo di sax a Picasso

(Agosto 2002)

martedì 28 maggio 2013

canto

Ecco, il cuore lo rivela, continua a imperversare
questa fredda primavera – si allinea alla tua fine
lenta, alla mia vita che si sganghera nel pianto –
continuano i lamenti del mio cuore, i tuoi notturni
e questo vento muto che ruba il sonno a molti
tentenna fra le corde che ci legano l’un l’altro
le corde del dolore che ci muovono cantando.

venerdì 12 aprile 2013

strage

A un certo punto, non si è mai capito perché, i piccioni bianchi che Nunzio allevava per dar colore ai matrimoni, smisero di tornare a casa. Decisero di comune accordo di restare a vivere nella piccola piazza della chiesa e di nutrirsi di quanto rimaneva sul sagrato dopo ogni cerimonia. Forse, qualcuno si azzardò a dire per sfotterlo, il riso bianco dei matrimoni era migliore del mangime da quattro soldi di Nunzio, ormai disperato per la perdita.
All’inizio passeggiavano lentamente, guardandosi intorno con curiosità, coi loro pancioni candidi per la piazza, e presto, quasi fosse Venezia, divennero i soggetti preferiti dei turisti armati di fotocamera, addirittura impararono a mettersi in posa in cambio di un pezzetto di pane.
A forza di pane e di riso, ingrassarono al punto di smettere di volare e zampettavano come galline, ancora tondi e buffi, avanti e indietro per quella che ormai era diventata la loro aia, andando a rifugiarsi negli angoli per dormire, sotto i balconi, dove nidificarono al suolo.
Nacquero così nuovi uccelli che, seguendo l’esempio dei genitori, non impararono mai a volare. Erano troppi per la piazza, la quale presto venne ricoperta di escrementi, piccole macchie nere bianche o gialline che crepitavano sotto i piedi quando passavi. Persino le loro belle piume, adesso che si trascinavano al suolo, erano lorde di cacca.
L’odore era insopportabile, soprattutto d’estate. E quando, a causa della sporcizia, i matrimoni finirono, vedevi gli uccelli muoversi per la piazza come impazziti dalla fame, muovendo il collo a scatti e picchiando il becco contro il pavimento vuoto, se non di escrementi, consumandolo a forza di beccate, ma incapaci di migrare.
I loro vicini umani, ormai stanchi e al limite della sopportazione, quando capirono che né Nunzio né il parroco né quelli del Comune sapevano come risolvere il problema, decisero di fare da sé. Pagarono l’accalappiacani per radunare nella piazza, una mattina, tutti i randagi da portare al canile, e li scatenarono su di loro per farne strage.
Dopo la mattanza, quando i cani furono allontanati, ai pochi uccelli superstiti, che ancora scappavano intorno terrorizzati, senza più voce, senza più vie di fuga, le piume intrise di sangue sulle zampette tremanti e inciampavano sui cadaveri dei loro compagni mutilati dai morsi, venne spezzato il collo. Quando Nunzio, impotente, da lontano vide la scena, i suoi occhi si inumidirono, ma riuscì solo a dire: che peccato.

mercoledì 23 gennaio 2013

viaggio fino al termine della notte

Era, se non felice, almeno troppo occupato per essere infelice. 
(Walter Tevis)
 
1. Da Marte alla Terra 

Tutto comincia nel 1963, quando uno scrittore americano di nome Walter Tevis, tanto insicuro del suo talento quanto famoso per la riduzione cinematografica del suo primo romanzo, Lo spaccone (1959), riversa tutte le sue angosce di alcolista in un romanzo all’apparenza di fantascienza, ma che in realtà ha radici profonde in un’adolescenza funestata dalla malattia, dall’incomprensione famigliare e dalla solitudine. Il romanzo si intitola L’uomo che cadde sulla terra ed è il suo ultimo grande successo prima di prendersi una pausa di quasi vent’anni, senza più scrivere. 
Il libro narra le vicende di Newton, un alieno venuto in missione sulla Terra per salvare i pochi superstiti della sua razza, decimata dalle guerre nucleari. Newton trova il modo di diventare abbastanza ricco e potente da costruire un immenso razzo con cui andare a recuperarli, ma solo, circondato da nemici, amareggiato dal carico di responsabilità che si porta sulle spalle, prima comincia a bere, poi si tradisce: viene scoperto e catturato dalla CIA, che lo sottopone per mesi a una serie di feroci e disumani esami di laboratorio, che lo rendono cieco. Liberato, senza essere riuscito a portare a termine la sua missione, finisce per passare il resto dei suoi giorni in un bar, ormai alcolizzato, e sperando che la sua famiglia riesca a captare il suo ultimo messaggio, attraverso una canzone trasmessa dalle radio terrestri. 
Il romanzo di Tevis rivisita il mito di Icaro, che cade in volo e affoga in mare. Newton, che non per nulla prende il nome dallo scienziato che ha formulato la legge di gravità, annega invece in un bicchiere di gin. Il libro è pervaso da un assoluto pessimismo, in cui non ci sono più speranze né per l’umanità nel suo insieme, né per il destino del singolo che contro quell’umanità si batte. 

