lunedì 30 novembre 2009

poesie d'amore di dario bellezza

Di una sola cosa ringrazio Maurizio Costanzo. Di avermi fatto conoscere Dario Bellezza. Senza di lui, senza Invettive e Licenze, il suo primo libro scoperto dopo averlo visto in tv, molta della mia poesia sarebbe stata diversa. E poi mi piaceva la sua immagine di poeta scroccone. Alcuni miei amici che lo hanno conosciuto personalmente mi hanno raccontato che incontrarlo verso l’ora di pranzo significava al 90% pagarglielo in qualche bettola. La sua vita sentimentale, per ovvi motivi, fu alquanto complicata. Però Bellezza, proprio come Pasolini, di cui fu segretario, non si vergognò mai di dirsi omosessuale. In realtà quelle che pubblico più che d’amore sono poesie sui gatti. A loro Bellezza, che era uno di quelli che come trovava un micino abbandonato per strada lo prendeva e se lo portava a casa, ha dedicato un intero libro, nel 1993. Mi sono accorto, leggendole, che quelle per i suoi gatti sono le poesie più luminose della sua produzione. Sono poesie di un amore incondizionato e dolcissimo. Nei rapporti umani non fu felice quasi mai, e in loro riversava tutto il suo affetto. Agli uomini erano destinati il letto, la passione, e al massimo il “peccatore cuore”. Ai gatti la casa, le acciughine, e il Paradiso a lui precluso.



***
Alzarmi, darti luce mentre
me la dai. Uccidere l’angoscia
calzando guanti di gomma
per pulire i resti dei tuoi
magri pranzi che talvolta
diventano festini,
se torno felice da Campo
con un etto di fresche
acciughine, pesce azzurro
lo chiamano in Cronaca
improvvisati articolisti
dibattendo il costo
della vita. Ma tu non sai niente
di tutto ciò: divori
fra mille fusa
i saporiti pescetti
da me liscati di tutto punto
e per gratitudine mi lecchi
le mani ancora impregnate
della tua golosità.


***
Rimorso a guardarti nella confusione;
sei solo una gatta, anzi sei una gatta,
una natura felice, un miracolo, un incanto:
quando agiti la coda o cerchi di afferrarla
sei più dispettosa di ogni ragazzo,
più dolce di ogni zucchero filato.
Ma il rimorso mi divora, sapessi,
pensando che dovrò lasciarti,
non sono fedele negli amori,
non so sacrificarmi.
Dimmi che fine farai
lasciami libero di decidere,
di perdermi in un altro destino.

***
Una giornata di maggio, piovosa
il cielo lassù senza speranza
incerto, timido di pioggia
da buttare purificando le Creature
Io passai, fantasma assorto
in un peccato paradisiaco
davanti a rovine antiche
e lì tre creaturine miagolanti
m’invitarono a soffrire con loro.
Erano dentro una busta di plastica:
umidi di guazza ma vivi, ed io
li raccolsi davanti a tutto
il concerto di gatti randagi
che aspettavano il cibo delle gattare
Io ero ormai un gatto: gli occhi
di sirena delle femmine-gatto
mi guardavano cantando mentre
accorrevo al trepido soccorso.
Io fuggivo con la busta, e le gatte
mi correvano dietro contente.
I ciechi pulcini si agitavano
in cerca delle poppe
che io non avevo, armandomi
di un sottile contagocce
Fui certo di perdermi
in quell’universo gattesco…


***
Ti basta un filo di cotone, un pezzo
di carta raggomitolando il tutto
niente parole per fortuna, solo
qualche bacetto dato di nascosto
al tuo faccino, davanti allo specchio
di tutte le meraviglie. In paradiso
ci andrai dritta, con vele bianche e
la fanfara, io a stento ti terrò
dietro sapendo di fermarmi
molto prima.

venerdì 27 novembre 2009

primamore

L’amore è strano, lo sanno tutti. Ti colpisce quando meno te lo aspetti e nella maniera più insolita, lasciandoti spesso in mano solo una manciata di ricordi, più o meno dolci, o amari. Il mio primo grandissimo amore, ad esempio, l’ho incontrato in terza media: era una ragazza di dieci anni più grande di me, con gli occhi grandi e verdi come quelli di un gatto, la pelle bianchissima che sembrava un’aliena, i capelli tagliati a zero e una voce di quelle che ti metteva i brividi addosso quando cantava. Si chiamava Sinead O’Connor, era irlandese e da quando l’ho vista per la prima volta su MTV, nel video di quella che ancora oggi è la sua canzone manifesto, Nothing compares 2U, per tutti i primi anni ’90 non potevo parlare di lei senza sentire un piccolo singhiozzo al cuore. Son cose che adesso fanno sorridere ma davvero a un ragazzino basta poco per sognare. Ci si può davvero innamorare della ragazza in un video? Certo! Io l’amavo così come mia cugina era cotta di Madonna e si discuteva sempre di chi fosse la migliore delle due. Ma non c’era storia. Madonna era finta, anticonformista solo per i soldi. La O’Connor era come Giovanna d’Arco, per metà santa e per metà guerriera.


