domenica 31 dicembre 2017

messaggio di fine anno alla nazione dal poeta lillo

Gli ultimi giorni, per me, sono stati caratterizzati da due libri e da un film che mi sembrano chiudere l’anno con un messaggio ben preciso che voglio condividere. I due libri sono I detective selvaggi di Roberto Bolaño e Il fucile da caccia di Yasushi Inoue. Il film è il reportage Castelporziano. Ostia della poesia di Andrea Andermann. Tutti e tre parlano di poeti e di poesia, di cosa sono e di cosa vorremmo che fossero. In particolare il festival di Castelporziano del 1979, di cui ha scritto Guido Mazzoni su Le parole e le cose segna un momento cruciale della nostra letteratura, quello in cui la poesia, per le masse, smette di essere linguaggio più o meno accessibile e diventa prodotto. C’è un momento terribile del film, che già di per sé mette grande tristezza e imbarazzo, in cui, dopo che per circa un’ora ci si interroga su cosa sia la poesia in uno scontro all’ultima battuta fra pubblico e scrittori, senza riuscire a dare una sola risposta che paia credibile, quelli della tendopoli protestano di sentirsi incazzati perché nessuno dei poeti invitati al festival – gente come la Rosselli, Bellezza, Viviani, Conte, Cavallo, Zeichen ecc. – è riuscito a incarnare ciò che per loro “è” la poesia: in altre parole la poesia non è riuscita a soddisfare l’idea che se ne erano fatti, rifiutando di lasciarsi circoscrivere a mera rappresentazione di se stessa. Che è, sempre, tutto ciò che fa e dovrebbe fare l’arte, anche a costo di sfidare apertamente il proprio pubblico. Sui Detective Selvaggi non mi addentro, sarebbe inutile, ma mi entusiasma che i protagonisti indiscussi del romanzo siano poeti. Lo dico soprattutto per i tantissimi lettori che lo adorano ma non leggono un solo verso di poesia, e tolti i classici – i vari Octavio Paz che Bolaño odiava – non saprebbero da dove cominciare a definire il mondo in cui si immergono. Eppur si muove, è fatto di poesia e in esso trovano respiro. Ancora un poeta è il motore scatenante del libro di Inoue: la sua decisione di pubblicare una poesia ispirata da un fucile muove alla confessione dei propri oscuri sentimenti un traditore infelice, il quale fino a quel momento non immaginava cosa potessero scatenargli dei versi ben indirizzati al bersaglio: ciò che per convenzione chiamiamo “cuore”, ma che va ben oltre, alla radice del nostro sentire noi stessi, il paesaggio in cui siamo e l’enorme rete di rapporti che ci definisce come individui. Ecco, quel che mi auguro per l’anno che verrà, per me e per tutti, è di mettere da parte dubbi e preconcetti, di non ragionare troppo a mente fredda, chiedendoci cosa sia o non sia la poesia e se può esserci utile, se siamo o non siamo adatti a prenderla, se siamo alla sua altezza oppure no, ma di lasciarci andare, penetrare, acuendo i nostri sensi all’infinto. Non neghiamoci la possibilità di una nuova rivelazione per il solo fatto che pensiamo di essere altro o di meritarci altro che una manciata di versi – e quante volte ci siamo detti: “pensavo di essere diverso da quello che poi mi sono rivelato”? – ma siamo e basta, animali istintivi, mostriamo il petto nudo pronti a quel colpo di fucile che si spingerà dentro la carne, nel sangue, fino al nostro centro, fino a esplodere in ogni nostro atomo. E godiamoci il momento in cui, feriti, ci sentiremo vivi, liberi, fragili e innocenti. Tutto ciò non potrà che renderci migliori.

proposta al mio paese per il nuovo anno


La mia pusher di fiducia mi segnala questa notizia: a Corato hanno adottato un poeta. Ecco, se il mio bel comune (che, diciamolo, non ha nulla da invidiare a Corato) come proposito e saggio investimento per il 2018 volesse adottarmi io non avrei nulla in contrario. Anzi, prometto di evitare tutte le inutili smancerie, i tira e molla, i te la do non te la do che caratterizzano troppi artisti che non sanno cosa vogliono dalla vita, e firmerei al volo, qualsiasi area politica proponesse la cosa. Per il mio paese e per la pensione di genialità farei questo e altro.

sabato 30 dicembre 2017

di pretini e di pornografi

Lo dicevo un paio di settimane ad alcuni ragazzi. Molti scrivono, ma non hanno il tempo per leggere, o così mi dicono. E a me è venuto spontaneo chiedere loro: Ma il tempo per scopare lo trovate? Loro hanno riso, ma io la trovo una cosa abbastanza naturale. Perché, se scrivi, lo fai soprattutto perché le parole ti piacciono troppo e perché, nonostante tutto, non puoi farne a meno, proprio come scopare. Mica si scrive veramente per vanità intellettuale o per far soldi, ma perché le parole diventano quasi un bisogno fisiologico. E se ti piacciono le parole – a meno che tu non sia un impenitente masturbatore – ti piacciono tutte quante le parole, quelle tue ma pure quelle degli altri quando sono messe insieme in quella certa maniera che ti scatena un’euforia simile alla sensazione che precede il godimento. Chi non conosce quella particolare sensazione mi fa un po’ pena, ma del resto di sfigati è pieno il mondo e non è che dobbiamo per forza salvarli tutti. Ecco, se devo proprio dirla, dal mio punto di vista uno scrittore è una persona di davvero bassi istinti, più vicino a un pornografo che a un bravo padre di famiglia: un momento è normalissimo, un momento dopo si rabbuia e comincia a prudergli la penna, deve dar sfogo all’istinto. E pur di soddisfarlo diventa egoista e anche un po’ stronzo. Ecco perché, in questo senso, conosco tanti bravi pretini ma pochi veri scrittori.

un amore come il vostro

Dalla storia tra te e la mamma ho imparato che esiste anche un tipo di amore che non riceve, non può ricevere, la benedizione di nessuno. Quello tra te e la mamma era un amore che solo tu e lei conoscevate – e nessun altro. Né la zia Midori né io ne sapevamo niente, e nemmeno i nostri parenti. Non lo sapevano quelli delle case vicine, né quelli dal lato opposto della strada, e nemmeno gli amici più intimi. Nessuno doveva sapere. Ora che la mamma è morta, a saperlo sei solo tu. E quando anche tu morirai, non ci sarà nessuno su questa terra che potrà immaginare che sia esistito un amore come il vostro. [...] Come avrei potuto immaginare un amore che non riceve i raggi del sole, che non si sa dove nasca e dove vada a finire, sepolto nelle viscere della terra come un canale sotterraneo? 

Inoue Yasushi, Il fucile da caccia, Adelphi

il zippo

Ho sognato che mi facevano una intervista e mi chiedevano: Dove vuoi arrivare?
Io rispondevo: Dove si pianta il zippo.
Cominciamo bene.

venerdì 29 dicembre 2017

il cuore vuoto

Oggi al funerale di Tina pensavo che per quanto ci sforziamo di essere bravi e onesti, di amare e rispettare gli altri, di esserci per i nostri cari, proprio per questo siamo già, in potenza, portatori sani di dolore, la certezza che verremo a mancare a qualcun altro causandogli una sofferenza indicibile. Noi pensiamo sempre a ciò che perderemmo “se tu non ci fossi”, e non consideriamo mai che siamo prossimi alla fine, manca un soffio, e di quella fine siamo cellule di male già pronte a scoppiare nel cuore vuoto degli altri. Il nostro vuoto scavato con amore.

sguardo

Chissà perché quelli della mia famiglia hanno tutti lo sguardo sperduto di chi si chiede di continuo qual è il loro posto nel mondo. Persino dal manifesto di morte sembrano fissarti sbalorditi e dire: ma io che ci faccio qui?

giovedì 28 dicembre 2017

l'inutilità del canto

Morta una moglie non se ne fa un’altra.
La figura resta come raggelata: stella frigida
al culmine del vuoto un bacio inutile
non rianima il maltolto. Non offre
conforto più accorato la parola muta e livida.
Non il canto al sordo amore dei defunti. È inutile.