2. Dalla Terra a Marte 

Agli inizi del 1975, mentre Tevis sta decidendo di smettere di bere e tornare a scrivere, il regista inglese Nicolas Roeg decide di fare un film di questo libro. Roeg è un ex direttore della fotografia (sua ad esempio quella di Fahrenheit 451 di Truffaut), che a quarant’anni ha realizzato il suo grande sogno di girare dei film in proprio: firma così alcune buone pellicole, incentrate sul confronto violento fra individuo e società (Sadismo, del 1970) o sullo spaesamento e sul conseguente senso di alienazione di un individuo inserito in un contesto non suo (il bellissimo L’inizio del cammino del 1971), prima di indirizzare la sua attenzione verso questa storia che concentra in sé molti dei temi più cari alla sua poetica. 
Quello che Roeg fa del racconto disperato e crudele di Tevis è un film tanto gelido nella narrazione come nella fotografia, quanto fumoso, inquietante, malinconico e volutamente pieno di interrogativi irrisolti, tipici del suo stile cinematografico. 
La lavorazione del film comincia a metà del 1975, e come protagonista assoluto, nel ruolo di Newton, viene ingaggiato, alla sua prima esperienza come attore, David Bowie.
La scelta di Bowie pare più che naturale, considerato che l’artista ha da poco terminato un album e un tour di enorme successo, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spider from Mars (1973), in cui metteva in scena la tragedia di un marziano sceso sulla Terra per salvare il mondo con la sua musica e distrutto dall’impatto con lo star system. Bowie è abbastanza famoso, insomma, da garantire al film il massimo impatto pubblicitario.


3. Di Stazione in Stazione

Eppure, durante le riprese, effettuate in Messico, succede qualcosa che nessuno, nemmeno Roeg, poteva aspettarsi: Bowie, che all’epoca vanta una magnifica (e molto aliena) capigliatura arancione, viene irretito a tal punto dalla storia, da vivere un vero e proprio processo di autoidentificazione con Newton. Anche Bowie, infatti, vive un momento di “disgrazia” creativa dopo il volo di Ziggy, e da due anni si è volontariamente esiliato negli Stati Uniti, fra New York e Los Angeles, inseguendo i propri fantasmi rock. Anche Bowie è depresso, squilibrato e dipendente non dall’alcol ma dalla cocaina, che lo sta letteralmente divorando: in quel periodo assume 10 grammi di cocaina al giorno e pesa circa 40 chili. La sua interpretazione è talmente naturale da ricevere numerosi encomi, e il film in breve diventa un piccolo cult per i suoi fan, ma la verità è che Bowie non recita affatto, è semplicemente se stesso.
La realizzazione della pellicola gli dà, però, la possibilità di una violenta scossa interiore, di una feroce autoanalisi da cui scaturirà un album, scritto durante le riprese e registrato subito dopo, fra i suoi più belli e difficili: Station to Station (1976), in cui già si possono notare le prime influenze della nascente scena rock tedesca, il cosiddetto krautrock (rappresentato da gruppi come Neu, Can, Kraftwerk, Tangerine Dream) e un nuovo tipo di scrittura dei testi, per certi versi più tagliente e al contempo più criptico, proprio come quello del film appena interpretato, e dal quale viene estratto un fotogramma come copertina del disco.
Con quest’opera Bowie smette una volta per tutte i panni dell’alieno e inventa per sé un nuovo personaggio in linea con la sua nuova scrittura, il Duca Bianco.