Adoro quel video ancora adesso (lo linko qui perché impossibile da incorporare). Mi piace il modo in cui lei guarda decisa in macchina da presa e subito dopo abbassa o sposta lo sguardo di lato in maniera così schiva, quella lacrima che a un certo punto le si vede scendere lungo la guancia mentre canta e tu sai che non è finzione, che si è davvero commossa, il modo in cui modula la voce ora deciso ora tremante e anche se allora non capivo quasi nulla di quel che diceva sapevo che parlava al mio cuore. Era bellissima, e diversa da tutte le altre!
La canzone era pregna del suono degli anni ’80, che molti oggi detestano, ma ho sempre pensato che la musica di quel decennio fosse la più disperata di sempre, così legata alla poetica del carpe diem, del cogli l’attimo prima che sia troppo tardi. Di sicuro a ispirare tutto questo era l’ansia per le incerte sorti della guerra fredda, il consumismo imperante, il rampantismo assurto a stile di vita sul modello americano. E non per nulla a fine decennio venne girato quel capolavoro assoluto che è L’attimo fuggente, che mostrò alla mia generazione, cresciuta a dosi di tette e battutacce del Drive-in, le possibilità offerte dalla riscoperta del romanticismo e della poesia come unica alternativa alla volgarità e al grigiore del mondo. In quei giorni decine di ragazzi come me vennero grandemente colpiti dalla visione di quel film, che fu un po’ il nostro Gioventù bruciata. Forse non ebbe lo stesso impatto sociale, ma fu sufficiente. Ecco, la musica degli anni ’80 aveva lo stesso fascino malinconico e un po’ decadente.


La O’Connor veniva da quegli anni e quella canzone aveva qualcosa di quello spirito ma lei era diversa. Era Giovanna D’Arco, un po’ santa e un po’ guerriera. Lo si capì due anni dopo quando, ospite del Saturday Night Live, una delle più importanti trasmissioni televisive degli Stati Uniti, strappò in diretta, lei che da irlandese era una fervente cattolica, la foto di papa Giovanni Paolo II gridando “Combatti il vero nemico!” (e non intendeva ovviamente il papa in sé ma la Chiesa, in quei giorni coinvolta in una serie di scandali sulla pedofilia), scatenando così contro se stessa le ire dei benpensanti. Poco dopo venne invitata al Madison Square Garden a un concerto tributo per il trentennale della carriera di Bob Dylan. Avrebbe dovuto cantare I believe in you, una sentita preghiera a Dio scritta da Dylan a fine anni ’70, ma una volta sul palco il pubblico, ancora irritato da quanto successo in tv, cominciò a fischiarle contro impedendole di cantare. A quel punto successe qualcosa di incredibile: la O’Connor venne presa da sacro furore artistico, afferrò il microfono e cantò a cappella War di Bob Marley, cantò con tutta la rabbia che aveva in corpo fino a zittire un intero stadio. Finita l’esibizione lanciò un ultimo sguardo, di quelli che ti gelano il sangue, alla gente davanti a sé, poi si voltò e tornò dietro le quinte dove si abbandonò in lacrime fra le braccia di Kris Kristofferson. Fu una cosa straordinaria e secondo me fu l’apice della sua carriera (che dopo si affossò lentamente e senza rimedio), e anche di quella serata. Nella performance improvvisata della O’Connor rivisse lo stesso spirito che animò Dylan quella sera del 1966 in cui sfidò il pubblico di Manchester cantando a volume “fottutamente alto” Like a Rolling Stone dopo che qualcuno gli aveva gridato “Judas!” dalla platea. Fu lo stesso spirito che, passando attraverso l’anarchia del punk e di pochi altri eroi solitari, creò un filo invisibile che li legava, una linea tesa a delimitare i confini di una zona in cui ancora più di Nothing compares 2U quell’esplosione di rabbia e dolore, quell’esibizione dettata unicamente dall’istinto e dal coraggio avevano un senso. Quella linea che mostra la distanza che passa fra chi vuole fare i soldi e chi invece fa dell’arte.

giovedì 26 novembre 2009

terra di nessuno

Stanotte mordono i rimpianti, diventano rimorsi.
E quel che ti ho promesso ora non vale. Spingo giù
il magone con la grappa, abbasso le luci
per non farmi trovare, lì dove male non fa più
sentirsi parte di qualcosa ch’è più grande di noi, cercare
altri motivi oltre i tuoi. Non sono buono per le novità
mai stato buono a capire. Se sono buono a nulla
tu perdonami, se quando avrei potuto non ti ho amata.

mercoledì 25 novembre 2009

chi non conosce joe d'amato?