sotto il cielo d'europa

Ieri sera nel giro di un'ora circa una ragazza romena mi ha detto che sono come Santa Claus e un ragazzo olandese mi ha detto che sono scopabile. Insomma, c'è stato un attimo che mi sono sentito importante, uno che spacca. Infatti Martino se n'è accorto e mi ha detto che sembravo il Padrino. Daje!

mercoledì 27 dicembre 2017

generi

Con Gino abbiamo deciso che non dovrebbero più esistere “maschile” e “femminile”, che a conti fatti servono a ben poco nella ricerca della felicità, ma che ogni esemplare umano dovrebbe dividersi nei generi: “scopabile” più o meno intensamente, “lasserei altrui” (con citazione colta da Cecco Angiolieri) e “detraibile” nel caso in cui si fosse fatta una qualche confusione e si richiedesse a Dio uno sconto sui propri errori.

martedì 26 dicembre 2017

col maestro e amico carlo formigoni



abiura

Spiace ammettere, dopo anni di speranze deluse sfociate nell’astensionismo elettorale, che oggi molte delle battaglie sociali che ritengo fondamentali per la creazione di una nuova Europa non sono più appannaggio, se non a chiacchiere o slogan, di alcun partito politico italiano. Lì dove c’è ingiustizia, dove c’è dolore, l’unico vero schieramento che ho visto scendere in prima linea accanto ai più deboli è stata la Chiesa, intesa come comunità di fedeli, come Caritas, come parrocchia, spesso come singole voci contro. Lo dico con la consapevolezza che tutto questo non debba confondersi con certi ambienti del potere vaticano. Eppure, nonostante quel marciume vescovile, le uniche prese di posizione concrete che ho visto sollevarsi in Italia e a livello internazionale su questioni fondamentali come il rispetto della persona, l’accoglienza dei migranti, lo strapotere degli ambienti finanziari e mafiosi, la politica imperialista americana e quella vergognosa in Terrasanta, fino ad argomenti delicatissimi come la morte assistita (dove il suo intervento è stato determinante nello sciogliere le riserve del Senato) le ha prese papa Francesco. Giuste o sbagliate che si ritengano le sue parole, lui le ha pronunciate. «Di’ qualcosa di sinistra» rimproverava Moretti a D’Alema in Aprile. Papa Francesco quella parola di sinistra a me l’ha data. Gli altri hanno taciuto o tergiversato o menato il can per l’aia per troppo tempo e con troppi calcoli per risultare ancora sinceri. Ragion per cui, pur restando ateo su questioni di fede, faccio atto di abiura politica e dico che se domani ambienti legati alla Chiesa scendessero in campo proponendo di rifondare un partito democristiano in linea con le posizioni esposte oggi dal papa e in linea dunque con le mie stesse posizioni, non esiterei un solo attimo a tornare a votare, e voterei immediatamente DC.

lunedì 25 dicembre 2017

pensierino dalla notte di natale (ascoltando george michael)

Spesso mi si paracula perché scrivo troppo sui social, ma quello che scrivo non è che il 10% di quello che vivo e provo e ciò che non dico è sempre tanto di più di quello che mostro. A chi pensa di avere tutte le risposte solo perché legge i miei post, perché magari lo faccio ridere con le mie disavventure, delle volte viene quasi da rispondere: ma tu che sai di me? Il mio 2017 è stato un anno orribile, pieno di perdite e di lutti, di ansie e di paure, in cui hanno prevalso la solitudine e la sfiducia, in cui credo di essere stato per gli altri una persona peggiore di quello che potrei. Che cosa ho imparato da tutta questa sofferenza? La domanda resta irrisolta. Me ne rammarico, ma non ci si può fare più nulla, bisogna guardare avanti e sperare che il futuro possa rivelarci nuovi paesaggi che finora non avevamo considerato. Perciò auguro a tutti, me compreso, di avere più fortuna. 
(Post scritto la notte di Natale ma intercambiabile a piacere col Capodanno o col mio compleanno, tanto l'umore sarà uguale).

sabato 23 dicembre 2017

anniversario


Esattamente a dicembre di dieci anni fa vincevo, a pochi giorni di distanza, due premi di poesia: il premio Laurentum di Roma e il premio Claudia Ruggeri di Lecce. Grazie a quest'ultimo ho pubblicato la mia prima plaquette, chiamata Memoria ed edita da Terra d'ulivi. Erano nove poesie brevi in uno stile a metà fra Montale e Sereni, che davano inizio alla mia carriera di poeta pubblicato. Sette di quelle poesie sono poi confluite nel mio primo libro, L'innocenza del male (Lietocolle). E questa è una delle due escluse.

***

Primo è il tuono a tarda notte. Ci costringe
a alzarci a spegnere la sete. Su ci versiamo
che rimane sul fondo del bicchiere. Una sola
sigaretta si accende alla finestra e l’odore
prorompe pungente di pioggia e di pini bagnati.

Terzo a rompersi è il cuore quando voltandoti
mi chiedi – canticchiando – ti
amo? E la risposta si perde tra le volute di fumo.

vita sociale

“Esclusi gli infermi e gli ultranovantenni sei la persona con meno vita sociale della Valle d’Itria.”
Quando gli amici tornano dall'emigrazione ti regalano queste perle.

venerdì 22 dicembre 2017

editori seri contro il mercato

“Il primo esempio, radicale, è quello della Raffaelli editore. 25 anni di attività, catalogo illuminato, Walter Raffaelli continua a pubblicare libri ‘fuori mercato’, dai Quattro quartetti di Thomas S. Eliot ai grandi poeti di oggi. La sua non è una impresa editoriale, è un’isola. L’editore, infatti, ha deciso di non avere più nulla a che fare con i distributori né con le librerie né con Amazon. I libri di Raffaelli li trovi da Raffaelli: gli scrivi e li ordini o lo vai a trovare. Come una osteria pentastellata dal Gambero Rosso.” 
Ecco il mio personalissimo modello di sviluppo editoriale. [Leggi qui l’articolo]

giovedì 21 dicembre 2017

senza risposta

Una volta i miei nonni, se volevano fare un complimento a qualcuno, dicevano: «Jè nu fatiatore», è un lavoratore. Perché per loro, per la loro generazione più che per la mia, il lavoro era la massima espressione dell’uomo, al punto che la parola lavoro è finita nel primo articolo della nostra costituzione: L’Italia è una repubblica fondata sul Lavoro. Non sulla residenza, ma sul lavoro. Proprio per questo io, da cittadino, mi chiedo: ma i tanti neri che si vedono tornare ogni sera verso Laureto dopo aver lavorato non so dove di preciso, che si fanno ogni mattina quella stessa strada verso il paese, a piedi o in bicicletta e che tornano poi col buio, con gli stivali di gomma e i vestiti macchiati di conza, proprio come facevano i nostri nonni settant’anni fa, (e chissà dove lavorano e per il bene di chi si fanno ogni giorno tutti quei chilometri con la paura addosso e le auto che gli corrono accanto), quei neri lì che camminano ogni sera sul bordo non illuminato della strada, se qualcuno li mette sotto io li posso considerare vittime di Stato?

passaggio

Harold Bloom, in Canone occidentale, dice che per acquisire una voce propria gli scrittori (gli artisti) devono prima scendere in polemica coi i propri padri letterari per poi superare questa fase e far pace con loro. Quando fai pace coi tuoi padri letterari allora sei uno scrittore adulto e hai una voce tua. Leggendolo mi è venuto da pensare a quello che invece scriveva Pavese, riprendendo in parte i miti greci e in parte la letteratura americana. Pavese parla di uccidere il padre. Credo che questo passaggio da Pavese a Bloom sia una cosa bellissima e fondamentale: diventare adulto non quando lo guardi dall'alto, quando lui è a terra morto e tu ne prendi il posto (prima eri tu quello più piccolo e lui ti dominava dall'alto), ma quando fai pace con tuo padre e arrivi a guardarlo negli occhi da pari.