Oltre a quelli di Station to Station, in questo periodo Bowie compone anche una serie di brani strumentali, anch’essi profondamente influenzati dal krautrock. Li compone espressamente per la colonna sonora del film, che a questo punto sente probabilmente come totale espressione di sé e vorrebbe permeare ancora di più con la sua presenza.
Il suo lavoro però viene rifiutato da Roeg, che lo ritiene troppo sperimentale. Bowie ne resta amareggiato, ma finisce diligentemente di lavorare alla pellicola. Poi, una volta terminato l’album, decide che è ora, finalmente, di tornare in Europa, a rimettere ordine nella sua vita.

4. Dall’America all’Europa 

Nel suo ritorno “a casa” Bowie non è solo. Oltre al suo gruppo e al fido produttore Tony Visconti, decide di portarsi dietro un curioso compagno di viaggio, Iggy Pop, anch’egli alla ricerca di una seconda chance, dopo lo scioglimento del suo gruppo, gli Stooges, nel 1974, e il conseguente ricovero per disintossicarsi.
Bowie è un ammiratore della prima ora di Iggy, che nei tardi anni ’60 aveva incendiato i palchi americani col suo proto punk così fisico e oltraggioso, tanto da avergli dedicato una sua canzone, Panic in Detroit, e poi averlo aiutato a produrre il suo ultimo disco di successo, Raw Power (1973). Nonostante ciò, non era riuscito a risollevarne la carriera, per l’assoluta dipendenza di Iggy dalla droga, e ora che l’altro si è disintossicato, se lo trascina dietro aspettando l’occasione buona per un rilancio in grande stile.
I due si trasferiscono a Parigi nella seconda metà del 1976. Bowie ha intenzione di registrare un nuovo disco, nuovo anche nella forma, assolutamente sperimentale rispetto a tutto quello che ha fatto finora.
Decide pertanto di riprendere in mano il materiale scritto per la colonna sonora del film di Roeg (che finirà sul secondo lato dell’album e avrà il suo climax nell’inquietante Subterraneans) e di aggiungervi (sul primo lato) una manciata di nuove canzoni, fortemente confessionali dietro il linguaggio apparentemente nonsense: Bowie tenta il suicidio schiantandosi con la macchina in un parcheggio e scrive Always crashing in the same car; lascia sua moglie dopo un travagliato matrimonio e scrive Be my Wife. Nonostante cocaina e paranoia siano sempre incombenti, la sua creatività è iperstimolata dal nuovo ambiente.


Alla fase di composizione partecipa anche Iggy Pop, che nello stesso momento sta realizzando, a quattro mani con Bowie, anche il “suo” disco, The idiot. “Suo” è fra virgolette perché, a conti fatti, l’ingerenza di Bowie è tale che in molti casi Iggy è ridotto a semplice interprete vocale, e nondimeno The Idiot, col suo suono glaciale, notturno e stralunato, che anticipa molta new wave attraverso pezzi fondamentali come Nightclubbing, China Girl o l’autobiografica Dum Dum Boys, resta l’album più famoso e importante della sua discografia, e si pone allo stesso livello qualitativo di quella che poi verrà definita trilogia berlinese di Bowie, importanza sancita dal fatto che suonerà sul piatto di Ian Curtis il giorno in cui quest’ultimo si toglierà la vita.

5. Da Parigi a Berlino


Come ultimo tassello per ottenere il suono che ha in mente, tenebroso ma fortemente introspettivo, moderno eppure desertico, Bowie chiama a supportare le registrazioni Brian Eno, che in Inghilterra, dopo la sbornia glam coi Roxy Music, sta facendo grandi cose da solista, ma ancora di più come produttore e come teorizzatore di un nuovo stile chiamato ambient, attraverso album per l’epoca futuristici come (No Pussyfooting) e Evening Star, in coppia con l’ex King Crimson Robert Fripp e il bellissimo Discreet Music, firmato Eno, vero manifesto del suo mondo sonoro: musica tenue, impalpabile, la cui volontà dichiarata è quella di fondersi con l’ambiente senza disturbare, ma alterandone la percezione, una perfetta colonna sonora per il quotidiano.
Eno, come produttore e musicista, non è meno originale di Bowie. Arriva a Parigi portandosi dietro dei metodi di stampo quasi alchemico, apportando delle modifiche ai brani su “suggerimento” di un mazzo di carte ideate da lui, che assomigliano molto a quelle dei tarocchi e definite 124 Carte delle Strategie Oblique. Bowie è subito entusiasta della cosa, i suoi musicisti un po’ meno, anche se si sottopongono ai metodi di Eno. Il suo contributo più evidente è avvertibile nel brano di apertura del secondo lato, Warszawa, scritto a quattro mani con Bowie, e che rimanda nell’impalpabile arrangiamento al suo lavoro da solista, nella sua sconsolata drammaticità allo spirito del Duca Bianco.
Il disco, così come The Idiot, comincia a essere registrato a Parigi alla fine del 1976. Poi il gruppo decide di trasferirsi a Berlino ovest, dove termina il lavoro, che viene pubblicato all’inizio del 1977.