Ovvero vita associazionistica di paese, una serata tipo...

Lo so che è una fesseria, ma mi è successo l’altra sera e ve lo voglio raccontare. Ero a una riunione fra le associazioni giovanili del paese, per studiarci la programmazione di alcune iniziative invernali. Stavamo tutti lì intorno a un tavolo, circa una ventina di persone, ad ascoltare un tipo di cui non ricordo il nome, portato da Livianna, uno di quei geniacci pure simpatici ma che si gasano per le cose più astruse e folli, e ‘sto tizio stava presentando una particolare rassegna cinematografica che aveva intenzione di proporci per un cineforum, legata alla scoperta dell’arte attraverso il cinema. E lui elencava una serie di film a cui aveva pensato che possono definirsi impegnativi per un esperto, figurarsi per dei profani! Roba tipo L’arca Russa di Sokurov, un film di una pesantezza allucinante che il tizio diceva avergli cambiato la vita in meglio e ho detto tutto. Altri che mi ricordo sono Bella di notte, un documentario su Villa Borghese visitata ovviamente di notte ma con una torcia elettrica, e poi i più abbordabili, e anche gli unici che ho visto: Sogni di Kurosawa con l’episodio di Van Gogh, La ricotta di Pasolini e l’ultimo di Antonioni sul Mosè di Michelangelo.
Insomma io non ero convinto, gli altri neppure ma per motivi diversi. E infatti a un certo punto Marco, il portavoce del gruppo, ha preso la parola e si è messo a discutere dell’opportunità o meno di presentare dei film che in pochi avrebbero realmente potuto apprezzare ma soprattutto discutere (sapete com’è per la gente di sinistra, se non c’è il forum costruttivo dopo allora il cine prima è stato un fallimento) e persino Luca, che è un vero esperto ma anche diplomatico come pochi, ha sollevato il sopracciglio perplesso. Insomma Marco ha detto che avrebbe preferito qualcosa di meno elitario, qualcosa di più popolare ma fatto con gusto, in modo da evitarsi le solite seghe mentali e parlare. Il povero ragazzo senza nome veniva scaricato e infatti, per il nervoso, la gamba gli si agitava così freneticamente che avrebbe potuto schizzargli via in qualsiasi momento. Io, che me ne stavo nell’angolo, mi dividevo con difficoltà fra l’interessantissimo discorso e le gambe di Vanessa, che quella sera portava la gonna (chiamiamola pure contemplazione della bellezza). Sull’espressione “seghe mentali” però mi sono illuminato. Così, il più seriamente possibile, ho preso la parola e ho detto la mia: “Scusate ma se volete qualcosa che sia da una parte un po’ di nicchia e dall’altra abbordabile per tutti, ma perché non facciamo una bella rassegna dedicata a Joe D’Amato!”
Martin in fondo alla stanza è scoppiato a ridere. Tutti gli altri sono rimasti ammutoliti e con le espressioni che andavano dalla perplessità del tipo “l’ho già sentito ma non ricordo bene dove” all’interrogativo puro. È durato tutto pochi secondi ma si potevano sentire come in un film di Sergio Leone la balle di polvere rotolare per la stanza al suono dello scacciapensieri. A quel punto Luca, l’unico altro che aveva capito, mi ha detto, quasi sbuffando: “Spiegali chi è Joe D’Amato, perché non lo sanno…” “Ma davvero non sapete chi è Joe D’Amato?” ho insistito io incredulo. Nuove espressioni di diniego. “Ma miseriaccia!” m’infuoco. “È il Martin Scorsese del cinema porno!” Lo sguardo delle ragazze si è fatto gelido, gli altri hanno taciuto. “Perdonatelo, ma certe volte se n’esce con queste idee, voi non gli date corda…” ha detto Rob ridendo, sfottendomi. A quel punto mi sono ammutolito anch’io, un po’ contrariato. Anche perché ai nostri cineforum se vengono dieci persone è un miracolo, e secondo me con Joe D’amato avremmo davvero spaccato il mondo. Invece non mi hanno preso sul serio. Pure il tipo dei film impossibili se n’è andato deluso quanto me quella sera, e almeno di questo ero contento. Meglio evitarsi altre seghe mentali.
Solo più tardi, all’arrivo di Vito, tutto si è mostrato per quello che è, un grosso imbroglio. Quando si è seduto e ha chiesto di cosa avessimo discusso nelle ultime due ore, io gli ho chiesto, a bruciapelo: “Vito, ma tu lo conosci Joe D’Amato?” “Cazzo se lo conosco!” fa Vito: “Dei pornazzi fantastici! Ma pure gli splatter non sono male!” A quel punto Annalisa, la ragazza di Vito, ha cominciato “Ma bravo! Ma bravo!” poi si è alzata ed è andata fuori a fumare seguita dalle altre ragazze. Vito ha chiesto entusiasta: “Ma perché, volete fare un cineforum sui suoi film?” E io: “No, non si può, qui non li conosce nessuno!” E Marco, guardando fisso lo schermo col viso inespressivo: “Beh io sì, li conosco.” E Rob, accanto a me: “Pure io in effetti. Cioè, per sentito dire…”
A quel punto, tirando fuori la voce in modo da abbracciarli tutti quanti con poche semplici paroline, ho detto: “Brutti stronzi che non siete altro!” e me ne sono andato fuori anch’io.