poesia a memoria

                                                                          per Licia Vignotto 

«C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole
anzi d’antico» manda a memoria
la fanciullina sola che va e che viene
sul balcone sopra i roller viola e rischia
d’investire il gatto nello studio assorto dei versi.
S’interroga già sola di fronte all’avvenire
se la poesia non offra soluzioni o speranze
fra le rime appena più vicine del sole
o se invece dovrà risalirne le strofe
in quel cielo di fatica come il gatto arrampicato
sulla tenda per sfuggire alla rincorsa.
«Mi piace» ride forte la ragazza vestita
per il ballo immaginario e sfreccia
in quell’altrove con l’istinto
di chi non soffra le vertigini del canto. Il cielo
per lei sull’aquilone sarà tutto celestino. È pronta.

mercoledì 20 dicembre 2017

gelosia

Ho appena scoperto che la mia gatta è gelosa del pc. Lo guarda minacciosa e gli soffia contro. Dice che le ruba le mie attenzioni. Ora mi chiede un pescetto a colazione per farmi perdonare. Siamo già ai ricatti emotivi, ma si può? Io me ne lamento e lei mi gira le spalle e se ne va a dormire lontano, sul tappeto, girandomi le spalle offesa.

martedì 19 dicembre 2017

morte di un albero

Ci sono state molte battute a riguardo della "morte" inutile di quest'albero ribattezzato Spelacchio, ma io quando ho sentito la notizia ho pensato a quel bellissimo passaggio di Avere o Essere di Eric Fromm che distingue fra le nostre due modalità esistenziali: occidentale, rappresentata da una poesia di Tennyson, e orientale, rappresentata da una poesia di Basho, attraverso il diverso rapporto di questi poeti con un fiore di cui scrivono. L'occidentale Tennyson strappa il fiore (sradica l'albero) per dar sfogo al proprio ego, perché ritiene che in un certo senso tutto all'uomo appartenga; l'orientale Basho, invece, non fa nulla, lo contempla, cerca un contatto più profondo che non annienti il fiore. Potrà sembrare azzardato, ma sapere che a Roma ci sono così tanti stronzi che gongolano per la morte di un albero non mi consola della perdita.

lunedì 18 dicembre 2017

amicizia

Giuro che sarà la quattromilionesima intervista che leggo a un artista italiano che dice di essere stato grande amico di Luigi Tenco. Ma con tutti questi amici che teneva Tenco, chi glielo ha fatto fare di sucidarsi per protestare contro il fatto che nessuno lo capiva?

il nome delle cose

Mi pare che ultimamente si stia usando un po’ troppo a sproposito la parola "femminicidio", che come tutte le parole, se usata troppo, perde di significato. Anche stamattina al Tg annunciano un nuovo caso di femmincidio, ma poi parlano di un uomo – pakistano – che in un raptus ha ucciso la moglie dopo l’ennesimo litigio. Una volta lo avrebbero chiamato dramma della gelosia. Che raccontata così sembra una cosa molto simile al femmicidio, ma per cui invece c’è un termine apposito: “uxoricidio”, assassinio della moglie, che designa tutta un’altra sfera di significati sul piano del contesto (famigliare, sentimentale) e su quello delle conseguenze (giudiziario, per i figli). Non credo che si possano mettere così impunemente sullo stesso piano l’uccisione di una moglie (uxoricidio) e quello di un altro essere umano per motivi discriminatori (femminicidio). A meno che non si supponga già che abbiano la stessa radice culturale. Che cioè l’uomo coinvolto non sia un semplice marito sfiancato da mesi di litigi in casa, o un innamorato terrorizzato dall’idea di venir lasciato, quanto piuttosto il classico patriarca possessivo. Perché supporlo? Perché era un uomo? Basta questo? Perché era pakistano? Allora potrei dire che in questa notizia c’è nascosto un sottile velo di razzismo. È comunque un omicidio ed è una cosa gravissima, ma non togliamo il suo nome alla cosa, perché se togli il nome alle cose poi togli loro anche il significato, fino al punto che non significano più nulla oppure che significano qualcos’altro.

domenica 17 dicembre 2017

il poeta R. ...

Il poeta R.:
tubercolosi
alcol
di tanto in tanto
un verso

Ryszard Kapuscinski

a dieci anni da allora

QUELLO CHE NON SIAMO (POETI DEL SUD) 

Non siamo un gruppo di giovani poeti rampanti all’assalto del mondo. Non abbiamo risposte da darvi ma c’interroghiamo di contino sul loro senso. Veniamo dal Sud, ma non siamo così radicati: siamo emigrati o disperanti del futuro. 
«La luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci» scriveva Pasolini. Il quale, qui al Sud, ci ha riscritto il suo Vangelo. Noi abbiamo ancora quelle facce? Quelle cadenze dei suoi personaggi? Di certo abbiamo visto gli stessi posti che in quarant’anni sono cambiati poco e sempre male. Ma non crediamo – non tutti – in quel messaggio. 
Non abbiamo niente da difendere, fuorché noi stessi. Questo è il nostro progetto. 
E pur riconoscendo la grandezza di Bodini, Scotellaro o Pierro, il nostro Sud è superato – o in effetti attraversato su di un ponte, ma non verso un ipotetico Nord vincitore mediatico (come può facilmente supporsi), quanto piuttosto verso un altro mondo di sconfitti, di sopravvissuti, di fratelli. Di uomini, ché poi è l’unica cosa che conta. 
In fondo, ci chiediamo, che significa credere nel Sud? Il sud non è, forse, per definizione, sempre un altrove? Difendiamo la nostra vocazione, allora, a perderci. 
È vero, ci piacciono i paesini, la vitamara, e quella cosa detta paesanità (o paesologia come l’ha ribattezzata Arminio), ma questo non ci contraddistingue in meglio o in peggio. Più di mezza Europa è provinciale. Usiamo una lingua comune, nazionale. Ma ci piacciono anche lo spagnolo, il russo, l’inglese, l’arabo, il francese, il tedesco, il turco e il giapponese… Ci piace il dialetto – qualcuno anche lo scrive – ne riconosciamo la ricchezza e il valore, ma molti di noi ricorderanno quando, da bambini, i nostri genitori si sforzavano di parlarci in italiano per scongiurarci dalla sua maledizione, d’essere definiti dei cafoni. 
Lo so, c’è un inghippo intellettuale, sociale, in quello come nell’odierno atteggiamento di riscoperta a tutti i costi. Ma noi non rinneghiamo niente, non siamo contro nessuno per partito preso. Né rimpiangiamo un passato contadino che non abbiamo avuto. Perciò non schierateci, non attribuiteci definizioni. Noi scriviamo come ci pare. 
I tempi stanno cambiando, diceva una famosa canzone. A essere sinceri cambiano di continuo, senza freno. E la luce del futuro talvolta diviene terrorizzante ad affrontarla da soli. Per questo facciamo gruppo, cerchiamo contatti. Per non sentirci troppo soli fra noi e noi. 
«E come restiamo?» ci chiese l’altra sera Lino Angiuli, dopo un pomeriggio passato insieme a chiacchierare, a mangiare e respirare fichi d’India. 
«Restiamo amici» rispose Mimmo, per tutti. 