Low, l’opera che ne viene fuori, con in copertina ancora un fotogramma tratto dal film di Roeg (a cui verrà mandata una copia omaggio da Bowie stesso), è da molti considerato un disco cardine della storia del rock, e da alcuni la chiave di volta della discografia bowiana. È talmente importante per l’artista stesso, che farà in modo di ritardare l’uscita di The Idiot, terminato prima, per metterne maggiormente in evidenza la portata.
Il titolo dell’album rimanda al periodo di depressione vissuto in quel momento da Bowie. Berlino, ne è convinto, servirà a ridargli nuovo entusiasmo. In realtà, ma questo verrà scoperto molto dopo, uno dei motivi per cui Bowie decide di trasferirsi lì, è che sta subendo la fascinazione decadente (sotto il profilo puramente estetico) della cultura nazista. Nulla di più lontano, insomma, dalla gioia di vivere. Nonostante ciò, i ricordi dei due anni in cui si fermerà a Berlino sono felici, e Bowie descriverà in seguito quel periodo come uno dei più sereni della sua vita. Persino la droga diventa meno necessaria.

È il 1977, sono appena usciti, fra grandi polemiche ed entusiasmi, Low e The Idiot.
Quasi Bowie fosse un pifferaio magico, a Berlino stavolta lo segue, oltre al gruppo, a Visconti e a Iggy Pop, anche Brian Eno, che a sua volta invita Robert Fripp, alla ricerca di un nuovo indirizzo musicale dopo la seminale collaborazione con Eno.
Bowie affitta un grande appartamento al n° 155 di Hauptstrasse, nel distretto di Schoneburg. Di giorno va in giro per la città come un qualsiasi turista, scrive, dipinge, frequenta musei e mostre d’arte. Ogni sera si reca agli Studi Hansa, che si affacciano sul Muro di Berlino, per lavorare alla sua musica.
In quell’anno fatidico che gli storici ricorderanno perché c’è nato il sottoscritto, quel gruppo di scalmanati trentacinquenni realizzano in quella città che è il centro d’Europa, alcuni dei loro capolavori.

6. Da Berlino a Marte


A Berlino, Brian Eno si innamora anche lui del krautrock, fino al punto di collaborare con uno dei gruppi storici del genere, i Cluster (Moebius e Roedelius), con cui realizza due dischi splendidi: Eno & Cluster e poi After Heat, fra i più belli della loro produzione.
Affascinato dal loro suono lirico ed elettronico insieme, chiama il duo per realizzare, insieme ad altri amici illustri (Phil Collins, Phil Manzanera, Robert Fripp) il suo ultimo album rock prima di dedicarsi completamente all’ambient. Before and After Science, che di ambient è pregno (sulla seconda metà del disco, un po’ alla maniera di Bowie), è anche l’ultimo in cui Eno canterà per molti anni da allora, con pezzi che oscillano dai feroci assalti di Backwater e King’s Lead Hat, omaggio quest’ultimo ai Talking Heads con cui collaborerà di lì a poco, ai sognanti e melanconici paesaggi sonori di Spider and I e dell’assai più famosa By this River.