domenica 22 novembre 2009

pasolini

Oggi ho ricordato per caso, girando in internet, che Pasolini è morto in novembre. E mi è venuto in mente che ormai è impossibile trovare qualcuno che ti venga a dire: “ma quello era un pirla e uno schifoso e mi sta sul cazzo!” Che fosse un pirla era difficile dirlo pure quand’era in vita, e a dargli dello schifoso si rischiava brutto perché se si arrabbiava non si faceva problemi ad alzare le mani. Invece che non stia sul cazzo a nessuno mi pare più il segno che, come sempre succede, da morto, quando non sei più pericoloso per nessuno, ti sono tutti amici. Tanto più che a dir bene di Pasolini, martire della Cultura in Italia, ci fai pure una bella figura. In fondo non devi nemmeno leggerti i suoi libri o guardarti i suoi film. Quanta gente li conosce? Tiri fuori dal cappello la mitica frase “io credo nel progresso, non credo nello sviluppo” che tutti avranno sentito almeno una volta nella vita o in televisione, dici mi piace e sei a posto, un vero pasoliniano col bollino, di quelli omologati che lui non sopportava. Del resto non so neppure se posso permettermi di parlare così. Personalmente con Pasolini ho sempre avuto un rapporto di amore/odio. Rispetto incondizionato per l’uomo: coraggioso, testardo, intelligentissimo e generoso, senza compromessi, sempre pronto a lottare per le sue idee, onesto fino alla disperazione. Odio per l’intellettuale e non perché non fosse un genio ma perché talmente genio che spesso mi sono sentito incapace di seguirlo fino in fondo, di cogliere tutte le sfumature del suo pensiero vastissimo. Perché con Pasolini ho sempre l’impressione di trovarmi di fronte a qualcosa di più grande di me, di così grande da non riuscire ad abbracciarlo tutto e contenerlo. Poi però dal nulla, in tanto magma, se n’esce con una intuizione così semplice e perfetta, così giusta che rimango lì stupito a rimuginarci su per ore e mi rendo conto di quanto davvero oggi avremmo bisogno di lui. Perché oggi, se fosse vivo, Pasolini di certo non apparirebbe più in tv, non lo chiamerebbero, forse Fazio chissà, per quelle sue interviste al borotalco, o Ballarò. Ma di certo sarebbe stato un continuo punto di riferimento per tanti ragazzi, quelli detti contro, a cui non sta bene ciò che hanno intorno ma non sanno come opporsi, come dirlo. Quei ragazzi avrebbero guardato a lui e si sarebbero sentiti rincuorati. Altre volte, invece, m’incanta per certe sue uscite disarmanti, dolcissime, in cui ti si mette davanti così nudo e fragile e ti parla col cuore in mano come pochi, e a te la sua parola resta a lungo sulla pelle come una carezza, o pesante come un sasso sullo stomaco. Aveva proprio ragione Moravia, con Pasolini abbiamo perso prima di tutto un poeta. Purtroppo, dei poeti, il mondo non sa più che farsene. Per tutto questo, anche se non sempre lo capisco, io amo Pasolini.



“Mah, io mi domando… perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto…” dal Decameron di Pasolini.

venerdì 20 novembre 2009

dopo un lungo silenzio

Meravigliosa poesia scritta da W.B. Yeats e tradotta da Montale.

Parlare dopo un lungo silenzio è cosa giusta.
Perduti o morti gli altri esseri amati,
nascosta nell'abat-jour l'ostile lampada
e calate le tende sulla nemica notte
che si parli così tra noi e noi
su questo tema eccelso, l'Arte e il Canto.
La decrepitudine del corpo è saggia: giovani
ci siamo amati senza saperne nulla.