2007

martedì 12 dicembre 2017

ninna nanna al gatto

Ore sei del mattino il mio vicino dirigendosi
al lavoro molla con insolita allegria
la più violenta scorreggia della storia.
Tale che il mio gatto pavido, chiamato Mao
a sproposito, s’infila nel mio letto intimorito
e io confuso gli dico per chetarlo ma no buono
è la bufera che avanza e ci preannuncia che ancora
rivolterà la storia, abbatterà in un solo vento
gli stronzi democratici che siamo. Nulla ci puoi fare
e quindi dormi. Passato il mio vicino
ridotto poverino a un suono già metafora del tempo
l’alba si tinge d’arancione, Mao dorme contento.

lunedì 11 dicembre 2017

razzista

Stasera in treno, poco prima di scendere alla mia fermata, un tipo, un ragazzo di colore un po’ più alto di me, mi si mette dietro, mi si attacca proprio alle spalle. Una distanza imbarazzante. Io mi sposto di lato e quello continua a starmi dietro, letteralmente sul culo. Al che mi giro e gli dico: “Aria. Distanza.” Lui mi guarda come se fosse sorpreso, sbatte gli occhietti, e risponde: “Razzista.” “Bello” gli dico, “io e il razzismo siamo due mondi a parte, però se uno mi si attacca al culo, due sono le cose: o mi vuole fottere il portafogli oppure mi vuole fottere e basta. La puoi chiamare come ti pare, ma di sicuro non è razzismo.” Quello mi guarda, stavolta a distanza di sicurezza, e fa: “Razzista.”

domenica 10 dicembre 2017

sabato 9 dicembre 2017

my favorite tune

My Favorite Tune è una sorta di retrospettiva per piano solo ed è il terzo e ultimo lavoro in studio (a vent'anni di distanza dal secondo, Mellow Dream) di Ryo Fukui, jazzista giapponese il cui primo album, Scenery (1976), è considerato in patria una sorta di oggetto di culto fra gli appassionati del genere, per la qualità della musica ma anche per via del carattere assai schivo, riservato del suo autore, che passò la maggior parte della sua vita nell'ombra, facendo quello che più gli piaceva: suonare.

venerdì 8 dicembre 2017

i mostri


Leggo con fastidio i soliti commenti a un certo post. Nel post si mostra una foto della prima metà del ‘900 in cui una povera ragazza eritrea, col vestito strappato e i seni scoperti, viene “mostrata” come bottino di guerra da alcuni soldati durante l’occupazione fascista di quella regione, periodo nel quale si perpetrarono stupri e ogni sorta di sopruso contro la popolazione occupata. Ecco dunque scatenarsi i commenti che vanno da “luridi fascisti” a “fascisti di merda” ecc. in ogni sorta di insulto possibile e poi, su istigazione di uno, si indirizzano contro il “porco fascista Montanelli” che, come risaputo, sposò una ragazzina di colore secondo una delle leggi di occupazione dell’epoca e quindi via con gli insulti anche a lui. 
Ora, sono in tutto e per tutto d’accordo che quelli siano stati dei crimini di guerra terrificanti, proprio come lo sono tutti i crimini legati a qualsiasi guerra di sempre, passata e presente. Il punto è che quando leggo questi post mi viene da pensare che si crei come una scissione fra chi parla e il proprio passato, e la storia del proprio paese e delle proprie famiglie. O forse pensano di essere tutti innocenti? Perché diciamolo, in Italia, all’epoca, erano tutti o quasi fascisti: chi per credo, chi per paura, chi per convenienza. E qui va capito: ma stare zitti a guardare e a subire è forse meno grave che fare il male con le proprie mani? E quando si dice “porci fascisti” di chi si sta parlando? Di una entità astratta o di qualcuno che si conosce bene? Io non sono fascista, ma mio nonno lo era. Che dovrei fare? Dare fuoco alla sua tomba per ripicca? Per fare giustizia di quello che lui e quelli della sua generazione hanno fatto, magari senza capire il male di cui erano complici? Gli italiani fecero la Resistenza, è vero, ma la fecero in cinque contro i cinquemila che restavano a casa. Può bastare questo a lavare il disonore di un popolo? 
E poi, Montanelli era fascista, è vero, così come Pirandello, D’Annunzio, Ungaretti, Cardarelli, Salvatore di Giacomo, Curzio Malaparte, Moravia, e Piovene, Pratolini, Guareschi, Fortini, Gadda, Sereni, Vittorini, Flaiano, Silone (che faceva il doppio gioco) e mi fermo ai primi nomi che mi vengono in mente, ma si potrebbe tranquillamente continuare con tutti i Futuristi (Balla, Boccioni), poi Burri, Sironi e nel cinema il primo Rossellini, Sordi, Aldo Fabrizi… Poi c’è Pavese, che non era fascista ma non era neppure antifascista e il confino se lo beccò per una donna. Che cosa ne facciamo di Pavese? E noi, che cosa dovremmo fare di tutti loro, cresciuti o toccati, anche per poco, dal fascismo? Cancellarli definitivamente da ogni programma scolastico finalmente epurato dalla nostra merda storica? O dovremmo separare il grano dalla crusca, chi rinsavì dai più convinti, quelli che non capirono nulla da quelli che capirono ma fecero i furbi? 
E se li epuriamo, cosa dovremmo bruciare, cosa leggere? Croce era antifascista e così Montale, si potrebbero leggere esclusivamente i loro libri, ma sai che noia dopo un poco. Fenoglio era partigiano, così come Calvino e già va meglio. Ma poi? Molti scrissero pamphlet contro il fascismo ma dopo, come per ripulirsi la fedina, li teniamo oppure no questi libri? Pasolini oggi lo amano quasi tutti ed era antifascista, ma era anche ricchione e pedofilo, quindi che facciamo? Non leggiamo più i fascisti perché stupravano le ragazzine di colore e ci teniamo un antifascista che si imboscava coi ragazzini di borgata? Che coerenza è? Al rogo anche Pasolini, per par condicio, e Sandro Penna assieme a lui, e tutti quelli come loro! Tutti quelli che, nel bene o nel male, il male lo fecero non perché erano fascisti o antifascisti, ma perché semplicemente erano mostri – proprio come noi – che vivevano portandosi dietro il proprio orrore di essere umani.

giovedì 7 dicembre 2017

se vuoi leggere, scrivi

C'è sempre da imparare da Giulio Mozzi

Se vuoi scrivere, devi leggere: così dice un luogo comune (i luoghi comuni, sappiatelo, sono espedienti retorici), ma il fatto che sia un luogo comune non comporta che l’affermazione non sia vera. La domanda istantanea è: sì, ma cosa leggere? Non mi metterò a fare una lunghissima lista: mi limito a ricordare che la frequentazione di qualche classico (qualunque cosa si intenda per “classico”) è sempre utile; e non a caso scrivo “frequentare” e non “leggere”. Si impara di più leggendo e rileggendo, magari con la matita in mano, pochi grandi libri, che leggendo distrattamente una quantità di libri. 
[...] Se vuoi leggere, scrivi, diceva Leopardi nel Parini, una delle Operette morali meno (ahimè!) lette. E voleva dire: che solo quando ci si scontra con le difficoltà della scrittura si riesce a capire il valore delle soluzioni che alle medesime difficoltà hanno date i grandi scrittori. 

lunedì 4 dicembre 2017

napoli milionaria

In questi giorni è venuto a trovarmi un amico di Napoli il quale mi ha confidato qualcosa di molto importante. Napoli vuole staccarsi dal Norditalia, sono stanchi di riempirci di musica, invenzioni comiche, filosofia di vita e anche di una criminalità un po' folcloristica senza i grandi progetti che assume in Europa. Ho subito telefonato ad alcuni amici milanesi e li ho sentiti preoccupati e disperati. Mi chiedono di fare qualcosa per convincere i napoletani a non togliere a quelli del Nord la patina di umanità che migliora tanto il loro aspetto da sudditi del lavoro. Appunto queste poche righe vogliono essere il mio primo contributo. 

