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martedì 12 agosto 2014

l'ultimo battito del mondo

Uno dei motivi per cui oggi sono ciò che sono e faccio ciò che faccio è merito di un film che uscì al cinema quand'ero alle scuole medie e che per molti della mia generazione ebbe lo stesso impatto di Gioventù bruciata sui ragazzi degli anni '50. Il film era L'attimo fuggente, e parlava fra le altre cose di come opporsi al grigiore della vita attraverso la poesia. Senza quel film, che all'epoca mi colpì grandemente e poi ho in parte ridimensionato, non mi sarei mai iscritto al liceo artistico né avrei cominciato a scrivere io stesso.
Lo stupore, quando muore un artista, è vedere come, per motivi diversi, il suo impatto sugli altri è stato altrettanto forte, e come il suo lavoro ci renda un po' più simili, e uniti rispetto alla vita, ai suoi problemi e ai suoi misteri, di quello che pensiamo. Per questo ognuno di noi, quando muore un artista, si sente in dovere di condividere parte del suo amore, attraverso i suoi ricordi, le proprie emozioni che poi scopre essere emozioni comuni. Ed è come se i cuori di tutti battessero all'unisono per quella persona, perché possa sentire quell'ultimo grande battito del mondo anche dalla morte.

martedì 23 novembre 2010

a proposito della morte della poesia

Ieri sera, prendevo un caffè con un’amica, si parlava di editoria e mercato e all’improvviso, dopo averci pensato un attimo, mi ha chiesto perché mi ostino a scrivere ancora di poesia, che tanto non la legge più nessuno. Sulle prime ci sono rimasto male e ho provato a rispondere meglio che potevo. Ma in effetti non è colpa sua, quella che ha espresso è un’opinione comune.
Ed è strano, ci riflettevo stamattina, come ormai si legga dovunque che la vera poesia (quale che sia la vera poesia) abbia ormai un piede nella fossa. Eppure, allo stesso tempo, in molti si lamentano scocciati, e con un atteggiamento che sinceramente trovo non poco snob, che c’è più gente che scrive poesie (spesso brutte), di quante ne legga. Oddio, per certi versi è vero: chi scrive brutte poesie toglie spazio necessario agli altri. E il mercato della poesia, che sforna centinaia di libri al giorno, arricchendosi dei sogni di tanti poveri malcapitati, ha lo stesso e di continuo i conti in rosso, perché strozza il mercato e non mette in evidenza nessuno. Insomma, come ho letto la settimana scorsa (credo) sullo speciale domenicale del Sole24Ore, la prima colpevole se la poesia non funziona oggi, è proprio la poesia. Che ci prova ma non riesce a rinnovarsi e ad adattarsi ai tempi che vive.
Questo però non significa che la poesia sia finita. Tutt’altro mi pare. Io vedo tutta questa gente che riempie i suoi diari segreti o i muri alla stazione o i tovagliolini dei bar, se preferite quel tipo di romanticherie, e sono felice, davvero. Anche se poi quel che scrive sono cazzate, e se quelle cazzate non intaccheranno minimamente, per loro stessa natura, il mercato editoriale.
Il fatto che la gente, molta gente, tantissima, senta il bisogno di mettersi e scrivere in versi i propri sentimenti o stati d’animo, io la vedo una cosa bellissima, e molto molto consolante. Significa che al di là di tutte le lamentele che giornalmente vengono a propinarci, e del fatto che si rimproveri oggi, a tutti, di essere vuoti e spenti e privi di ambizioni e sentimento, c’è ancora chi ci crede nella poesia, chi la sente sua e la vive come un’esigenza primaria, per cui fermarsi ad appuntare dei versi diventa una cosa necessaria, fondamentale, proprio come mangiare e dormire. Magari sarà anche poesia ingenua nella forma ma nello spirito c’è tutta, e cos’altro conta alla fine?
In fondo, se ci pensate bene, abbiamo cominciato tutti così. Con un foglio di carta e una penna e la volontà di parlare col cuore in mano. Soli e nudi e con l’impulso irrefrenabile a dire, a raccontarsi. Certo, chi poi ha continuato seriamente ha letto, si è formato, ha studiato le regole del verso, ma quello va già oltre l’indispensabile. Non tutti saranno il nuovo Montale, o il nuovo Sereni, perché per quello occorre qualcosa di più, che va oltre la semplice passione ma, così come succede per altre forme d’arte (l’ascolto della musica classica ad esempio), è più facile che ad appassionarsi alla poesia sia qualcuno che la frequenta con amore giorno per giorno, portandosela appresso e coccolandola, che non chi la sente estranea e del tutto ininfluente alle incombenze quotidiane.
Casomai, poi, andrebbero coltivati i poeti, cercando di creare degli incontri, continui, fra chi scrive e chi ha scritto, ricordando che i poeti di qualsiasi epoca o nazione o lingua sono tutti fratelli, e devono solo ritrovarsi per pochi minuti per scoprirlo. Ma quella è già un’altra storia. Una storia che non si accorda per nulla coi tempi che viviamo.