mercoledì 18 novembre 2009

cosa resta di un amore

Vi dico la verità. Io della storia d’amore fra Bob Dylan e Joan Baez non ci ho mai capito granché. E forse parlarne oggi, a più di quarant’anni di distanza sembrerebbe quasi ridicolo se non fosse che si tratta di due artisti che, profondamente coinvolti da tale relazione, hanno prodotto di conseguenza alcune bellissime canzoni. La verità è che questa storia d’amore, durata appena tre anni e poi trascinatasi a distanza (almeno da parte della Baez) per quasi dieci, credo non l’abbia capita bene nessuno, tanto è stato il riserbo (soprattutto da parte di Dylan) che i due hanno dimostrato di avere a riguardo. E solo negli ultimi anni stanno venendo fuori delle dichiarazioni che qualcosa sembrano voler raccontare, chiarire, ammettere.
Per molto tempo il pubblico e la critica si sono divisi fra chi difendeva Dylan (“la amava ma era così giovane e fuori di testa, sempre strafatto e arrabbiato, in lotta contro il mondo intero, che alla fine doveva mollarla per forza, perché lei non sarebbe riuscita a seguirlo”) e chi invece gli puntava il dito contro (“l’ha usata quando gli era più utile e poi l’ha mollata con un bel calcio in culo quando non gli serviva più”). Lui, come suo solito, taceva. Lei si difendeva dicendo che in fondo lo aveva usato anche lei. Per molto tempo non l’avevo capita questa affermazione. Poi mi sono reso conto che se ami l’arte e la bellezza con tutto te stesso e consideri una persona un vero genio, persino l’opportunità di stargli accanto, di vederlo creare per te è preziosa. C’è gente che ha pagato per poter assistere a una seduta di Picasso. Io lo farei. E se sei uno di quelli che considera Dylan un genio assoluto il sentimento è lo stesso. Eppure la Baez lo amava davvero. Non serve molto intuito per capirlo. Tutto quello che ha fatto dopo la loro separazione ne è la prova evidente. Non ve lo racconto solo per questioni di spazio. E perché in fondo basta la canzone qui sotto per eliminare ogni dubbio.
Ma Dylan? Io credo che Dylan a un certo punto fosse sì sotto pressione, ma anche che vedesse in lei, nella regina del folk, il simbolo di tutto un mondo che stava cercando di abbattere e a cui si opponeva con tutto se stesso, quello della tradizione un po’ bigotta e dei buoni propositi, della militanza politica coi paraocchi che vede solo bianco e nero. Opponendosi a quel mondo Dylan entrò in conflitto anche con lei. Questo penso. Non riesco a convincermi che uno come Dylan, pur con tutti i suoi difetti e i suoi casini, potesse stare per ben tre anni con una donna senza amarla. Una come lei, poi! Qualcosa c’era, ne sono convinto. Magari non era proprio amore ma qualcosa di simile. Ma poi non è che le storie d’amore debbano per forza finire bene, sarebbe meraviglioso ma non è così.
Fatto sta che di tutte le donne che Dylan ha avuto, con tutte le grandi canzoni dolci o avvelenate che ha scritto per loro, l’unica donna che abbia saputo tenergli testa e scrivere su di lui una canzone altrettanto grande, in cui in poche strofe riesce a fondere tutto: amore passione rimpianto rabbia ironia arrivando a fare della propria storia personale un’opera d’arte universale, l’unica è stata la Baez, nonostante la sua “pessima qualità poetica”. La canzone definitiva su Dylan l’ha scritta lei. Un giorno, quando avremo del tutto scordato la loro breve storia, ci ricorderemo di lei non perché fu l’amante infelice di Bob Dylan ma, com’è giusto che sia, per questa splendida canzone ispirata a lui.



DIAMANTI E RUGGINE (1975)

Beh che io sia dannata
Ecco che torna il tuo fantasma
Ma non è così strano
È soltanto che c’è la luna piena
E tu mi hai chiamato
E sto qui seduta
La mano sul telefono
Ad ascoltare una voce che conoscevo
Un paio di anni luce fa
Mentre andavo dritta verso l’inferno

Come ricordo i tuoi occhi
Erano più azzurri delle uova del pettirosso
La mia qualità poetica era pessima dicevi
Da dove stai chiamando?
Un palco improvvisato nel Midwest
Dieci anni fa
Ti comprai un paio di gemelli
Tu mi portasti qualcosa
Sappiamo entrambi cosa possono portare i ricordi
Portano diamanti e ruggine

Beh sei esploso sulla scena
Oramai una leggenda
Il fenomeno che non si lavava
Il vero vagabondo
Ti sei smarrito fra le mie braccia
E sei rimasto lì
Temporaneamente perso in mare
La Madonna era tua gratis
Sì la ragazza sulla conchiglia
Ti avrebbe tenuto al sicuro

Ora ti vedo in piedi
Con le foglie secche che ti cadono intorno
E la neve nei capelli
Ora stai sorridendo fuori dalla finestra
Di quell’hotel scalcinato
A Washington Square
Il nostro fiato crea nuvole bianche
Che si fondono e si perdono nell’aria
Parlando solo per me
Avremmo potuto morire lì allora

Ora mi racconti
Che non hai nostalgia
Allora concedimi un’altra parola per questo
Tu che sei così bravo con le parole
E nel tenere le cose sul vago
Perché adesso ho bisogno di un po’ di quella vaghezza
Tutto sta tornando troppo chiaro
Sì ti ho amato con passione
Ma se mi stai offrendo diamanti e ruggine
Ho già pagato abbastanza

incontro notturno

mercoledì 11 novembre 2009

canzone per marian

(ovviamente sperando che Passero campi a lungo e in salute) ;)