David Bowie, coadiuvato da Eno e dalla chitarra epica e graffiante di Fripp, scrive il suo massimo tributo alla città che lo ha accolto, e con “Heroes” realizza quello che molti ritengono il suo apice artistico. In realtà ricicla in tutto e per tutto la formula del precedente Low: una metà dei brani sono strumentali, l’altra metà cantati. Quello che cambia semmai è lo spirito dell’opera, la maggiore apertura alla speranza o perlomeno a un romanticismo che possa essere di conforto alla solitudine, all’alienazione e alla follia del mondo.
Con “Heroes” si chiude il periodo berlinese di Bowie: il successivo Lodger (1980), sempre con Eno, per quanto accomunato a Low e a “Heroes” in una ipotetica trilogia, non ha nulla a che vedere coi due precedenti, né nello spirito né nella forma.
Su tutti i brani dell’album spicca, ovviamente, quello che gli dà il titolo: Bowie dirà poi di averlo scritto osservando dalla finestra degli studi Hansa due amanti clandestini che si incontravano di notte vicino al Muro, approfittando del buio che li nascondeva dalla torrette di guardia. Si scoprì poi che i due amanti erano Tony Visconti e la cantante tedesca Antonia Maass. Per certi versi l’immaginario di questa canzone rimanda a Berlin (1973) di Lou Reed, ma a differenza dell’elegia spietata e malinconica di Reed, quello di Bowie è in tutto e per tutto un inno, e così lo concepiscono lui e Eno: l’inno di ogni amore ostacolato dalla storia e dagli uomini, a non arrendersi mai.


Iggy Pop, infine, deciso una volta per tutte ad affrancarsi dall’influenza Bowie, a cui allo stesso tempo tutto deve, incide un disco, Lust for Life, in cui Bowie suona ma non mette becco. È un album molto più solare e rock del precedente, e può intendersi come l’altra metà del suo cielo, pieno di ritmo, energia e di gioia di vivere. Per la copertina Iggy sceglie un bel primo piano in cui sorride fiducioso al suo pubblico: come dichiarazione di intenti non può essere più lontana dall’omaggio colto alla pittura espressionista di Erich Heckel, che invece caratterizza la copertina di The Idiot, ancora una volta suggerita da Bowie, che alle suggestioni dello stesso pittore si ispira per quella del suo “Heroes”. Una rete sottile ma fitta, come si vede, si stende fra tutti questi album.
Una volta lasciato Bowie, la carriera di Iggy Pop non decollerà mai più agli stessi livelli, eppure proprio in questo disco, più che nel precedente o in quelli del suo Pigmalione, è contenuto forse il pezzo più celebre e rappresentativo di quegli anni di vagabondaggio fra Stati Uniti ed Europa, The Passenger (il cui potentissimo riff è stato scritto non da Pop né da Bowie, ma da Ricky Gardiner, chitarrista di quest’ultimo). Il testo, invece, è di Iggy Pop, e rimane a tutt’oggi la perfetta sintesi di quel viaggio senza fine, alla ricerca di se stessi e di un proprio impossibile, ma non per questo meno necessario, posto nel mondo.


Oh, il passeggero 
Come, come viaggia 
Oh, il passeggero 
Viaggia e viaggia 
Guarda attraverso il suo finestrino 
Cosa vede? 
Vede il cielo segnato e vuoto 
Vede le stelle che spuntano stanotte 
Vede i bassifondi squarciati della città 
Vede il lungomare tortuoso dell’oceano 
E tutto quanto è stato creato per me e per te 
Tutto quanto è stato creato per me e per te 
Perché appartiene a me e a te 
Perciò facciamoci un giro e vediamo cosa è mio

venerdì 23 novembre 2012

inutile pensare ad altro...

Inutile pensare ad altro
si vive anche così
anche questa è nobiltà
della vita seppur ridotta
all’osso: respirare
mangiare defecare
avvolgersi nel sonno
senza più ambizioni
pronti solo al ciabattare
di là dal muro al volo
della zanzara invernale.

giovedì 8 novembre 2012

silenzioso

ripeteva come un mantra
è silenzioso
e si cercava il bigolo ferito
rattrappito a una larva.

Lentamente si chiudeva in se stesso
si immergeva nel bozzolo
delle sue coperte
pronto a metter l’ali.

venerdì 20 aprile 2012

che abbiamo noi per salvarci...

Che abbiamo noi per salvarci
se non questi spazi angolari
queste bolle del pensiero
in cui nasconderci e sognare
un passato illusorio tutto d’oro
in cui negare a tratti l’esistenza
che ci vuole uccelli di passo o da voliera
né ci chiede mai venire a patti
se anche l’aria per volare è troppo densa
carica com’è di polveri industriali.

lunedì 12 marzo 2012

l'ultimo contatto il più vero...