Tonino Guerra, Tempo di viaggio, Maggioli

una leggenda tutta scritta

Un'antica leggenda ebraica dice che il mondo delle Lettere si regge sulle spalle di 36 giusti equamente divisi: 18 stanno sotto l'albero della Scrittura e 18 sotto quello del Successo. Qualche volta le radici dei due alberi si toccano, e tante altre volte no. Entrambi i gruppi però servono alla diffusione della Letteratura nel mondo, in tempi e modi diversi. Però i primi 18 non sanno di far parte dei giusti né forse lo sapranno mai, e soltanto se va bene verranno riscoperti postumi come innovatori incompresi. Mentre alcuni dei secondi 18 sospetteranno per tutta la vita che, terminato il loro tempo e il loro immediato successo, verranno presto sorpassati e dimenticati. E visto che a me è toccato in sorte di non far parte dei secondi (il portafogli non mente), spero tanto che un giorno qualcuno mi reinfili fra i primi, non fosse altro che per la simpatia che gli faccio con i miei post.

domenica 3 dicembre 2017

nuovi atlanti della poesia

È un fatto quasi naturale, per addetti ai lavori e appassionati, che periodicamente si avverta l'esigenza di fare il punto e tracciare una mappa poetica della propria terra. Nell'ultimo periodo, dunque, abbiamo visto nascere numerosi atlanti online della poesia italiana, alcuni dei quali palesemente confusi, in cui ad esempio si indicano come poeti di area meridionale nomi che col sud non c'entrano nulla, oppure omettere o dimenticare persone invece necessarie. In tale calderone il gruppo Tinelli Poetici sta cercando di affrontare l'identica impresa ma focalizzandosi esclusivamente sui poeti pugliesi, cosa che finora mi pare avesse fatto solo l'editore Gelsorosso in collaborazione con l'Archivio della poesia pugliese della Biblioteca di Noci. Sono passati già parecchi anni da allora, the times they are a changing e qui ci sono nuovi poeti che bussano alle porte, fra cui molti autori di Pietre Vive Editore, uno dei quali è il tipo che fa il duro nella foto qui sotto. 


Nella pagina che mi hanno dedicato sono prensenti una breve nota biografica, alcune poesie tratte dai miei libri e l'intervista che riporto.

Come e quando si è manifestata la tua passione per la poesia? 
Alle scuole medie, incrociando I fiumi di Ungaretti durante la più pallosa lezione di matematica della storia. Stavo sfogliando l’antologia sotto il banco e il professore mi beccò e mi mazzolò per bene. Da allora mi resta l’idea romantica della poesia come alternativa alle istituzioni. Anche per questo, credo che la Scuola sia un luogo fondamentale per la diffusione della poesia, così come di tanti altri generi, come ad esempio l’opera. Bisognerebbe fortemente ripensarla a cominciare da chi la pensa male.

Che rapporto hai con la tua terra? È presente nei tuoi versi? 
Sì e molto, credo. Soprattutto perché non faccio grande vita mondana e, dai trent’anni in su, ho una maggiore consapevolezza di certi meccanismi che legano la parola al paesaggio, cosa che mi spinge sempre più alla riscoperta del mio dialetto. In questo modo la mia terra sta già posata sulla lingua prima ancora che la pensi. 

Ci sono temi particolari ai quali la tua poesia è legata? 
Nell’ordine: problemi sentimentali o con la gnocca, problemi con la morte, problemi col lavoro, problemi col mio presente. Non proprio una poesia pacificata, insomma, ma cerchiamo di non farlo pesar troppo. 

Ci sono autori nei confronti dei quali ti senti in debito? autori che sono tuoi punti di riferimento?
Tanti. I più significativi però sono quelli che non riconosce nessun altro. 

In qualità di editore, che idea ti sei fatto della poesia di autori pugliesi? Pensi che ci siano autori di buona qualità? 
Sono sincero, sto ancora cercando di capire se quelli che vivono altrove, da più di dieci o vent’anni, possano considerarsi autori pugliesi solo perché sono nati qui e vivono la nostalgia del Sud. Se sì, ce ne sono certamente moltissimi. Se no, ce ne sono alcuni di buona e anche di ottima qualità, non sempre riconosciuti come meriterebbero. Poi ci sono anche un sacco di scresce e di gramigne, come immagino dovunque. 

E cosa pensi degli editori di poesia operanti in Puglia? Nel corso degli ultimi anni si stanno imponendo a livello nazionale? Concordi con questa mia sensazione? 

Lino Angiuli una volta mi disse che se volevo fare l’editore al Sud dovevo prepararmi a fare il doppio della fatica degli altri perché la strada, anche geograficamente, è due volte più lunga. Per cui penso che per fare gli editori qui bisogna avere buone gambe. Non conosco moltissimi altri editori pugliesi di poesia, in verità. Quei pochi che conosco li vedo sbattersi in giro a più non posso, per cui direi che già questo è buon segno di longevità editoriale. Quanto all’imporsi a livello nazionale non sono così convinto che si vada oltre la forma. A me pare che siamo ancora in una situazione di sudditanza editoriale che porta all’invisibilità. Non è che non sappiano che siamo bravi, ma semplicemente viviamo altrove, in questa sorta di confino rispetto ai centri di potere editoriale, e allora non ci considerano proprio.

Qualcuno era del Partito Democratico

film

Tu pensa come sto indietro che mi hanno chiesto qual è stato il film più significativo del mio 2017 e ho risposto Todo Modo di Elio Petri. Ancora mi stanno sfottendo.

sabato 2 dicembre 2017

lezioni di stile

(dalla nota interna al libretto di Come di aeroplani di Enzo Jannacci, pubblicato nel 2001): 

Enzo Jannacci, per questo suo ultimo lavoro, non intende ringraziare nessuno, perché piuttosto amareggiato da chi per più di quattro anni ha trovato un modo sublime di umiliarlo, incensandolo prima e dandogli una pedata nel culo subito dopo; in silenzio, per non farsi capire.

giovedì 30 novembre 2017

tenera è la gnocca

Finalmente ho cinque minuti per parlare del mio sogno di stanotte, il quale stranamente (poiché chi mi conosce sa bene che non è mia abitudine sognarle) è infarcito di donne, con particolari assai scabrosi che sconfinano nel bondage e nella coprofagia più spinta. Insomma, me le sogno in diverse posizioni e infoiato da tutto quel ben di Dio di corpi sodi e pronti a offrirsi, mi sento a tal punto ispirato da mettermi al lavoro e scrivere seduta stante un nuovo libro, giustamente intitolato (missando opportunamente la donna e la notte): Tenera è la gnocca. Lo propongo, nel sogno, a Giovanni Turi, temendo che forse storcerà il naso, invece Giovanni col solito aplomb mi dice: Senti, il libro non è male, ma il titolo mi sembra di averlo già sentito. Io, da bravo saputello, gli rispondo: Lo so, fa il verso a Francis Scott. E lui di rimando: No, credo che l'abbia già scritta Francesco Dezio questa storia. Ti conviene confrontarti con lui.

martedì 28 novembre 2017

la fabbrica


“Al centro del volume dell’autrice pugliese Marta Vignola sta quella Taranto sospesa, sin dai primi del Novecento, tra “guerra e pace”: tra cantieri navali, arsenali della marina militare e, naturalmente, acciaierie. Quella Taranto, insomma, “sequestrata” per circa un secolo da quelli che potremmo chiamare i superiori interessi dello Stato: per l’appunto la difesa, la produzione di un materiale fondamentale tanto ai fini bellici quanto civili e, infine, l’imperativo dell’industrializzazione forzata delle aree sottosviluppate. 
[...] Vignola, insomma, scava in un secolo di investimenti, retoriche e conseguenti riscritture del territorio. La storia economica dei luoghi – sostanzialmente fatta dalla Marina Militare, dall’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) e, infine, dall’Ilva della famiglia Riva – diventa così anche la storia dei quartieri e del territorio tarantino. Un territorio di volta in volta espropriato (per fini militari e di sicurezza, oppure produttivi), “scosso” (al fine di ridisegnare le demografie dei quartieri) e “riconnesso” (secondo logiche imperscrutabili, utili forse alla produzione ma non certo alla vita). E, naturalmente, inquinato oltre misura, nelle acque, nei suoli e nell’aria. 
La fabbrica è così la storia soprattutto della “naturalizzazione” della polvere – quella dell’acciaieria, presenza “materna” in grado di occupare, negli anni della massima espansione, sino a 30.000 persone.” 

lunedì 27 novembre 2017

motivazionale

Ho un fratello motivazionale, quando gli dico che sto lavorando a un libro di racconti mi fa: “Sei sicuro che sono racconti? Menomale, avevi rotto le palle con tutte quelle poesie! Poi fidati, non le leggeva nessuno, ti dicevano tutti che erano belle solo per gentilezza. Vedrai che adesso qualche copia la vendi!”

domenica 26 novembre 2017

la nostra voce non si spezza

Andate a dirlo a tutti
al presidente all’impiegato
andate a dirlo al papa
e al magistrato andate
e dite al sindaco al suo capo
la nostra voce non si spezza
nemmeno respirando
l’aria spessa nemmeno
con l’acqua alle ginocchia
mentre ci gridate state zitti
silenzio fate i bravi
la nostra voce non si spezza
è un continuo ronzare
e vi dà noia ma è rumore
d’aeroplano in partenza la voce
del motore che sale.

sabato 25 novembre 2017

una poesia di alejandra pizarnik

Anillos de ceniza
a Cristina Campo

Son mis voces cantando
para que no canten ellos,
los amordazados grismente en el alba,
los vestidos de pájaro desolado en la lluvia.