E pensavo dondolato dal vagone
cara amica il tempo prende il tempo dà
noi corriamo sempre in una direzione
ma qual sia e che senso abbia chi lo sa.
Restano i sogni senza tempo
le impressioni di un momento
le luci nel buio di case intraviste da un treno.
Siamo qualcosa che non resta
frasi vuote nella testa
e il cuore di simboli pieno...

martedì 10 novembre 2009

ancora a proposito della vecchiezza


Michelangelo Buonarroti (morto nel 1564 a 89 anni) negli ultimi vent’anni di vita, come apprendiamo dalle fonti, avendo avuto in affidamento tutti i maggiori cantieri di Roma, fra cui la piazza del Campidoglio e la basilica di San Pietro, attraversava tutti i giorni a cavallo la città per seguire i lavori sul posto, e nonostante si descrivesse nelle sue lettere come “vechio, cieco e sordo e mal d’acordo con le mani e con la persona”. Di sera, quando se ne tornava a casa, scriveva poesie, alcune fra le più belle del ‘500. Quand’aveva un po’ di tempo in più si dedicava ancora, per fatti suoi, alla scultura. Il tema preferito degli ultimi anni era quello della Pietà, lavorando al quale elaborò la poetica del non finito. Ecco che intendo per vecchiaia invidiabile.

domenica 8 novembre 2009

pensiero sulla vecchiezza a metà giornata

Una volta, quand’ero più piccolo e spaventato a morte dall’idea di invecchiare, dicevo a chi mi chiedeva che io sarei morto a 30 anni, era certo, sicuro come il fatto che mi chiamassi Lillo, potevo metterci la firma! In base a cosa lo dicessi non lo so e infatti menomale che non ho firmato nulla. Ora di anni ne ho 32 e viva dio ho una salute invidiabile. Certo vedere su mio nonno i segni di come può ridurti un’età avanzata non mi rassicura, e sono ancora convinto che, come uno dei personaggi dell’Amore ai tempi del colera di Marquez (mi pare nel primo capitolo), la cosa migliore sia togliere il disturbo a un’età ragionevole anche se poi, lo so, ci sarebbe da discutere su come misurare tale “ragionevolezza”. E può anche darsi che con l’andar del tempo cambi idea, perché, come dice il proverbio, l’appetito vien mangiando. Intanto però mi guardo intorno e mi dico che, se proprio devo invecchiare voglio farlo così, come questi due signori qui sotto, o per citare Alberto (dopo un concerto di Dylan cui assistemmo a Napoli alcuni anni fa, credo fosse il luglio del 2001, e in cui mezza arena si sollevò a ballare): alla faccia dei vecchietti!

venerdì 6 novembre 2009

ma voleremo in cielo in carne ed ossa

Quand’ero all’università e andavo di straforo ad assistere alle lezioni di disegno in accademia, ricordo che una volta un professore ci disse che non ci sono temi noiosi, che tutto dipende dal modo in cui li si affronta.
Ho sempre trovato affascinante il modo in cui più artisti possano reinterpretare nella maniera più diversa lo stesso soggetto. E non ho mai trovato niente di più stimolante (per i miei gusti) che il tema dell’amore. Lì davvero ci si gioca il tutto per tutto perché non è più solo una questione estetica o anche morale o emotiva, lì fai entrare gente nell’intimità di casa tua.
Nell’ultimo periodo mi sono ricapitate sotto gli occhi due opere di due artisti da me molto amati. Entrambe le opere sono state dipinte nello stesso periodo, durante la prima guerra mondiale, col mondo che impazziva intorno. Entrambe parlano di un rapporto d’amore particolarmente importante per la vita dei due autori. E anche se l’una parla della sua nascita e l’altra del suo tormentoso declino, entrambe sono legate all’assai abusata immagine (freudiana) dell’amore come volo. Una l’ha dipinta Oscar Kokoschka e l’altra Marc Chagall.