venerdì 27 novembre 2009

primamore

L’amore è strano, lo sanno tutti. Ti colpisce quando meno te lo aspetti e nella maniera più insolita, lasciandoti spesso in mano solo una manciata di ricordi, più o meno dolci, o amari. Il mio primo grandissimo amore, ad esempio, l’ho incontrato in terza media: era una ragazza di dieci anni più grande di me, con gli occhi grandi e verdi come quelli di un gatto, la pelle bianchissima che sembrava un’aliena, i capelli tagliati a zero e una voce di quelle che ti metteva i brividi addosso quando cantava. Si chiamava Sinead O’Connor, era irlandese e da quando l’ho vista per la prima volta su MTV, nel video di quella che ancora oggi è la sua canzone manifesto, Nothing compares 2U, per tutti i primi anni ’90 non potevo parlare di lei senza sentire un piccolo singhiozzo al cuore. Son cose che adesso fanno sorridere ma davvero a un ragazzino basta poco per sognare. Ci si può davvero innamorare della ragazza in un video? Certo! Io l’amavo così come mia cugina era cotta di Madonna e si discuteva sempre di chi fosse la migliore delle due. Ma non c’era storia. Madonna era finta, anticonformista solo per i soldi. La O’Connor era come Giovanna d’Arco, per metà santa e per metà guerriera.


Adoro quel video ancora adesso (lo linko qui perché impossibile da incorporare). Mi piace il modo in cui lei guarda decisa in macchina da presa e subito dopo abbassa o sposta lo sguardo di lato in maniera così schiva, quella lacrima che a un certo punto le si vede scendere lungo la guancia mentre canta e tu sai che non è finzione, che si è davvero commossa, il modo in cui modula la voce ora deciso ora tremante e anche se allora non capivo quasi nulla di quel che diceva sapevo che parlava al mio cuore. Era bellissima, e diversa da tutte le altre!
La canzone era pregna del suono degli anni ’80, che molti oggi detestano, ma ho sempre pensato che la musica di quel decennio fosse la più disperata di sempre, così legata alla poetica del carpe diem, del cogli l’attimo prima che sia troppo tardi. Di sicuro a ispirare tutto questo era l’ansia per le incerte sorti della guerra fredda, il consumismo imperante, il rampantismo assurto a stile di vita sul modello americano. E non per nulla a fine decennio venne girato quel capolavoro assoluto che è L’attimo fuggente, che mostrò alla mia generazione, cresciuta a dosi di tette e battutacce del Drive-in, le possibilità offerte dalla riscoperta del romanticismo e della poesia come unica alternativa alla volgarità e al grigiore del mondo. In quei giorni decine di ragazzi come me vennero grandemente colpiti dalla visione di quel film, che fu un po’ il nostro Gioventù bruciata. Forse non ebbe lo stesso impatto sociale, ma fu sufficiente. Ecco, la musica degli anni ’80 aveva lo stesso fascino malinconico e un po’ decadente.


La O’Connor veniva da quegli anni e quella canzone aveva qualcosa di quello spirito ma lei era diversa. Era Giovanna D’Arco, un po’ santa e un po’ guerriera. Lo si capì due anni dopo quando, ospite del Saturday Night Live, una delle più importanti trasmissioni televisive degli Stati Uniti, strappò in diretta, lei che da irlandese era una fervente cattolica, la foto di papa Giovanni Paolo II gridando “Combatti il vero nemico!” (e non intendeva ovviamente il papa in sé ma la Chiesa, in quei giorni coinvolta in una serie di scandali sulla pedofilia), scatenando così contro se stessa le ire dei benpensanti. Poco dopo venne invitata al Madison Square Garden a un concerto tributo per il trentennale della carriera di Bob Dylan. Avrebbe dovuto cantare I believe in you, una sentita preghiera a Dio scritta da Dylan a fine anni ’70, ma una volta sul palco il pubblico, ancora irritato da quanto successo in tv, cominciò a fischiarle contro impedendole di cantare. A quel punto successe qualcosa di incredibile: la O’Connor venne presa da sacro furore artistico, afferrò il microfono e cantò a cappella War di Bob Marley, cantò con tutta la rabbia che aveva in corpo fino a zittire un intero stadio. Finita l’esibizione lanciò un ultimo sguardo, di quelli che ti gelano il sangue, alla gente davanti a sé, poi si voltò e tornò dietro le quinte dove si abbandonò in lacrime fra le braccia di Kris Kristofferson. Fu una cosa straordinaria e secondo me fu l’apice della sua carriera (che dopo si affossò lentamente e senza rimedio), e anche di quella serata. Nella performance improvvisata della O’Connor rivisse lo stesso spirito che animò Dylan quella sera del 1966 in cui sfidò il pubblico di Manchester cantando a volume “fottutamente alto” Like a Rolling Stone dopo che qualcuno gli aveva gridato “Judas!” dalla platea. Fu lo stesso spirito che, passando attraverso l’anarchia del punk e di pochi altri eroi solitari, creò un filo invisibile che li legava, una linea tesa a delimitare i confini di una zona in cui ancora più di Nothing compares 2U quell’esplosione di rabbia e dolore, quell’esibizione dettata unicamente dall’istinto e dal coraggio avevano un senso. Quella linea che mostra la distanza che passa fra chi vuole fare i soldi e chi invece fa dell’arte.