Hay, en la espera,
un rumor a lila rompiéndose.
Y hay, cuando vien el día,
una partición del sol en pequeños soles negros.
Y cuando es de noche, siempre,
una tribu de palabras mutiladas
busca asilo en mi garganta,
para que non canten ellos,
los funestos, los dueños del silencio.

 
Anelli di cenere
a Cristina Campo 

Sono le mie voci che cantano
affinché non cantino loro,
gli imbavagliati grigi nell’alba,
i vestiti di un uccello devastato nella pioggia.

C’è, nell’attesa,
un rumore di lillà che si rompe.
E c’è, quando arriva il giorno,
una partizione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.

(traduzione di Florinda Fusco)

venerdì 24 novembre 2017

prima linea

Mi chiedono perché la Chiesa è ancora così forte. Io direi perché nelle storie di sofferenza e di dolore del mondo e di questo paese è più facile trovare la Caritas, la parrocchia, la chiesa schierata in prima linea coi deboli che non il nostro PD o anche lo Stato, se è per questo. 

Sergio Staino

iniquità

Devo smetterla di leggere certi libri prima di andare a dormire, poi mi vengono i brutti sogni e mi risveglio col sospetto che può succedere anche nella realtà. 

«Anch’io, ve l’ho detto, cederei volentieri il mio posto al signor Amar. Ma, vedete, questo paese non è ancora arrivato a disprezzare il partito del signor Amar quanto disprezza il mio. Nel nostro sistema, il crisma del potere è il disprezzo. Gli uomini del signor Amar stanno facendo di tutto per meritarlo: e lo avranno. E una volta che lo avranno sapranno come legittimarlo. Perché il sistema consente di arrivare al potere col disprezzo; ma è l’iniquità, l’esercizio dell’iniquità, che lo legittima. Noi, quelli del mio partito che ci avvicendiamo alle poltrone ministeriali, siamo blandamente iniqui: per costituzione e per contingenza, perché non sappiamo e non possiamo essere più iniqui; lo siamo sempre meno, anzi. E voi avete sete di iniquità. Non soltanto voi della polizia, dico». 

Leonardo Sciascia, Il contesto, Adelphi

mercoledì 22 novembre 2017

il ghetto

                               per Carlo Tosetti 

Il ghetto a proprio corollario
afferma questo:
che al suo interno sei
non un escluso ma
recluso e dunque
più sicuro dall’esterno benché
ci si confonda facilmente
sulla nostra posizione a seconda
del grado d’incertezza
all’uso della porta a definire
cos’è dentro cos’è fuori
da noi stessi.

domenica 19 novembre 2017

divagazioni intorno a stoner

Stamattina ho cominciato a leggere Stoner di John Williams a cui, confesso, dopo tutte le meraviglie che se ne sono scritte, mi sono avvicinato forse eccessivamente guardingo. Eppure, al secondo capitolo mi par scritto bene, ma con quel pizzico di inclinazione al sentimentalismo che boh, mi lascia insoddisfatto (magari poi cambia). Al contempo sto leggendo Tempo di viaggio, diario di Russia di Tonino Guerra, modernissimo per scrittura rapida e penetrante, capitoli brevi e pieni di ironia, tanto che mi vien da pensare che se fosse sui social oggi, Guerra spopolerebbe. L'altro che sto leggendo molto in questo periodo è Leonardo Sciascia: Todo modo, Il contesto, L'affaire Moro, che sono di una apertura, lucidità e di un coraggio straordinari, soprattutto se inquadrati negli anni in cui furono scritti. Sciascia aveva le palle. Ecco, fosse per me lo farei studiare nei licei: è molto più utile e incisivo che tanti manuali, con possibilità di approffondimenti interessanti sul potere, sull'etica e sulla fede. Proprio Guerra, fra l'altro, col regista Francesco Rosi hanno ricavato la sceneggiatura di un film, Cadaveri eccellenti, dal Contesto di Sciascia che in meno di due ore non solo condensa la situazione italiana degli anni di piombo, ma anticipa gli attentati mafiosi ai giudici che verranno di lì a poco. Pensavo questo stamattina, mentre leggevo Stoner, che si fa tanto decantare di romanzi che si scrivono all'estero come opere assolute (Stoner, Sylvia, ecc. libri belli ma assoluti per nulla) e ci innamoriamo di questi eroi melanconici che consumano la loro vita nel Missouri, e non sappiamo nulla di quello che si scrive in casa nostra, dei nostri panni sporchi, finché non parlano in tv della morte di Riina e magari un ragazzo ti chiede chi è, e tu a chi dai la colpa se non lo sa, a lui che non si informa o a te stesso che non hai saputo dirglielo?

venerdì 17 novembre 2017

piccole gioie

Claudia mi ha detto una cosa carinissima. Ieri ha comprato Rivelazione e ha cominciato a leggerlo. Si è commossa, ha cominciato a piangere e non ha più smesso di leggere fino alle tre di notte. Poi mi scrive Nathalie, sempre su Rivelazione: Ho il tuo libro in mano e mi rendo conto di sorridere per tutto il tempo, è una delizia! Ti lascio che devo continuare a leggerti. Piccole gioie di uno scrittore da tre soldi.

giovedì 9 novembre 2017

la salute del papa

«E la salute, la salute del papa?» si informò l’industriale. 
«I papi» disse Don Gaetano «sono sempre in buona salute. Si può dire, anzi, che non solo muoiono in buona salute ma di buona salute. Parlo, si capisce, di salute mentale» rivolgendosi all'industriale «poiché la sua domanda, indubbiamente senza malizia, a quella alludeva… Altri mali, altri acciacchi, non contano». 
«Già» io dissi «non si è mai dato il caso di un papa che per età, per arteriosclerosi, cominci a sragionare. Voglio dire: non si è mai saputo». 
«Non si è mai dato, appunto» disse il cardinale. 
«Non si è mai saputo» ribadii. 
«Le cose che non si sanno, non sono» disse don Gaetano. 
«Io direi che certe cose possono non sapersi, ma sono» risposi. 
«Sì, d’accordo. Ma tenga presente che stiamo parlando della Chiesa, del papa» disse Don Gaetano. «Una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà. Quelle che in ogni altra cosa mondana non sarebbero che apparenze, a nascondere o a mistificare, nella Chiesa e in coloro che la rappresentano sono le interpretazioni o manifestazioni visibili dell’invisibile. E cioè tutto…» 

Leonardo Sciascia, Todo Modo, Adelphi

martedì 7 novembre 2017

grandezza

«Giacomo Noventa mi insegnò una cosa, che un poeta non deve aspirare alla mediocrità, ad essere “abbastanza bravo”. Un poeta deve aspirare alla grandezza». 