Uomo cupo, viscerale e un po’ eccentrico, Oscar Kokoschka incontra Alma Mahler, donna bellissima, fiera e indipendente che lo segnerà per sempre, nella Vienna del 1912, all’epoca una delle capitali artistiche d’Europa. Di lei s’innamora e ne diviene l’amante per due anni. Lui ne ha 26, lei 33.
Alma lo ammalia completamente e al contempo è incapace di legarsi a lui, tanta è la sua sete di vita e di avventure. Kokoschka, succube di lei, riversa nel suo lavoro tutto il sentimento di angoscia che avverte crescergli dentro giorno dopo giorno, man mano che avverte avvicinarsi il momento dell’inevitabile separazione. Ne nascono una serie di disegni e dipinti cupamente morbosi o grandemente disperati, in cui la pennellata si fa pastosa e densa, i colori abbaglianti, come il sentimento che lo pervade. Di questi dipinti il più famoso resta La sposa del vento, fra i quadri simbolo del ‘900.
Come per tutti i capolavori dell’arte si può attribuire a un’opera una lunga serie di significati che vanno ben oltre il semplice dato biografico, e anche in questo caso si può parlare di riferimenti alla mitologia germanica oltre che all’angosciosa situazione verso cui si precipitava l’impero austriaco, alle soglie della guerra. Ma personalmente io ci vedo soprattutto il ritratto di due amanti alla fine di un rapporto.
Alla deriva nella notte dopo un incontro d’amore, avvolti dalle lenzuola sfatte e dall’universo intorno, i due sono stretti l’uno all’altra. Lei, meno innamorata, dorme soddisfatta contro la sua spalla. Lui invece, sofferente, si tormenta le mani, ha gli occhi spalancati nel vuoto, è un insonne divorato dall’incertezza. Sa già, ma non vuole ammetterlo, che quella zattera di fortuna finirà presto per sfasciarsi contro gli scogli del tempo e della volubilità di lei.
Quando poi, di lì a poco, Alma lo lascerà per davvero, Kokoschka impazzirà del tutto. Andrà volontario in guerra, sarà ferito più volte e gravemente, ma non riuscirà a dimenticarla. Si trasferirà poi a Dresda dove, come in un racconto gotico, lo si vedrà accompagnarsi spesso al fantoccio di una donna a grandezza naturale (perfetto persino nelle parti intime, per gli ovvi scopi del caso) che presentava agli amici increduli come Alma. Guarirà del tutto solo a metà degli anni ’30, dopo un lunghissimo viaggio (durato più di dieci anni) in Africa e Medioriente.



Ebreo russo e perciò perseguitato, poeta nell’animo e meraviglioso inventore di favole, nel 1909 Marc Chagall, all’epoca 22 anni, conosce Bella, una ragazza dolce e dallo sguardo malinconico. La incontra per le strade di Vitebsk, città in cui sono nati entrambi e che poi, nel suo inquieto girovagare per l’Europa, si porterà in cuore per tutta la vita come fonte di continua ispirazione, di storie e di immagini a cui attingere per raccontarsi.
La perde di vista nel 1910 quando si trasferisce a Parigi per un lungo soggiorno di studio e d’esilio, a causa delle persecuzioni razziali cui è sottoposto in patria. A Parigi, sull’onda della nostalgia, si forma definitivamente il suo linguaggio e il suo mondo poetico fatto di colori luminosi, folclore e immagini gentili.
Poi il caso ci mette il suo zampino e nel 1914 Chagall torna in Russia per una vacanza di tre mesi e ci resta bloccato otto anni, per via della guerra e poi della rivoluzione. A Vitebsk però ritrova Bella, e la sposa l’anno dopo. Non più solo adesso, ormai artista apprezzato, Chagall respira il fermento rivoluzionario che sta per esplodere in Russia. Sono anni eccezionali che culmineranno, con la rivoluzione comunista, nell’abolizione di qualsiasi discriminazione contro gli ebrei. Un senso di totale felicità si impossessa di Chagall e lo porta a dipingere, nel 1917, alcuni dei quadri più assolutamente romantici della sua produzione, di cui Sopra la città resta forse il più famoso.
Nel quadro lui e Bella, abbracciati, si librano nel cielo sopra Vitebsk, sopra il mondo intero (perché Vitebsk nell’immaginario chagalliano è allo stesso tempo metafora del mondo e proiezione della sua città interiore), trasportati dal vento dell’amore e della libertà. Tutto è luminoso e magico, o meglio ancora stregonesco, ma serpeggia sotto l’apparente serenità una sottile inquietudine. Dall’immagine traspare un totale senso di leggerezza, alterato in minima parte dall’espressione un po’ ansiosa di lui. Perché il vento che li ha rapiti (il vento della storia) è così forte, impetuoso e dirompente da lasciarlo in parte stordito. Chagall stringe forte Bella per proteggerla e portarla con sé ovunque questo vento li trascinerà.
L’intuito dell’artista ha visto giusto. Nel 1923 Chagall, in rotta col partito, sarà di nuovo esule a Parigi. Bella lo segue fiduciosa come farà per tutto il resto della vita. Morirà nel 1944. Dal giorno della sua morte, lui non toccherà più i pennelli per un anno.