L’ultimo contatto il più vero
con mio nonno il giorno
per terrore dal letto di cadere
che m’ha afferrato stretto un dito
e nel suo corpo fragile già
vuoto carcame consunto
per meglio essere leggero manovrabile
inutilmente pronto al volo
prima di riappisolarsi dunque ricadere
in un silenzio rantolato
mi ha detto “stai male” (anche tu! anche tu!)
mentre la pelle mi s’arrizzava
in tutta quella luce azzurrina
e senza uscita.

mercoledì 5 maggio 2010

poesia da un balcone

Ecco il mondo mi dice di te
che ti ho amata. Né sono in grado
di oppormi al mio sogno o svilire
ogni strada, ogni verde dei prati

in cui tu sei stata. Vivi serena?
Ti sfiora il ricordo di un altro
se ti brama dai tetti uno stanco
rapace notturno? Ma senza più pena

sorridi. Stai lì nella casa sul fiume
(t’immagino) e ripeti a te stessa
che tutto inevitabile scorre, che passa
persino il dolore che vedi nascosto

in bottiglia. Galleggia sul fondo
e ti chiedi perché, pur bevendo
resti sempre una traccia di rosso
e d’amaro sul fondo.

venerdì 6 novembre 2009

ma voleremo in cielo in carne ed ossa

Quand’ero all’università e andavo di straforo ad assistere alle lezioni di disegno in accademia, ricordo che una volta un professore ci disse che non ci sono temi noiosi, che tutto dipende dal modo in cui li si affronta.
Ho sempre trovato affascinante il modo in cui più artisti possano reinterpretare nella maniera più diversa lo stesso soggetto. E non ho mai trovato niente di più stimolante (per i miei gusti) che il tema dell’amore. Lì davvero ci si gioca il tutto per tutto perché non è più solo una questione estetica o anche morale o emotiva, lì fai entrare gente nell’intimità di casa tua.
Nell’ultimo periodo mi sono ricapitate sotto gli occhi due opere di due artisti da me molto amati. Entrambe le opere sono state dipinte nello stesso periodo, durante la prima guerra mondiale, col mondo che impazziva intorno. Entrambe parlano di un rapporto d’amore particolarmente importante per la vita dei due autori. E anche se l’una parla della sua nascita e l’altra del suo tormentoso declino, entrambe sono legate all’assai abusata immagine (freudiana) dell’amore come volo. Una l’ha dipinta Oscar Kokoschka e l’altra Marc Chagall.



Uomo cupo, viscerale e un po’ eccentrico, Oscar Kokoschka incontra Alma Mahler, donna bellissima, fiera e indipendente che lo segnerà per sempre, nella Vienna del 1912, all’epoca una delle capitali artistiche d’Europa. Di lei s’innamora e ne diviene l’amante per due anni. Lui ne ha 26, lei 33.
Alma lo ammalia completamente e al contempo è incapace di legarsi a lui, tanta è la sua sete di vita e di avventure. Kokoschka, succube di lei, riversa nel suo lavoro tutto il sentimento di angoscia che avverte crescergli dentro giorno dopo giorno, man mano che avverte avvicinarsi il momento dell’inevitabile separazione. Ne nascono una serie di disegni e dipinti cupamente morbosi o grandemente disperati, in cui la pennellata si fa pastosa e densa, i colori abbaglianti, come il sentimento che lo pervade. Di questi dipinti il più famoso resta La sposa del vento, fra i quadri simbolo del ‘900.
Come per tutti i capolavori dell’arte si può attribuire a un’opera una lunga serie di significati che vanno ben oltre il semplice dato biografico, e anche in questo caso si può parlare di riferimenti alla mitologia germanica oltre che all’angosciosa situazione verso cui si precipitava l’impero austriaco, alle soglie della guerra. Ma personalmente io ci vedo soprattutto il ritratto di due amanti alla fine di un rapporto.
Alla deriva nella notte dopo un incontro d’amore, avvolti dalle lenzuola sfatte e dall’universo intorno, i due sono stretti l’uno all’altra. Lei, meno innamorata, dorme soddisfatta contro la sua spalla. Lui invece, sofferente, si tormenta le mani, ha gli occhi spalancati nel vuoto, è un insonne divorato dall’incertezza. Sa già, ma non vuole ammetterlo, che quella zattera di fortuna finirà presto per sfasciarsi contro gli scogli del tempo e della volubilità di lei.
Quando poi, di lì a poco, Alma lo lascerà per davvero, Kokoschka impazzirà del tutto. Andrà volontario in guerra, sarà ferito più volte e gravemente, ma non riuscirà a dimenticarla. Si trasferirà poi a Dresda dove, come in un racconto gotico, lo si vedrà accompagnarsi spesso al fantoccio di una donna a grandezza naturale (perfetto persino nelle parti intime, per gli ovvi scopi del caso) che presentava agli amici increduli come Alma. Guarirà del tutto solo a metà degli anni ’30, dopo un lunghissimo viaggio (durato più di dieci anni) in Africa e Medioriente.