Giovanni Giudici

il serpente che si mangia la coda (ovvero l'ennesima storia editoriale senza lieto fine)

Mi scrive un giovane poeta per informarsi meglio del concorso che stiamo promuovendo, Luce a Sud Est. Il bando dice chiaramente che si vince (se si vince) la pubblicazione. Ma lui mi chiede (se vince) se invece gli diamo un premio in denaro. Gli rispondo che no, da regolamento si vince solo la pubblicazione, che comunque per noi ha un costo in denaro. Lui mi dice che della pubblicazione, oggi che ci sono i social, non sa più che farsene, gli basta il suo profilo con più di 5000 amici, quindi preferirebbe avere, se si potesse, il corrispettivo dei costi di stampa in denaro. Infatti, aggiunge, lui ad oggi non ha ancora pubblicato un solo libro ma tutti i giorni pubblica una poesia che ha decine di like. Gli basta quello. Gli dico che va bene, ho chiara la situazione, rispetto le sue scelte, ma noi al vincitore diamo per regolamento la pubblicazione: io non posso fare eccezioni e lui può benissimo partecipare a un altro concorso. Ma lui non demorde, e mi risponde che si è scocciato, perché è convinto di essere bravo, come dimostrano le decine di like che prende per i suoi versi, e si meriterebbe di vincere premi più importanti di quelli che danno in genere ai concorsi per poeti inediti (se va bene 150-200 euro), cioè in soldini i premi che si danno ai concorsi grossi dove ci si presenta con una pubblicazione (dalle 1000 euro in su). Ma se prima non pubblichi un libro, gli dico, a quei concorsi non accedi, è un processo scalare, di crescita anche sul piano del prestigio editoriale. Lui però è deciso, pieno di fervore non vuole pubblicare, lo trova un sistema vecchio e poco democratico, anche perché i concorsi sono tutti truccati. Eppure, se per quello che scrive gli basta la conferma dei social, allo stesso tempo vorrebbe anche una conferma economica, senza però passare dalle librerie. Insomma, continuiamo a rigirare sulle stesse corde per mezz'ora circa. Poi si scoccia di sentirmi dire che non caccio un euro per il concorso (se lo vince) e smette di rispondermi.

lunedì 6 novembre 2017

dalla sicilia con furore

Pensando alla Sicilia e a tutte le chiacchiere e i discorsi che si stanno facendo in queste ore, l'unica cosa che mi viene in mente è una frase di Gesualdo Bufalino che esprime tutta la mia povera e ridotta (lo confesso) visione politica, che diceva: "La mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari". Per questo credo che non ci sia salvezza nella politica, oggi, in Italia. Perché ancora non ne ho sentito uno che, parlando dei grandi problemi che affliggono questo paese, ritornasse ai fondamentali, alle basi, alla scuola intesa come formazione dell'individuo e non come parcheggio. Sarò noioso, lo so che torno sempre sullo stesso punto, ma è che ho ancora davanti il ricordo di mia nonna, contadina, che mi diceva che il momento in cui si è sentita più orgogliosa di sé è stato quando ha imparato a leggere. Mia nonna, con quel briciolo di cultura che si era conquistata sudando, era più libera dei tanti precari laureati, pieni di nozioni indirizzate alla ricerca del postofisso, ma senza un cuore del proprio sapere che dia l'esatta dimensione della loro profondità umana. Di chi è la colpa se sono così? Mia no di certo. Forse di qualcun altro più vecchio di me. O come diceva pochi giorni fa Camilleri, altro siciliano (cito a memoria): "Ho creduto anche io nel sogno di rifare nuova l'Italia, fra '45 e '48, ma mi porto nella tomba il rimorso di lasciare a mia nipote questo paese disastrato". Il danno è fatto. E i problemi seri, oggi, si risolvono con ben altro che con la licenza elementare, come ben ci rammentano tutte le persone preparate e lungimiranti che parlano in queste ed altre ore, a tutte le ore, senza mai un dubbio e qualcuna addirittura senza nemmeno l'istruzione.

venerdì 3 novembre 2017

lezioni di stile a un poeta

Mi dicono che eccedo in punti esclamativi
e che la vera classe è data a noi poeti
da una voce piana, in media res, che non
chieda mai ragione in quanto sa. Già sa.

Io però di medio – poiché sono mediocre –
ci metto solo il dito, che mi scatta spudorato
per un verso ben riuscito. Il dito orgasmico
puntato verso il retto dei professorini…

non ha prezzo

Ecco il momento in cui mio fratello, musicista diplomato in conservatorio e abituato alla crema della musica operistica europea, viene da me chiedendomi consulenza per il corso di musica pop che sta facendo e io gli infilo le cuffie nelle orecchie e faccio partire Clash, Rem, Bowie, Iggy e Lou Reed, non ha prezzo. Per tutto il resto non c’è niente, non l’hanno ancora inventato e se l’hanno inventato non è altrettanto bello.

giovedì 2 novembre 2017

bene

Ieri siamo andati da Enzo Cervellera per parlare della rivista Locorotondo e ricostruirne un po’ la storia. Così Enzo se n’è uscito con uno dei suoi aneddoti: «Eravamo in piazza, io, Franco Basile e Vito Mitrano, che guardavamo da una parte e Peppe Guarella, che guardava dall’altra. A un certo punto abbiamo sentito risuonare il passo, alle nostre spalle, di tacchi importanti. Peppe, che era l’unico girato da quella parte, comincia a fare segno a Vito Mitrano: “Tuccio, treminde ddè! treminde ddè!” Ci giriamo tutti quanti e vediamo questa stangona alta, imponente, bellissima. Vito se la guarda dalla testa ai piedi, poi si gira verso di noi e dice: “Alla mia età, l’unica cosa che si alza è la pressione!”». Ridiamo. Poi Enzo abbassa lo sguardo, e con un pizzico di malinconia aggiunge: «Sono stato un uomo fortunato, perché ho conosciuto persone di grande prestigio e intelligenza che mi hanno voluto bene, e io ne ho voluto a loro».

mercoledì 1 novembre 2017

ballare su una lama di rasoio

Nel 1987, in una intervista radiofonica, domanda delle domande, chiesero a Keith Jarrett di descrivere cosa fosse per lui la musica. Jarrett, senza scomporsi, cercando di sintetizzare i suoi sentimenti e la sua idea di ricerca artistica, rispose citando il verso di una canzone di Bob Dylan, Shelter from the storm, del 1974: "Beauty walks a razor’s edge", la bellezza cammina su una lama di rasoio. Dylan, però, conclude il verso aggiungendo con una eco tutta keatsiana: "Someday I'll make it mine", un giorno la farò mia, la bellezza. Jarrett questo lo omette, si ferma prima, non gli interessa. Non chiede di afferrarla, conquistarla, farla sua, quanto piuttosto di poter continuare a ballare con lei su una lama di rasoio. 

halloween

m’à pegghjète nu freddullazze de chíre
ca se sckàffe jínte all’ossere
ca me sentève già int’u tavùte
i me ne scève p’a chése amanteddéte
sotte i sette mànte cum a Bin Laden.


Traduzione:

HALLOWEEN
mi ha preso un freddo di quelli
che si infila nelle ossa
che mi sentivo già dentro la cassa
e me ne andavo per la casa avvolto
nelle sette coperte come Bin Laden.

lunedì 30 ottobre 2017

clery

la campana

Nell’ultimo fine settimana sono riuscito a coronare un sogno che mi portavo dietro da anni: visitare i luoghi in cui ha vissuto e scritto Tonino Guerra, Pennabilli, Santarcangelo. È stata una esperienza non solo poetica ma, per certi versi, spirituale. Il testo che pubblico qui sotto l’ho scritto direttamente dopo essere stato nel giardino di casa sua, profondamente commosso da quella visita. La foto, invece, non rende giustizia a quell’esperienza, a cominciare dal fatto che le manca il suono. Dedico questo post a Ewa, lettrice assidua di questo blog, che ho incontrato a Sogliano al Rubicone iersera. È venuta apposta da Bologna per conoscermi e io gliene sono grato. 