A chiusura, anche se c’entra solo per caso, per il fatto che mi è venuto in mente nelle ultime ore, mentre scrivevo questo testo, un altro volo che ha tempi, origini e motivi in parte diversi da quelli sopra descritti, ma ugualmente straordinario e irrequieto come quello di Chagall, e destinato a una rovinosa caduta come quello di Kokoschka. Non ci sono donne nella scena ma questo è un film e non un quadro, e di donne poi se ne vedranno anche troppe, essendo il ritratto più intimo, sincero (e junghiano) di Fellini.
Credo, anche se forse mi sbaglio, che di voli così ormai, non se ne vedano più tanti in giro. Non c'è più il coraggio di mostrarli e farne arte (e non esibizionismo). Se però mi sbaglio, vi prego, fatemi sapere.

giovedì 5 novembre 2009

canzone dopo mezzanotte

Era tanto che volevo pubblicare questa canzone ma non l’ho mai fatto prima perché qualcosa mi bloccava. Forse dice così tanto di me che, inconsciamente, mi pareva di mettere in piazza i fatti miei e restare lì nudo come un verme. Poi magari mi sbaglio e nessuno può capire i veri motivi del perché la sento così mia anche se, dato il tema, non è poi difficile. È di John Lennon e già questo basterebbe. È una canzone scritta nel weekend perduto, il periodo di lui che preferisco e anche questo aggiunge punti. Ed è di per sé un gran pezzo, che supera in parte le convenzioni del pop per arrivare a ben più raffinate soluzioni musicali. Ma soprattutto, credo, è il dono degli artisti. Di chi, creando, riesce sempre a dare vita a un’opera che parla insieme per lui e per tutti, un’opera aperta al mondo insomma, e in cui puoi rifugiarti se hai bisogno. Un riparo dalla tempesta. Poi, come già si diceva tempo fa, l’arte non può cambiare il mondo. Si può solo caparbiamente andare avanti, un passo per volta, come dice mio nonno. Fare esperienza. Diventare un po’ più duri. E ascoltare della buona musica se è il caso.



TI BENEDICO (1974, da Walls & Bridges)

Ti benedico, dovunque tu sia
bambina portata dal vento su una stella cadente
gli spiriti irrequieti si separano
ma sono ancora profondamente legati

Qualcuno dice che è tutto finito
adesso che spieghiamo le nostre ali
ma noi lo sappiamo bene, cara
l’anello vuoto è solo l’eco dell’anno passato

Ti benedico, chiunque tu sia
che adesso la stringi, sii caldo e gentile
e ricorda che se anche l’amore è strano
il nostro amore rimarrà per sempre

domenica 1 novembre 2009

requiem per la merini

È morta Alda Merini e mi piacerebbe dire quanto mi dispiace come faranno nelle stesse ore centinaia di persone impietosite ma il fatto è che non mi dispiace a sufficienza da potermi unire al coro. Ho pena di lei, questo sì, in quanto essere umano, in quanto vorremmo che la vita fosse equa e giusta ma non è così e qualcuno soffre più di altri. Vorrei poter dire che almeno questo ha aiutato la scrittrice ispirandola nella creazione della sua opera straordinaria ma la verità è che, se anche trovavo simpatica lei e quella sua aria da zia un po’ folle con l’alito pestilenziale per le troppe sigarette, ho sempre mal sopportato il suo lavoro di poetessa. Non mi piaceva quella sua carica sempre in bilico fra misticismo ed erotismo vagamente morboso, non la sentivo mia, non mi catturava la sua voce e negli ultimi anni detestavo l’orribile rete in cui era caduta, quella del commercio della poesia per cui, unico esempio di poetessa seria e commerciale insieme, o meglio divenuta smerciabile alle masse per chissà qualche strano caso del mercato editoriale, veniva di continuo sfruttata da detto mercato che vendeva di tutto a suo nome, poesie ma pure versicoli appena sbozzati, scarabocchi, pensierini delle elementari e persino, mi è capitato di vedere una volta, un libro che raccoglieva foto delle sue mani che nulla avevano da invidiare ai santini di Padre Pio. E lei che, poverina, aveva continuo bisogno di denaro perché quasi indigente, firmava proprio tutto. Ecco, solo per questo avrebbe meritato il mio rispetto, solo per il fatto d’essere stata in fondo e per tutta la sua vita una vittima, prima di se stessa e della sua malattia, poi della poesia che aveva continuamente perseguito e infine degli altri, pubblico e mercato che, come cannibali, l’hanno divorata senza pietà. Se solo penso a cosa mi aspetterà di vedere nei prossimi giorni sui banconi delle librerie mi sento girare la testa per la rabbia e il disgusto. E rabbrividisco all'idea di cosa diranno di lei e di quello che già se ne legge in giro, da tutta questa bella gente tirata a lucido che piange per la perdita di una grande poetessa e amica e per l’enorme danno subito dalla cultura italiana. Ma la verità è che della Merini come persona importava davvero a pochi e quanto alla cultura in Italia, di quella oggi non frega proprio niente a nessuno.

la mia prima foto di copertina



Titolo: Via S. Michele A. Pubblicata su Largo Bellavista, mensile della Valle d'Itria, n° 34 novembre 2009.