Ebreo russo e perciò perseguitato, poeta nell’animo e meraviglioso inventore di favole, nel 1909 Marc Chagall, all’epoca 22 anni, conosce Bella, una ragazza dolce e dallo sguardo malinconico. La incontra per le strade di Vitebsk, città in cui sono nati entrambi e che poi, nel suo inquieto girovagare per l’Europa, si porterà in cuore per tutta la vita come fonte di continua ispirazione, di storie e di immagini a cui attingere per raccontarsi.
La perde di vista nel 1910 quando si trasferisce a Parigi per un lungo soggiorno di studio e d’esilio, a causa delle persecuzioni razziali cui è sottoposto in patria. A Parigi, sull’onda della nostalgia, si forma definitivamente il suo linguaggio e il suo mondo poetico fatto di colori luminosi, folclore e immagini gentili.
Poi il caso ci mette il suo zampino e nel 1914 Chagall torna in Russia per una vacanza di tre mesi e ci resta bloccato otto anni, per via della guerra e poi della rivoluzione. A Vitebsk però ritrova Bella, e la sposa l’anno dopo. Non più solo adesso, ormai artista apprezzato, Chagall respira il fermento rivoluzionario che sta per esplodere in Russia. Sono anni eccezionali che culmineranno, con la rivoluzione comunista, nell’abolizione di qualsiasi discriminazione contro gli ebrei. Un senso di totale felicità si impossessa di Chagall e lo porta a dipingere, nel 1917, alcuni dei quadri più assolutamente romantici della sua produzione, di cui Sopra la città resta forse il più famoso.
Nel quadro lui e Bella, abbracciati, si librano nel cielo sopra Vitebsk, sopra il mondo intero (perché Vitebsk nell’immaginario chagalliano è allo stesso tempo metafora del mondo e proiezione della sua città interiore), trasportati dal vento dell’amore e della libertà. Tutto è luminoso e magico, o meglio ancora stregonesco, ma serpeggia sotto l’apparente serenità una sottile inquietudine. Dall’immagine traspare un totale senso di leggerezza, alterato in minima parte dall’espressione un po’ ansiosa di lui. Perché il vento che li ha rapiti (il vento della storia) è così forte, impetuoso e dirompente da lasciarlo in parte stordito. Chagall stringe forte Bella per proteggerla e portarla con sé ovunque questo vento li trascinerà.
L’intuito dell’artista ha visto giusto. Nel 1923 Chagall, in rotta col partito, sarà di nuovo esule a Parigi. Bella lo segue fiduciosa come farà per tutto il resto della vita. Morirà nel 1944. Dal giorno della sua morte, lui non toccherà più i pennelli per un anno.



A chiusura, anche se c’entra solo per caso, per il fatto che mi è venuto in mente nelle ultime ore, mentre scrivevo questo testo, un altro volo che ha tempi, origini e motivi in parte diversi da quelli sopra descritti, ma ugualmente straordinario e irrequieto come quello di Chagall, e destinato a una rovinosa caduta come quello di Kokoschka. Non ci sono donne nella scena ma questo è un film e non un quadro, e di donne poi se ne vedranno anche troppe, essendo il ritratto più intimo, sincero (e junghiano) di Fellini.
Credo, anche se forse mi sbaglio, che di voli così ormai, non se ne vedano più tanti in giro. Non c'è più il coraggio di mostrarli e farne arte (e non esibizionismo). Se però mi sbaglio, vi prego, fatemi sapere.