Nel punto più alto della casa di Tonino Guerra dove lo sguardo si allarga sull’intera valle intorno c’è una campana donata a Tonino dal Dalai Lama. Con Celeste siamo saliti fin lassù e dal punto più alto di quel mondo dove tutto è verde, dispiegato nelle varie tonalità dell’autunno o mischiato col rosso e l’arancione prima che si faccia rame, ho dato un colpo secco alla campana. Dal metallo si è sprigionato allora un suono potente, che non mi aspettavo da un oggetto così piccolo. Una vibrazione che come un’onda d’urto ha fatto tremare l’aria, me, noi, la valle intorno riverberando sopra ogni cosa e attraversandola. In quella vibrazione mi sono sentito catturato in un movimento universale che già c’era ma si è mostrato soltanto in quella luce, come quando sulla ragnatela si posa l’acqua dal primo mattino. Il movimento avvolgeva ogni cosa allo stesso modo, partendo dal centro della campana e allargandosi intorno per unirle nella sua eco, nell’identico abbraccio in cui tremavo e ridevo. Mi sentivo piccolo e in perfetta armonia con tutto, tanto che poco dopo mi sono girato e una farfalla mi volava intorno contenta e si è posata sulla mia spalla a riposare.

mercoledì 25 ottobre 2017

tifoserie

A me, certi giorni, questa società dei sensi di colpa postumi rompe le scatole. Non chi sbaglia, ma chi se la prende cascando dal pero. Prima ci si fa un mazzo così, come società "civile", per dimostrare che la cultura non si mangia, la scuola è una merda, gli insegnanti degli scoppiati repressi, e il sapere non è potere ma è da sfigati, poi dei fessi fanno gli striscioni allo stadio con Anna Frank e tutti si scandalizzano per l'offesa alla memoria, ma la memoria di chi? E tutti a citare un libro che quasi nessuno ha letto, in un paese dove non si legge manco la lista della spesa. Un paese che, come diceva Montanelli, è fatto di "contemporanei", gente senza passato e senza futuro. Finché non ti accorgi che quella offesa non è la memoria storica di una bambina vittima del razzismo (figurarsi, il razzismo allo stadio ci sta come la nutella sul pane), ma l'onore dei tifosi di quel sano sport tutto italiano che è il calcio (non per nulla continuo ricettacolo di soldi sporchi e mafie varie, mica come la scuola, abbandonata a se stessa nell'immaginazione pubblica dai tempi di Lino Banfi e Gloria Guida). E se sei tifoso, cioè italiano, non vuoi certo mischiarti con l'ignoranza di certa gente.

lunedì 23 ottobre 2017

le stelle fredde

Un uomo, un pubblicitario di successo abbandonato senza motivo dalla compagna e sofferente per alcuni problemi all’udito decide, di punto in bianco, di mollare il lavoro e la città e di trasferirsi nella sua vecchia casa in campagna, col padre con cui ha un rapporto di amore-odio. Viene qui minacciato da un uomo con cui aveva antichi rancori e quando questi viene misteriosamente ucciso, senza una logica apparente – essendo egli sospettato del delitto, ma non l’assassino – rifiuta di parlare con la polizia e si nasconde in un capanno poco distante dalla casa. Qui viene prima scovato da un poliziotto che però solidarizza con lui, poi incontra Dostoevskij redivivo che gli racconta com’è la vita nel regno degli oltrepassati. In questo suo rifugio lo raggiunge la notizia della morte di suo padre. Decide quindi di tornare a vivere da solo nella casa dove, per darsi ragione della sua stessa esistenza, comincia a stendere un lungo elenco di oggetti che lo circondano, poi a rievocare le immagini dei suoi morti, non riuscendo più a distinguere alla fine fra ricordi e fantasmi che ora occupano l’intera casa insieme a lui. Pubblicato nel 1970, vincitore dello Strega, Le stelle fredde di Guido Piovene, giornalista, è uno degli ultimi suoi libri, scritto quando Piovene era già venuto a conoscenza della malattia che di lì a poco lo avrebbe ucciso. Il linguaggio utilizzato è secco e duro, incisivo, senza fronzoli, esclude volontariamente qualsiasi possibilità di coinvolgimento emotivo da parte del lettore, che resta come stordito, meglio ancora raggelato dallo scorrere senza ragione dei fatti riportati. In tale nitore formale però, l’autore raggiunge a tratti una meditata eleganza poetica, soprattutto nelle ultime pagine che non offrono alcuna speranza, soltanto nuove dichiarate illusioni. È questo, in tutto e per tutto, un romanzo sulla fine della vita. Nota a margine: questo è il terzo libro scritto negli anni ’60 che leggo, in cui il protagonista è un pubblicitario scoppiato. Evidentemente all’epoca i pubblicitari non erano considerati persone frequentabili.

sabato 21 ottobre 2017

la poesia allo strega, lo strega alla poesia

Una delle esperienze più umilianti che ho avuto come editore mi è successa circa due anni fa – se la memoria non inganna – quando scoppiò quel mezzo scandalo sul Premio Strega che, date le quantità di libri gratuiti richiesti agli editori per l’iscrizione, era democratico di nome ma di fatto escludeva tutti i pesciolini come me. Mi contattò allora la giornalista di una testata nazionale, me come altri micro editori, per farmi le sue domande su cosa ne pensassi del premio. Io risposi alle sue domande con tutto il garbo possibile, le passai anche dei nomi di altri possibili intervistabili poi, quando venne fuori il fatto che fossi prevalentemente un editore di poesia – cosa di cui la giornalista non si era informata – venni con poche imbarazzate ma rapide scuse liquidato, e la mia intervista cancellata, perché il premio Strega è notoriamente un premio indirizzato alla narrativa e non mi riguardava. Fu come sentirsi ghettizzato due volte, primo perché piccolo e secondo perché votato alla pubblicazione di un genere sfigato come la poesia, dove persino chi prendeva posizione polemica contro le regole del premio, come appunto la giornalista, alla fine mi faceva fuori in nome del senso comune che vuole la poesia genere a parte – e la mia opinione ininfluente perché non interessata dal premio. Né però avevo le armi per darle torto, perché di fatto quando mai la poesia ha vinto allo Strega? Così salutai e incassai lo scorno. 
Fino a stamattina, quando mi è capitato fra le mani, dono dell’inestimabile Eva Hide, uno smilzo volumetto di dodici prose poetiche, ordinate come le stazioni della Via Crucis in una sorta di poemetto intitolato Nottetempo, casa per casa, scritto da Vincenzo Consolo e vincitore dello Strega nel 1992. Ecco che, per quello che sembra essere diventato il premio nell’immaginario comune, sembra quasi un miracolo. Il miracolo della poesia che vince, per quanto rivolto al passato. Il libro comincia così:
“E la chiarìa scialba all’oriente, di là di Sant’Oliva e della Ferla, dall’imo sconfinato della terra sorgeva nel vasto cielo, si spandeva – ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai parenti si negano i ritorni, siamo figli del Crudele, pazienza”.
E va avanti per circa 140 pagine in questa lingua che è poesia fino alla chiusa, bellissima e consolatoria: 
“Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”.

venerdì 20 ottobre 2017

misantropia

Nell’ultimo mese mi è stato rimproverato per ben due volte che ho la cattiva abitudine di non partecipare quasi mai ad eventi e attività culturali organizzate da altri, snobbando così, spesso e volentieri, anche quelle dei miei amici. Colto in castagna, ammetto che è vero, partecipo poco, ma a mia difesa va detto che fosse per me e per il mio grado di misantropia non parteciperei manco ai miei stessi eventi. Infatti, come ben sanno i miei amici che si disperano per me, pur non disdegnando i rapporti umani, non ho quasi alcuna vita sociale al di là del lavoro, difendo la mia vita privata coi denti, e se fosse nelle mie possibilità economiche me ne resterei chiuso in casa la maggior parte tempo proprio come facevano Salinger e Melville.

giovedì 19 ottobre 2017

antologia

Hanno fatto l'antologia di Milo De Angelis. A commento di questa notizia mi torna in mente una cosa che mi disse una volta Lino Angiuli, quando gli proposi di ristampare io le sue prime raccolte in un volume antologico. Lino mi disse: Le antologie si fanno ai morti. Lasciami scrivere che per farmi l'antologia ci sarà tempo.

lunedì 16 ottobre 2017

a un poeta in tv

Ma gli anni che ci ho messo a perdonarti
a sdoganarti da quell’ospite in Rai che a Giletti
spiegava i suoi poveri versi sul mare, Giuseppe –  
Conte di nome, ma ridotto a un qualsiasi peone
in TV – Giuseppe, mi dici tu chi me li abbona?